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“Minerale” non è necessariamente sinonimo di purezza. Negli ultimi anni si è parlato molto della presenza di microplastiche, con studi come quello condotto dalle università di Columbia e Rutgers, negli Stati Uniti, secondo cui un litro di acqua in bottiglia può contenere fino a 100 volte più nanoplastiche di quanto si stimasse in precedenza, con una media di quasi 250.000 frammenti. Oggi però l’attenzione si sta spostando sui PFAS, sostanze chimiche tossiche e difficili da eliminare.

In Italia, a sollevare nuovi interrogativi sulla qualità dell’acqua minerale è stata una recente indagine condotta da Altroconsumo su 21 marche di acqua naturale in commercio. Solo 11 hanno ottenuto una valutazione complessivamente positiva, mentre 6 sono state bocciate per la presenza di sostanze indesiderate come il TFA (acido trifluoroacetico), “inquinante eterno” appartenente proprio alla famiglia dei PFAS. Tra le etichette finite sotto osservazione compaiono nomi ben noti sulle tavole di milioni di famiglie italiane: Panna, Esselunga Ulmeta, Maniva, Saguaro (Lidl), Levissima e Fiuggi. Le ultime due, inoltre, sono state penalizzate anche per livelli eccessivi di arsenico.

Altroconsumo non si è limitata però ad analizzare solo l’acqua in bottiglia, ma ha confrontato la presenza di PFAS nelle acque pubbliche con quella delle acque minerali imbottigliate negli stessi territori, riscontrando livelli di TFA simili o leggermente inferiori. Una diffusione che mette in evidenza l’urgenza di stabilire limiti normativi specifici per questa sostanza nelle acque destinate al consumo umano, come si sta facendo in Italia con un recente decreto, in attesa che l’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) completi il proprio lavoro per limitare più in generale l’uso dei PFAS e l’UE “maturi” una messa al bando più ampia, a tutela della salute, dell’ambiente (e dell’economia, soprattutto di quella circolare).

L’indagine di Altroconsumo sui PFAS: nell’acqua in bottiglia anche il TFA

“Il test sulle acque minerali è un'indagine che conduciamo regolarmente, un confronto continuo tra diversi prodotti”, spiega a Materia Rinnovabile Claudia Chiozzotto di Altroconsumo.  “Analizziamo i parametri indicati sulle etichette delle bottiglie e, di volta in volta, cerchiamo di includere anche qualche contaminante emergente, in particolare quando si tratta di acque naturali. L’obiettivo è intercettare temi di attualità. Quest’anno, l’argomento centrale sono stati naturalmente i PFAS. La scelta è stata dettata sia dalla recente inchiesta di Greenpeace, sia dalla diffusione, nella seconda metà dello scorso anno, del Forever Pollution Project. Entrambi hanno avuto grande risonanza mediatica, soprattutto grazie alla mappa che mostra la distribuzione dei PFAS nei corpi idrici, pubblicata dall’Agenzia europea dell’ambiente.”

L’indagine ha valutato la composizione chimico-fisica dell’acqua (sali minerali, nitrati, fluoruri, metalli pesanti), la presenza di contaminanti, l’impatto ambientale e la praticità dell’imballaggio, oltre alla completezza dell’etichetta. Risultato? Solo 11 acque su 21 hanno ottenuto un giudizio complessivamente positivo. Tra le restanti, 6 sono state penalizzate soprattutto per la presenza di TFA.

“Abbiamo rilevato la presenza di PFAS totali, seppur in quantità inferiori al limite di rilevazione previsto dalla nostra metodologia”, continua Chiozzotto. “Tuttavia, il TFA è risultato presente nella maggior parte dei campioni di acqua in bottiglia che abbiamo analizzato. Sulla base di questi risultati, alcuni prodotti sono stati penalizzati, poiché presentavano una concentrazione di TFA che già oggi supererebbe il limite di 500 nanogrammi per litro fissato per le acque di rubinetto. Poiché non esiste ancora un valore limite specifico per le acque minerali, abbiamo adottato come riferimento quello attualmente in vigore per l’acqua potabile. La scelta è motivata dal fatto che il TFA è a tutti gli effetti un PFAS, rientrando nella definizione di ‘PFAS totali’ così come indicata dalla direttiva europea sulle acque potabili.”

Il confronto con l’acqua del rubinetto, “più sostenibile” e controllata

Altroconsumo ha deciso di approfondire ulteriormente la situazione, prelevando campioni anche dalle acque presenti nei dintorni delle sorgenti di acqua minerale. “L’obiettivo era verificare se la contaminazione fosse più elevata, più bassa o comunque presente anche nell’acqua di rubinetto nelle aree circostanti”, aggiunge Chiozzotto. “Le analisi sono state condotte in diverse zone del territorio italiano: provincia di Cuneo, provincia di Torino, provincia di Firenze e Sondrio. In particolare, sotto il Monviso si trovano numerose sorgenti e, all’interno dello stesso comune, può essere imbottigliato anche più di un marchio.”

I livelli di contaminazione rilevati da Altroconsumo nelle acque potabili sono risultati complessivamente allineati a quelli riscontrati nelle acque in bottiglia. In otto casi su dieci, l’acqua imbottigliata conteneva lievemente più TFA rispetto a quella delle fontanelle pubbliche. Solo in due casi l’acqua di rubinetto presentava una concentrazione superiore. Tuttavia, sottolinea Chiozzotto, “le differenze sarebbero minime, pochi nanogrammi per litro”.

Approfittando dei loro spostamenti, gli esperti di Altroconsumo hanno raccolto campioni anche in città, vista la ridotta dimensione dei comuni, prevalentemente montani, in cui si trovano le altre sorgenti analizzate. “Una notizia positiva è emersa, per esempio, dall’acquedotto di Milano, dove la concentrazione di TFA era più bassa. […] A Torino ho prelevato un campione alla Casa dell'acqua di piazza Galimberti e un altro alla fontanella comunale situata nella stessa piazza. Ho scelto l’acqua refrigerata pensando che potesse essere quella più utilizzata. Purtroppo, Torino ha mostrato valori piuttosto elevati: il campione della Casa dell’acqua è stato forse il più contaminato tra tutti quelli analizzati. Nelle fontanelle abbiamo cercato esclusivamente il TFA”, specifica Chiozzotto, ricordando la necessità di maggiori controlli.

“Gli imbottigliatori possono contare su serbatoi e riserve d’acqua estremamente stabili. Per questo motivo effettuano regolarmente analisi stagionali sulla qualità dell’acqua e possiedono una conoscenza approfondita e storica della propria risorsa. In molti casi si tratta di aziende che lavorano con grande attenzione per tutelare il patrimonio naturale che custodiscono, ovvero l’acqua minerale. Con la crescente diffusione di inquinanti, come i PFAS, le microplastiche e altre sostanze emergenti, diventa però sempre più necessario intensificare i controlli, sia sulle sorgenti che sui campioni di acqua imbottigliata. Il tema è complesso. Puntare costantemente il dito contro l’acqua potabile ha mostrato nel tempo effetti negativi, portando i consumatori ad allontanarsi dall’uso dell’acqua del rubinetto. Eppure, quella rimane la scelta più sostenibile in assoluto. Il consumo di acqua minerale comporta un impatto ambientale enorme, legato sia alla produzione della plastica che alle emissioni di CO₂ dovute al trasporto.”

Acqua del rubinetto che nel territorio italiano resta economica, sicura e conforme ai parametri di legge in quasi il 100% dei casi, come certificato nel 2024 dall’Istituto superiore di sanità (ISS). Un dato che evidenzia un paradosso: secondo il CENSIS, nonostante l’elevata qualità dell’acqua pubblica, nel 2022 l’Italia era il secondo paese al mondo per consumo pro capite di acqua in bottiglia, con 208 litri all’anno per abitante, superata solo dal Messico (244 litri).

“Questo non significa demonizzare le acque minerali, cosa che sarebbe del tutto fuori luogo. Tuttavia, i dati pubblicati da Altroconsumo, se non smentiti con evidenze migliori, sollevano certamente qualche preoccupazione”, commenta alla nostra testata Alberto Mantovani, presidente del Comitato scientifico dell'Osservatorio PFAS - Fosa ETS, ex dirigente dell'ISS, dove per trent'anni si è occupato di sostanze tossiche, e attualmente esperto dell'ECHA. “Tali preoccupazioni possono derivare dalla provenienza delle acque, ma anche dal percorso che queste compiono dalla sorgente fino all’imbottigliamento. Alla luce di ciò, credo che sia assolutamente necessario, come semplice atto di buon senso, incrementare il livello di attenzione nei confronti delle acque minerali, soprattutto considerando l’elevatissimo consumo che se ne fa in Italia. Non si tratta di un fenomeno di nicchia: coinvolge la stragrande maggioranza della popolazione.”

Perché limitare l’uso dei PFAS?

In occasione delle indagini, Altroconsumo ha lanciato una petizione per “chiedere al governo di sostenere, come già fatto da Germania, Paesi Bassi, Svezia, Norvegia e Danimarca, la proposta dell’Agenzia europea per le sostanze chimiche (ECHA) di limitare l’uso dei PFAS e all’UE una messa al bando più ampia di queste sostanze a tutela della salute e dell’ambiente”, come si legge in un comunicato.

“I dati più recenti sui PFAS a lunga catena − in particolare PFOS e PFOA − purtroppo confermano quanto già indicato dall’Autorità europea per la sicurezza alimentare. Parliamo di sostanze caratterizzate da una forte persistenza e da un’elevata capacità di bioaccumulo nell’organismo, legata in questo caso alle proteine, e non ai grassi come avviene invece per altri contaminanti più tradizionali. Questo rende l'accumulo corporeo di questi composti del tutto differente”, aggiunge Mantovani.

“Le valutazioni dell’Agenzia europea per la sicurezza alimentare (EFSA) sulla dose tollerabile cumulativa per i diversi PFAS a lunga catena appaiono dunque del tutto fondate. Si tratta infatti di una soglia estremamente bassa, giustificata dalla vulnerabilità dimostrata del sistema immunitario, ma anche di quello riproduttivo e della tiroide. Gli effetti non sono mai clamorosi o immediatamente evidenti, ma si manifestano a dosi ridotte e sono riscontrabili negli studi epidemiologici condotti sulla popolazione umana. Un altro effetto osservato è la riduzione del peso alla nascita, che probabilmente è dovuta a un’interferenza più sulla placenta che sul feto in sé. Anche in questo caso, non si tratta di un effetto eclatante a livello individuale, ma che su larga scala può avere un impatto rilevante. Una delle conseguenze più preoccupanti, soprattutto per i bambini, è la ridotta risposta vaccinale. Questo indica chiaramente un impatto concreto sulla salute. Su questo punto, direi che non ci sono davvero più dubbi. È ora di smetterla di continuare a sostenere, come purtroppo ho sentito fare ancora da parte di alcuni rappresentanti delle amministrazioni pubbliche, che ‘non ne sappiamo abbastanza’. Basta.”

PFAS, pericolosi per salute e ambiente, ma anche ostacolo per la circolarità

"Se, come Altroconsumo, li cerchiamo nell’acqua, li troviamo. Se, come Global 2000, li cerchiamo nel vino, li troviamo. Se, come accaduto negli States, li cerchiamo nella birra, li troviamo. Non è strano: i PFAS si sono diffusi in quanto ‘ottime’ sostanze, con proprietà anti grasso, anti-umido e antifiamma eccellenti, che li hanno resi adatti all’utilizzo in molti settori, dall’elettronica, al packaging, alle schiume antincendio, dai cosmetici ai farmaci. Se dispersi nell’ambiente, non si vedono, non hanno odore. Insomma, la perfetta molecola, un ottimo prodotto della nostra tecnologia… ma degli anni Quaranta”, dice a Materia Rinnovabile il presidente del Consorzio nazionale degli oli minerali usati (CONOU) Riccardo Piunti, ricordando come sempre più studi dimostrano come queste sostanze siano pericolose per la salute. “In Italia il nesso causale è stato già dimostrato dalla prima sentenza sulla morte di un operaio a Vicenza nonché l’infausta coincidenza dei 3 vigili del fuoco di Arezzo.”

Come spiega Piunti, quando si parla di PFAS c’è poi un lungo elenco di questioni che andrebbero comunicate in modo più chiaro. “Non è vero che quelli a catena corta sono ‘migliori’; anch’essi fanno danni simili, essendo più permeanti attraversano la pelle. Non è vero che possono essere facilmente rimossi dalle acque, perché, ammesso che ci si riesca, tornano nel ciclo attraverso la rigenerazione o la distruzione dei filtri esausti. Non è vero che sono distruttibili con la combustione, perché neppure a 1.400° si è sicuri che non si ricompongano o resistano. Altri metodi di distruzione sono ancora allo studio e intanto i PFAS persistono, insidiando poi l’economia circolare, perché si accumulano nei sistemi di gestione dei rifiuti o nell’acqua o dei fanghi di depurazione. Ed è altrettanto vero, infine, che non stiamo affrontando il tema in modo adeguato, a partire da necessari controlli a tappeto e non saltuari (magari affidati a ONLUS ambientaliste), alla ricerca di metodi di distruzione, allo studio delle alternative per l’utilizzo fino al bando progressivo della fabbricazione e uso.”

Con un caveat, come ricorda Mantovani: “Ora, i PFAS non sono semplicemente contaminanti ambientali: sono sostanze che hanno anche un’utilità reale. Dobbiamo perciò lavorare su sostituti efficaci, ma evitare di rimpiazzarli con composti altrettanto tossici per la fretta di uscire dal problema. In inglese si parla di regrettable substitution, la ‘sostituzione che poi si rimpiange’. Dobbiamo evitarlo.”

 

In copertina: immagine Envato