Se pure, contrariamente a quanto si crede, il famoso anatema cinese, “che tu possa vivere in tempi interessanti”, non sia affatto cinese, di certo il 2025 è stato (anche) per l’Asia un anno decisamente “interessante”.  I primi dodici mesi della presidenza Trump, come si temeva, hanno portato scompiglio nella regione, come nel resto del mondo, ridefinendo equilibri e strategie commerciali. Ma la guerra dei dazi è stato solo uno degli elementi destabilizzanti di questa turbolenta annata asiatica.

L’anno del Serpente, come da manuale, si è rivelato un periodo di grandi trasformazioni, tra rivoluzioni di piazza, elezioni, cambi di regime, governi ad interim, tensioni riaccese e conflitti minacciati. E sebbene il calderone stia ancora ribollendo, almeno un vincitore lo si può individuare nel movimento di giovani che ha impedito il colpo di stato in Corea del Sud e ha sfidato regimi e corruzione in paesi come il Bangladesh (già nel 2024), il Nepal, l’Indonesia, le Filippine (e lo sta facendo sottotraccia anche in Cina): quella Generazione Z, considerata apatica e distaccata, che invece si è dimostrata capace di uscire dalla rete dei social e riversarsi in strada per protestare e inchiodare la politica alle sue mancanze.

Chi ha perso è invece la diplomazia internazionale “as usual”, che dovrà trovare nuovi modi di operare in un mondo economicamente interdipendente ma con leadership spesso volubili.  Quanto alla crescita economica della regione, l’Asian Development Bank ha da poco rivisto le sue stime al rialzo con un complessivo 5,1%, merito soprattutto dell’inatteso boom di consumi interni in India, ma per il 2026 si prevede già un rallentamento al 4,6% a causa dei contraccolpi dei dazi. Nella certezza che anche il 2026 sarà un anno piuttosto interessante, ecco dunque un riassunto del 2025 asiatico.

Cambi al vertice

A dar conto della giostra di cambi al vertice che ha interessato nell’ultimo anno il continente asiatico, cominciamo da chi invece non cambia da ben 60 anni. A maggio si sono tenute le elezioni parlamentari a Singapore, indette anticipatamente dal premier Lawrence Wong, leader del Partito d’azione popolare (PAP) che governa ininterrottamente il paese dal 1965, anno dell’indipendenza. Wong, nominato direttamente dal suo predecessore, il dimissionario Lee Hsien Loong, cercava una conferma. E l’ha avuta: il PAP ha ottenuto il 65,6% dei voti, aumentando ancora il suo consenso nel piccolo stato del Sud-Est asiatico. Merito anche della posizione risoluta assunta da Wong − economista formatosi negli USA e già ministro delle finanze − nell’ambito della guerra dei dazi che, sebbene abbia colpito Singapore molto meno di altri paesi, è comunque fonte di grande preoccupazione per un’economia principalmente orientata all’export.

Decisamente più turbolento è stato il percorso verso le elezioni di giugno in Corea del Sud. Dopo il tentato colpo di stato dell’ex presidente Yoon Suk-yeol nel dicembre 2024, subito sventato dalla quasi totale opposizione del parlamento e da una immediata sollevazione popolare (a suon di K-pop!), le elezioni per il nuovo presidente hanno portato alla vittoria di Lee Jae-myung, leader del Partito democratico e già rivale di Yoon, che oggi è sotto processo per insurrezione e tradimento. Malgrado l’ammirevole reazione popolare di un anno fa, la società coreana appare tuttavia ancora divisa, con la destra che prende piede tra i giovani puntando su un sentimento anti-cinese, come si è visto nelle manifestazioni di piazza in occasione della visita di Xi Jinping a fine ottobre.

Anche l’altro storico rivale della Cina, il Giappone, è andato a elezioni il 4 ottobre 2025, consegnando la vittoria alla prima donna leader del paese, la “Lady di ferro” Sanae Takaichi. Considerata la delfina di Shinzo Abe, Takaichi fa parte della corrente più conservatrice del Partito liberal democratico (PLD): è contraria a molte riforme sociali, rigida sulle politiche per l’immigrazione, ma piuttosto flessibile su investimenti e politiche monetarie, caratteristica fondamentale nella delicata continGen Za economica internazionale. Purtroppo, le sue posizioni nazionaliste hanno generato nuove tensioni con la Cina sulla questione Taiwan. E così, rispetto alla primavera 2025, quando i dazi trumpiani sembravano aver portato a uno storico riavvicinamento fra Cina, Giappone e Corea del Sud, la fine dell’anno ci riporta alle rivalità di sempre.

Governi ad interim ed elezioni imminenti

C’è chi invece si prepara alle imminenti elezioni. Sia i cittadini del Bangladesh che quelli della Thailandia hanno infatti appuntamento alle urne a febbraio 2026, ma ci arrivano da situazioni ben diverse.

In Bangladesh c’è al momento un governo ad interim guidato dall’economista premio Nobel per la pace Muhammad Yunus (il “banchiere dei poveri”), nominato nell’agosto 2024 dopo le dimissioni della ex prima ministra Sheikh Hasina. Hasina, che guidava il paese con pugno autoritario da quindici anni, è stata costretta a fuggire in India dalle grandi proteste popolari partite dagli studenti nel luglio 2024 per denunciare corruzione e clientelismo. Il verdetto del Tribunale per i crimini internazionali del Bangladesh contro la ex premier, colpevole di aver causato 1.400 morti nella repressione delle rivolte, è arrivato a novembre: condanna a morte. Ma l’India, come ci si aspettava, rifiuta di concedere l’estradizione. Intanto il 21 dicembre, a Dacca, centinaia di migliaia di persone hanno partecipato al funerale di Sharif Osman Hadi, il leader delle rivolte studentesche assassinato il 18 dicembre durante la sua campagna elettorale. Ora il paese è di nuovo in ebollizione: di sicuro non il clima migliore per arrivare alla tornata elettorale del 12 febbraio, quando i bengalesi saranno anche chiamati a votare per il referendum sulle riforme istituzionali.

In Thailandia, il primo ministro ad interim Anutin Charnvirakul ha convocato elezioni anticipate per l’8 febbraio. Sono parecchi anni che, tra colpi di stato, regimi militari e leader in esilio, la politica thailandese non trova pace. L’ultima prima ministra, Paetongtarn Shinawatra, figlia del magnate delle telecomunicazioni ed ex premier in esilio Thaksin Shinawatra, è stata sospesa dall’incarico a luglio in seguito a una telefonata poco chiara al primo ministro cambogiano Hun Sen. Paetongtarn Shinawatra aveva a sua volta preso il posto, nel 2024, di Srettha Thavisin, destituito da una sentenza della Corte costituzionale thailandese. Ora le elezioni arrivano nel bel mezzo di un conflitto a bassa intensità con la Cambogia che, nonostante l’accordo firmato a Kuala Lumpur in ottobre sotto l’egida di Donald Trump, è ripreso a dicembre lungo il confine fra i due paesi. Un’instabilità politica che non fa certo bene all’economia thailandese che, con un tasso di crescita al 2%, è oggi la più “lenta” di tutto il Sud-Est asiatico.

La Gen Z scende in piazza

Ad andare alle urne nel 2026 ci sarà anche il Nepal, che chiude un anno davvero rivoluzionario.
Le proteste della Generazione Z nepalese, scoppiate a inizio settembre, sono dapprima state raccontate (almeno in Occidente) come una rivolta di ragazzini arrabbiati per il blocco delle più popolari piattaforme social. Il malcontento, in realtà, covava da tempo, e i giovani trovavano nei social network non solo una valvola di sfogo, ma anche un mezzo per far girare le informazioni sulla corruzione, il malgoverno e lo sfoggio spudorato di lusso della classe dirigente. I “nepo-kids” (“figli di papà”, diremmo noi) sono diventati il simbolo di una diseguaglianza non più sopportabile, specialmente in un paese dove la maggior parte della popolazione fatica a uscire dalla povertà, dove la mobilità sociale è praticamente inesistente e l’emigrazione è spesso l’unica soluzione praticabile. Così, quando il 4 settembre il governo di Kathmandu ha annunciato l’oscuramento di 26 social network, la Gen Z è esplosa. Ispirati anche dall’esempio del Bangladesh, i giovani nepalesi si sono riversati nelle strade con le proprie divise da studenti, mettendo letteralmente a ferro e fuoco la capitale. Il risultato sono stati 75 morti, centinaia di feriti e le dimissioni del primo ministro K. P. Sharma Oli. L’attuale prima ministra ad interim Sushila Karki, già a capo della Corte suprema, è stata scelta tramite consultazione online su Discord, praticamente il Whatsapp dei gamers. Ora le elezioni sono attese per marzo 2026: l’ex premier Oli si è ricandidato, ma potrebbe trovarsi di fronte il sindaco di Kathmandu Balendra Shah, giovane, anticonformista ed ex rapper (proprio come Zohran Mamdani).

Se il Nepal è stato il caso più eclatante, le proteste della Gen Z hanno tuttavia scosso anche altre parti dell’Asia. Mentre il Bangladesh, si diceva, è di nuovo in fermento, in Indonesia i giovani si sono mobilitati già in primavera per protestare contro le politiche di Prabowo Subianto, i tagli alla spesa pubblica, il tentativo di estendere il ruolo dei militari nella politica nazionale, la disoccupazione e lo sfruttamento dei lavoratori nella gig-economy.

Nelle Filippine, invece, le proteste giovanile sono esplose in novembre a seguito di uno scandalo legato a fondi per la gestione delle inondazioni, a cui lo stato insulare, a causa della crisi climatica, è sempre più soggetto. In 650.000 si sono riversati per le strade di Manila, per chiedere conto al presidente Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr. di miliardi di dollari apparentemente evaporati.

Insomma, la Gen Z si è svegliata. E quello che è successo nell’ultimo anno in Asia (ma non solo lì, si pensi al Madagascar, al Kenya, al Perù) è il segnale della discesa in campo di una nuova travolgente forza politica che nessun paese potrà più permettersi di ignorare. Compresi colossi emergenti come l’India o solidi giganti come la Cina (ma di questo parleremo presto).

 

In copertina: proteste a Jakarta, Indonesia. Foto di Iqro Rinaldi, Unsplash