Mentre a Belém si consumava l’ultimo deprimente atto della COP30, dall’altra parte dell’Atlantico, a Johannesburg, si svolgeva nel weekend del 22 e 23 novembre il primo G20 in un paese africano. Anche qui mancavano all’appello gli Stati Uniti, e anche qui la Cina è riuscita a catalizzare l’attenzione.
L’agenda decisa dalla presidenza sudafricana – e spudoratamente definita dalla Casa Bianca “anti-americana” – era fitta di tematiche complesse e urgenti, come la sostenibilità ambientale, le riforme commerciali e la ristrutturazione del debito del Global South, che hanno portato a una dichiarazione finale incentrata sul multilateralismo e sulla necessità di aiutare le nazioni in via di sviluppo ad affrontare grandi sfide come la crisi climatica e l’insicurezza alimentare.
Ma stringi e stringi, l’unico output davvero concreto del G20 sudafricano ha riguardato quello che era l’elefante nella stanza del summit: ovvero la filiera delle terre rare e la posizione di monopolio della Cina. In un rimpallo di rassicurazioni e recriminazioni, il premier Li Qiang ha infine giocato la sua carta, annunciando una nuova iniziativa di green mining a guida cinese “per l’uso pacifico delle risorse”, in cooperazione con 19 paesi e con l’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale (UNIDO).
Cooperazione e terre rare
La parola più usata nel discorso di Li Qiang al G20 è stata senza dubbio “cooperazione”. Il primo ministro cinese ha ribadito quello che è ormai un mantra della presidenza di Xi Jinping, ovvero l’appello alla responsabilità di tutti i paesi nella cooperazione per l’azione climatica, la sostenibilità ambientale e la transizione energetica; è poi passato a parlare di cooperazione nella ricerca scientifica e tecnologica, nello sviluppo agricolo e nell’impegno a garantire la sicurezza alimentare per tutte le nazioni in via di sviluppo, e naturalmente ha sottolineato l’importanza di cooperare per una governance sicura dell’intelligenza artificiale.
Infine, è arrivato al nodo delle terre rare. Qui Li Qiang si è dovuto adoperare non poco per far digerire la dissonanza fra l’invito insistito alla cooperazione da un lato, e dall’altro lo stretto controllo che la Cina esercita sulle forniture globali di minerali critici. Le restrizioni – si è giustificato il premier – sono necessarie “per gestire con cautela” le esportazioni di minerali con possibili applicazioni militari e prevenire così rischi per la sicurezza. Ma la Cina, ha aggiunto, si impegna a “promuovere una cooperazione reciprocamente vantaggiosa e l'utilizzo pacifico dei minerali critici”.
A questo punto, Li Qiang ha tirato fuori l’asso nella manica, annunciando ufficialmente la nuova iniziativa di green mining in collaborazione con l’UNIDO. La Green Minerals Global Economic and Trade Cooperation Initiative coinvolgerà 19 nazioni in via di sviluppo ricche di materie prime, fra cui Cambogia, Myanmar, Nigeria e Zimbabwe. L’obiettivo, come da dichiarazione ufficiale del Ministero del commercio cinese, è di “stabilizzare le catene di approvvigionamento di minerali”, rafforzando una cooperazione commerciale aperta, reciprocamente vantaggiosa, equa e ragionevole. Sono state proposte sette aree di azione: creazione di un ambiente politico stabile, liberalizzazione del green trade, adempimento delle responsabilità sociali, ampliamento dei gruppi beneficiari, approfondimento degli scambi tecnologici, rafforzamento della cooperazione in materia di investimenti e potenziamento dei meccanismi multilaterali.
Al momento non sono stati rilasciati dettagli, né sulle tempistiche di attuazione né sugli investimenti. Ma alcuni paesi del Global South hanno già messo le mani avanti: come ha dichiarato il presidente brasiliano Lula, quello che chiedono ora è di non essere più considerati semplici miniere da sfruttare, esportatori di materie prime e basta, ma di diventare parte attiva della filiera e di essere aiutati a sviluppare tecnologie per la raffinazione e la produzione.
A pensar male…
Se l’annuncio della nuova iniziativa voleva essere una rassicurazione per i tanti paesi preoccupati dell’egemonia cinese sui minerali critici, lo scopo non si può dire riuscito. Molti leader non hanno nascosto la propria apprensione, e già prima che iniziasse il summit una dichiarazione congiunta del G20 aveva lanciato un velato attacco alla Cina, denunciandone le “azioni commerciali unilaterali" che limitano l'accesso a minerali essenziali per nazioni manifatturiere come Germania e Giappone. Proprio la premier giapponese Sanae Takaichi, al momento in rapporti tesissimi con Pechino, ha lanciato una frecciata dichiarando che “la comunità internazionale è sempre più preoccupata per i sistemi di controllo delle esportazioni di minerali cruciali”.
Del resto, se a pensar male quasi sempre si indovina, la creazione di un network minerario con paesi in via di sviluppo ricchi di materie prime sembrerebbe proprio un sistema per costruire un blocco solido da contrapporre a quello che gli Stati Uniti stanno cercando di crearsi con vari accordi tra Sud-Est Asiatico e Australia. E non pare proprio un caso che il ministro degli esteri Wang Yi, giusto in quei giorni (19-22 novembre), fosse in tour in Asia centrale, in paesi ricchi di metalli strategici come Kirghizistan, Tagikistan e Uzbekistan, per rafforzare la cooperazione commerciale e, ovviamente, quella nel settore minerario.
In copertina: il premier cinese Li Qiang G20/Flickr
