Era il 2013 quando Xi Jinping annunciò per la prima volta, durante una visita in Kazakistan, la sua visione di una “cintura economica lungo la Via della Seta”. Quella che poi divenne nota come la Belt and Road Initiative (Yīdài yīlù), e che è arrivata a coinvolgere 150 nazioni in tutto il mondo, nasceva allora soprattutto per intensificare gli scambi e rafforzare i rapporti con i paesi dell’Asia centrale.

Ma già c’erano in nuce i quattro pilastri che negli ultimi anni hanno reso la Belt and Road Initiative (BRI) uno straordinario strumento di soft power per la potenza cinese: espansione commerciale, cooperazione finanziaria, sviluppo infrastrutturale e – tratto distintivo rispetto agli altri “imperi” dell’era moderna – la promessa di non ingerenza politica.

Ciò che mancava a quella Belt and Road in embrione era la vocazione green. Ma oggi che “cleantech” e “sostenibilità” sono diventate le parole d’ordine per la nuova immagine di potenza responsabile della Cina, anche le sue emanazioni lungo la Via della Seta devono, o dovrebbero, seguirne la direzione. Certo non è semplice cambiare radicalmente traiettoria, dopo anni di investimenti in fossili e mega progetti realizzati senza troppo riguardo per gli impatti ambientali. Ma quello che non possono fare i proclami lo stanno facendo la convenienza economica e soprattutto la sovracapacità dell’industria cleantech cinese, oggi sempre più smaniosa di esportare la transizione.

E a ribadirlo sul più importante palcoscenico della politica internazionale, l’Assemblea generale dell’ONU, è stato lo stesso Xi Jinping, facendo appello al mondo affinché venga “garantito il libero flusso di prodotti green di qualità, in modo che i benefici di uno sviluppo sostenibile possano raggiungere ogni angolo del pianeta”.

Tutte le strade partono da Pechino

Da quando nel settembre 2013 arrivò in Europa la Yong Sheng, la prima nave commerciale cinese attraverso il Mar Glaciale Artico, dopo 34 giorni di navigazione dal porto di Dalian a quello di Rotterdam, se ne è fatta di strada. O meglio, se ne sono fatte di strade, ferrovie, porti, dighe, centrali elettriche, fabbriche, gasdotti, elettrodotti, parchi solari ed eolici, miniere…

Negli ultimi dodici anni la Belt and Road si è espansa a macchia d’olio, arrivando a coinvolgere praticamente tutto il Global South e parte dell’Europa: quasi tutta l’Asia tranne India e Giappone, tutta l’America Latina escluso il Brasile (che però costruisce grandi infrastrutture con società statali cinesi), l’Africa, l’Europa dell’est e 16 membri dell’UE (fra cui Grecia, Portogallo, Polonia e soprattutto Ungheria). Sono oggi in tutto 150 paesi, di cui 146 hanno firmato un memorandum di intenti. E gli unici due a uscire dalla partita sono stati l’Italia nel 2023 (ma la premier Meloni è volata a Pechino l’anno dopo per firmare un partenariato strategico, che non si sa mai...), e Panama nel 2025, dietro insistente richiesta dell’amministrazione Trump.

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È chiaro che in tutti questi anni il puzzle degli investimenti e degli appalti della BRI non poteva rimanere fisso. Se l’Africa è più o meno una costante, per il resto del mondo si osservano nel corso del tempo vari saliscendi sulla scala del coinvolgimento.

Abbiamo dunque chiesto una fotografia aggiornata a Christoph Nedopil Wang, economista e direttore del Griffith Asia Institute di Brisbane, nonché uno dei più autorevoli osservatori al mondo della Belt and Road (i suoi report semestrali sono consultati praticamente da tutti i think tank sulla Cina). “Stiamo assistendo negli ultimi anni a un crescente coinvolgimento del Medio Oriente, mentre è sempre meno presente il Pakistan, che era stato fra i protagonisti all’inizio", ci dice. "C’è poi una crescita costante dell’engagement per l'Indonesia, che comprende sia gli investimenti finanziari che l'impegno politico con la Cina.” Un interessante exploit nel primo semestre del 2025 lo ha registrato la Nigeria, al primo posto per crescita in appalti, dovuta, spiega Nedopil, “principalmente all'annuncio di un progetto per il gas da 20 miliardi di dollari e a uno per l'idrogeno da 10 miliardi. Ma dubito che i progetti verranno implementati esattamente come annunciato.”

“Più serio è invece il boom di investimenti in Kazakistan, che sta sviluppando un solido settore metallurgico con la Cina, con un modello di business molto chiaro”, aggiunge Nedopil. Infine, un altro paese da tenere d’occhio è l’Ungheria, che funge da porta di accesso all’Europa: “Temo che l'UE non sappia esattamente come gestire la situazione, ma credo sia positivo che i cinesi forniscano ottime tecnologie all’Ungheria, in particolare nel settore EV e batterie, ad esempio con CATL. Del resto la BRI non è più quella dei primi anni, incentrata su strade e ferrovie. Ora si punta sull’engagement tecnologico”.

Quanto e in cosa si investe

Fino a oggi, il valore degli appalti e degli investimenti nella nuova Via della Seta ammonta a 1.308 miliardi di dollari, di cui 775 in contratti di costruzione e 533 in investimenti non-finanziari. C’è stato ovviamente, a un certo punto, un calo strutturale, tanto che, in occasione del decennale della BRI, qualcuno ne ha aveva già decretato la prematura fine. Ma la crescita registrata dal Griffith Asia Institute nel primo semestre 2025 (124 miliardi di dollari, più del totale del 2024), racconta una storia ben diversa.

“La Belt and Road ha raggiunto il suo apice tra il 2017 e il 2018, con il massimo valore dei prestiti sovrani garantiti dallo stato per progetti infrastrutturali all'estero”, ci spiega Kate Logan, direttrice del China Climate Hub presso l’Asia Society Policy Institute di Washington. Una volta costruito il grosso, “si è poi assistito a un cambiamento generale, e oggi ci si sta spostando verso quelli che la Cina definisce progetti ‘piccoli ma belli’ (xiǎo ér měi), che comprendono gli impianti di energia rinnovabile, generalmente di dimensioni molto più ridotte rispetto, ad esempio, a una centrale a carbone. Si è così registrato un enorme aumento degli investimenti diretti esteri da parte di aziende cinesi del cleantech, in particolare nei settori delle batterie, dell'energia solare e dei veicoli elettrici. Sono aziende che, spinte dalla feroce concorrenza sul mercato domestico, esportavano i propri prodotti, ma negli ultimi due o tre anni hanno cominciato a investire direttamente nei progetti della BRI”.

Panda o drago?

L’avanzata del settore cleantech non deve però far cantare vittoria troppo presto sul lato sostenibilità. Se l’ultimo report del Griffith Asia Institute registra un nuovo record nelle energie rinnovabili, con progetti per 9,7 miliardi di dollari tra eolico, solare e termovalorizzazione nella prima metà dell’anno, rileva anche un massimo storico di 30 miliardi di dollari negli appalti in Oil & Gas.

Quindi una buona o una cattiva notizia? “Il problema con la Cina è che non si capisce mai se è panda o drago”, commenta Nedopil. “Sicuramente è positivo che ci sia una crescita costante nelle rinnovabili e in generale nelle tecnologie green. Ma sul lato fossile serve ora andare più a fondo nell’analisi dei dati, perché pare che, nonostante l’impegno preso dalla Cina nel 2021 di non costruire più nuove centrali a carbone all’estero, ci siano in realtà consistenti investimenti cinesi in questo settore.”

Del resto anche lo studio condotto dalla Boston University su dati fino al 2023 e intitolato fiduciosamente No New Coal, aveva rilevato come “tra il 2022 e il 2023 fossero entrati in funzione 8 GW di capacità a carbone, con ulteriori 9 GW pianificati o in costruzione”.

“Anche se non ci sono stati nuovi progetti importanti ci sono però state espansioni di centrali in cui erano già stati fatti investimenti”, spiega Kate Logan. E poi c’è la questione dell’energia captive coal, cioè le centrali a carbone “vincolate” costruite per alimentare specifiche attività industriali, ma non collegate alla rete e quindi difficili da tracciare. “L’esempio più paradossale è l’Indonesia, dove queste centrali a carbone off-grid servono per alimentare l’estrazione e la lavorazione del nichel, su cui le aziende cinesi investono per la produzione di batterie destinate al mercato EV.”

Sulla strada del verde

Carbone a parte, sono molteplici gli impatti ambientali e sociali generati dalla massiccia e rapida avanzata della Belt and Road: miniere che devastano ecosistemi, dighe che sradicano popolazioni indigene, fabbriche che inquinano. Insomma, tutto il consueto corollario di effetti indesiderati dello sviluppo infrastrutturale (non solo cinese).

Nei primi anni della BRI, Pechino non se ne è curata troppo: da un lato, in osservanza del consolidato principio cinese di non interferenza nella governance dei paesi stranieri; dall’altro perché, come osserva Kate Logan, “non è semplice gestire progetti che sono soprattutto bottom-up, guidati da imprese singole senza una strategia onnicomprensiva”.

Tuttavia, a partire dal 2020, dal Ministero dell’ambiente e dell’ecologia e da quello del commercio sono arrivate una serie di linee guida che, se pure non legalmente vincolanti, servono almeno a dare una direzione. Si è partiti con una bozza di tassonomia “a semaforo”, per distinguere i progetti ad alto rischio ambientale da quelli sostenibili; poi sono state pubblicate le Green Development Guidelines for Overseas Investment and Cooperation nel 2021, e le Guidelines for Ecological Environmental Protection of Foreign Investment Cooperation and Construction Projects nel 2022, che chiedono trasparenza sugli impatti ambientali e coinvolgimento diretto delle comunità indigene.

“Si tratta di linee guida con una portata ampia, ma scarne nei dettagli”, scrive su Dialogue Earth Chen Yu, consulente legale indipendente di Law & Sustainability. “Delineano princìpi, non procedure, e sono prive di strumenti di attuazione, meccanismi di responsabilità o parametri di riferimento chiari. In pratica, questo lascia le aziende in gran parte libere di autodefinire la compliance.” Inoltre, non sono chiari gli incentivi. “Le linee guida non sono vincolate all'accesso ai finanziamenti, ai vantaggi delle licenze o ai benefici reputazionali che potrebbero incoraggiarne un'adozione più ampia”, continua Chen. Ne consegue che al momento, se le aziende cinesi all’estero implementano buone pratiche, sono più che altro “guidate dalle pressioni del mercato o da una leadership aziendale proattiva individuale”.

Anche se poco stringenti, le linee guida hanno tuttavia una loro importanza. “Offrono un segnale politico, un punto di riferimento condiviso e un'autorità morale”, conclude Chen Yu. E, al momento, “rappresentano l'impegno più chiaro della Cina per gli investimenti responsabili all'estero.” Una luce verde che, si spera, indicherà la direzione sulla nuova Via della Seta.

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In copertina: foto Shuttertosck