Giovedì 18 settembre il Consiglio Ue Ambiente avrebbe dovuto votare sulla nuova legge sul clima, che propone un obiettivo di riduzione delle emissioni di gas serra del 90% entro il 2040. Ma, nonostante gli sforzi diplomatici della presidenza danese, diversi paesi - tra cui l'Italia - hanno chiesto di rimandare il voto, creando uno stallo preoccupante, che rischia di scalfire la leadership climatica europea in vista della COP30 di Belém, in Brasile.

Senza un accordo sul target al 2040, i Ministri non sono riusciti a definire neppure il Nationally Determined Contribution (NDC) per il 2035, da presentare il 24 settembre al Climate Summit di New York. Per guadagnare tempo, la Danimarca – presidente di turno del Consiglio – ha proposto di portare al vertice ONU una semplice “dichiarazione di intenti” anziché un obiettivo preciso. Secondo una bozza non ufficiale, l’ipotesi sul tavolo prevede comunque una riduzione “provvisoria” delle emissioni compresa tra il 66,3% e il 72,5% rispetto ai livelli del 1990.

“È una vergogna che l'UE non rispetti la scadenza degli NDC, ben nota da diversi mesi - commenta a Materia Rinnovabile Sven Harmeling, responsabile Clima di Climate Action Network (CAN) Europe. “Riconosciamo i grandi sforzi compiuti dalla presidenza danese nelle ultime settimane per raggiungere un accordo sull'obiettivo del 2040 e il relativo NDC, ma questi sforzi sono stati vanificati da alcuni Stati membri, nonostante le numerose concessioni già fatte”, aggiunge Harmeling, riferendosi al criticato ricorso ai crediti di carbonio previsto da Bruxelles.

Il blocco di paesi che chiede flessibilità

Proposto dalla Commissione europea lo scorso 2 luglio, il target di riduzione del 90% è in linea con le raccomandazioni scientifiche dello European Scientific Advisory Board On Climate Change (ESCABCC) e con il percorso di neutralità climatica promesso dal Green Deal. Tuttavia non mette d’accordo tutti gli Stati membri, in particolare per le sue modalità.

“Il nodo centrale delle proposte che abbiamo visto in queste settimane resta quello delle condizioni abilitanti”, ha dichiarato Gilberto Pichetto Fratin, Ministro italiano dell'ambiente e della sicurezza energetica durante il meeting ministeriale. “Non possiamo chiedere alle nostre imprese di competere a livello globale con regole più rigide e senza adeguati strumenti finanziari. Senza un sistema europeo coerente e senza protezioni efficaci, la transizione rischia di alimentare disuguaglianze e divisioni, anziché rafforzare l’Unione”.

Secondo il governo italiano i crediti di carbonio sono strumenti finanziari essenziali per attrarre investimenti e i target climatici si raggiungono lasciando spazio a tutte le tecnologie: dal nucleare al carbon capture & storage.

Anche altri paesi, tra cui Repubblica Ceca, Malta, Austria, Slovacchia, Romania, Ungheria e Lettonia, chiedono maggiore flessibilità su alcuni punti della legge sul clima, rimandando di fatto le discussioni al prossimo Consiglio europeo del 23 ottobre.

“I target più ambiziosi, quelli raccomandati dalla scienza, consentirebbero maggiore competitività e indipendenza energetica alle imprese europee", spiega a Materia Rinnovabile Francesca Bellisai, analista di politiche europee e di governance del think tank italiano per il clima ECCO. “Alcuni paesi come l’Italia chiedono più flessibilità, ma è una politica poco lungimirante, che rischia di allargare il gap con la Cina”.

Mentre la Francia vive una crisi politica che non le permette di prendere decisioni a lungo termine, anche la Germania chiede tempo prima del voto, nonostante le recenti dichiarazioni del ministro dell'ambiente tedesco Carsten Schneider, socialdemocratico (SPD), che invitava i ministri UE a risolvere l’impasse politica. 

I punti da chiarire sul ruolo dei crediti di carbonio

Durante la discussione, diversi ministri hanno invocato una maggiore libertà di manovra anche sul piano finanziario, attraverso il ricorso ai crediti di carbonio. Una soluzione che lo European Scientific Advisory Board on Climate Change (ESCABCC) ha però sconsigliato, perché rischia di sottrarre risorse agli investimenti diretti nella decarbonizzazione nazionale.

Nonostante i dubbi, la Commissione europea propone di introdurre dal 2036 l’utilizzo di crediti internazionali, fino a coprire una quota pari al 3% delle emissioni nette di CO₂ del 1990. Sebbene possa sembrare una cifra esigua, secondo un'analisi dell'Oeko Institut, le emissioni nette dell'UE nel 2040 potrebbero tradursi in emissioni nette nel 2040 fino al 30% più alte rispetto al target fissato. In altre parole: le emissioni lorde potrebbero restare elevate, purché compensate da un “ombrello” di carbon credits.

Inoltre, non è ancora chiaro se il 3% si riferisca al totale dei crediti ammissibili tra il 2036 e il 2040, o piuttosto su base annua. In quest'ultimo caso secondo l’organizzazione no profit Carbon Market Watch, entro il 2040 potrebbero essere utilizzati oltre 700 milioni di crediti di carbonio.

Mentre l’Europa ha appena vissuto la terza estate più calda di sempre, e oltre un milione di ettari di vegetazione è stato divorato dalle fiamme, il Consiglio europeo non ha ancora trovato un accordo sul proprio futuro climatico. Il tempo stringe.