Trentacinque miliardi di metri cubi di biometano all’anno entro il 2030. È l’obiettivo che l’Europa si è data con il piano REPowerEU, il grande progetto lanciato nel 2022 per ridurre la dipendenza dal gas russo e accelerare la transizione energetica. Un traguardo ambizioso: oltre dieci volte la produzione attuale, sostenuto da una linea di credito europea da 37 miliardi di euro. Ma, come spesso accade nella corsa alla “neutralità climatica”, i numeri non bastano.
Dietro l’ottimismo delle strategie si nascondono dubbi, tensioni e un interrogativo di fondo: quanto è davvero sostenibile questa espansione del biometano? Il rapporto Biogas Policies in the EU: Levelling up or locking in?, pubblicato in questi giorni dalla ONG Profundo insieme alla coalizione Methane Matters, invita a guardare oltre le cifre. Il documento mette in discussione due questioni chiave: le perdite di metano lungo la filiera produttiva e il ruolo crescente dei grandi gruppi energetici che stanno ridisegnando il mercato europeo del biogas.
Per capire di cosa parliamo, serve una distinzione tecnica, ma essenziale. Il biogas nasce dalla fermentazione anaerobica, in assenza di ossigeno, di materiali organici − scarti agricoli, residui alimentari, letame − e contiene circa il 60% di metano. È una miscela “grezza”, utilizzabile per produrre calore o elettricità. Il biometano, invece, è il biogas raffinato: grazie a un processo detto di upgrading, cioè di purificazione, l’anidride carbonica viene rimossa e il contenuto di metano supera il 90%, rendendolo equivalente al gas naturale fossile. Può essere iniettato nella rete o usato come carburante. È su questa forma che si gioca la grande scommessa europea, ma le criticità ambientali emergono lungo tutta la filiera, dal biogas iniziale al prodotto finale.
Il problema delle perdite di metano
Il primo nodo è invisibile ma cruciale: le perdite di metano. Secondo il Joint Research Centre della Commissione europea, circa il 5% del metano prodotto nella filiera del biogas e del biometano si disperde in atmosfera. Ma il nuovo rapporto dell’International Energy Agency, anch’esso citato nel documento di Profundo, riporta che durante la fase di produzione le perdite potrebbero arrivare fino al 12%, sulla base di rilevazioni dirette in impianti reali. Entrambe le fonti sono elencate nel rapporto, che sottolinea come la variabilità dei dati rifletta non solo le diverse metodologie di misura, ma anche le disuguaglianze tra impianti moderni e strutture più datate o scarsamente manutenute.
Il metano è un gas serra ottanta volte più potente della CO₂ su un orizzonte di vent’anni: anche piccole fughe possono cancellarne i benefici climatici. Le perdite possono avvenire in ogni punto della catena: nella produzione, nel processo di upgrading, nello stoccaggio e nel trasporto. “In Danimarca un’indagine ha misurato concentrazioni di metano fino a sedici volte i livelli di fondo vicino a un impianto di biometano, nonostante il limite legale dell’1%”, si legge nel dossier. In Germania, dove la normativa è tra le più severe, il 69% degli impianti ispezionati nel 2023 mostrava ancora “carenze significative”. E a livello europeo, come sottolinea il rapporto, non esistono ancora standard comuni né un sistema di monitoraggio obbligatorio delle perdite, a differenza del gas fossile, ora regolato dalla Methane Regulation del 2024.
Il contraddittorio: potenziale sostenibile e necessità di monitoraggio
Non siamo nel campo del bianco e nero: per capire quanto il biometano sia fino in fondo sostenibile, dobbiamo osservare la scala dei grigi, contenuti in altri studi, anch’essi richiamati nel rapporto, che invitano a distinguere tra il potenziale teorico e le pratiche effettive di gestione del metano.
Secondo la IEA, l’Agenzia internazionale dell’energia, il potenziale produttivo sostenibile globale del biometano sfiora i 1.000 miliardi di metri cubi all’anno, pari a un quarto della domanda mondiale di gas naturale. L’80% di questa riserva si concentra nei paesi emergenti – Brasile, Cina e India – mentre l’Unione Europea ha già sfruttato circa il 40% del proprio potenziale da rifiuti. Il vero limite, dunque, non è la scarsità di risorse, ma la loro gestione sostenibile. Lo stesso rapporto IEA riconosce che gli impianti di biogas e biometano oggi emettono tra il 2% e il 5,5% della loro produzione, valori più alti rispetto all’industria petrolifera e del gas, e che la riduzione di queste perdite è essenziale per sostenere la validità ambientale del settore.
L’ingegnere ambientale Mario Alejandro Rosato, esperto di digestione anaerobica e autore del volume Optimising Biogas Plants, offre un’altra chiave di lettura: le perdite, ha scritto in una recente pubblicazione, potrebbero essere sovrastimate a causa di metodi di calcolo non standardizzati. Si sbilancia dicendo che la questione perdite può essere enfatizzata da “fan ideologici della Von der Leyen”, anche se egli stesso riconosce che gli impianti più datati e mal gestiti restano un problema reale, mentre in quelli moderni la riduzione delle fughe è soprattutto una questione economica: ogni molecola che scappa è un mancato guadagno.
La soluzione, per tutti, converge su un punto: servono regole uniformi e un monitoraggio continuo. La World Biogas Association ha già avviato un quadro regolatorio globale per il biogas e un sistema internazionale di certificazione per la digestione anaerobica. In Italia, il progetto BioMethane Tracer in Emilia-Romagna sperimenta tecnologie laser per monitorare in tempo reale le emissioni fuggitive. Il dibattito, quindi, non è se il biometano possa essere sostenibile, ma a quali condizioni. Quanto di questo potenziale è davvero accessibile senza compromettere gli obiettivi climatici? E quali garanzie servono per assicurare che la crescita del settore non tradisca la sua promessa di sostenibilità?
Chi investe nel biometano europeo
Mentre la discussione tecnica prosegue, i capitali corrono veloci. Tra il 2016 e il 2025, le imprese specializzate in biogas hanno raccolto poco meno di dieci miliardi di euro. Ma dal 2022, con la spinta di REPowerEU, i finanziamenti sono impennati: 1,1 miliardi nel 2022, 2,2 nel 2023, 2,9 nel 2024.
Nel corso degli anni, gran parte dei fondi è andata a due aziende: la britannica Severn Trent, con oltre 7 miliardi di euro, e la polacca Enea, che ne ha ricevuti circa 1,5. Entrambe siedono nei tavoli europei che definiscono i criteri di sostenibilità per i feedstock, cioè per le materie prime di alimentazione del ciclo produttivo energetico. Tra i principali finanziatori figurano NatWest Bank, KfW, Mizuho Financial e Mitsubishi UFJ.
Parallelamente, le grandi compagnie di energia e industria alimentare stanno entrando nel settore: Shell ha acquistato Nature Energy e i suoi tredici impianti danesi; TotalEnergies ha acquisito il principale operatore polacco e punta a raddoppiare la capacità entro il 2030; Repsol sta costruendo diciannove impianti tra Spagna e Portogallo. A coordinare la visione c’è la Biomethane Industrial Partnership (BIP), un’alleanza pubblico-privata con oltre 175 membri, tra cui la Commissione europea, i ministeri nazionali e le principali imprese del settore.
Poi c’è il capitolo letame, come abbiamo visto, la materia prima per il biogas. Dal 2019, il suo impiego è cresciuto rapidamente. Nella metodologia europea (RED III), il letame è considerato “a emissioni zero” dal punto di raccolta e può perfino generare “crediti di emissioni evitate”. Ma questa contabilizzazione non considera le emissioni di metano prodotte dagli animali stessi – che rappresentano il 49% delle emissioni agricole europee – né gli impatti sul suolo e sull’acqua dovuti alle colture destinate ai mangimi.
Valutare prima di accelerare
Il biometano insomma offre benefici reali: riduce i rifiuti organici, evita la discarica, produce fertilizzanti dal digestato. Ma senza una valutazione d’impatto ambientale preventiva, la sua promessa di sostenibilità rischia di diventare un’illusione. Le raccomandazioni della coalizione Methane Matters vanno in questa direzione: valutare gli impatti ambientali del target REPowerEU prima di ampliarlo, introdurre sistemi obbligatori e uniformi di rilevazione e riparazione delle perdite, fissare limiti sostenibili all’uso del letame, evitare che gli incentivi al biogas alimentino l’allevamento intensivo e preservare la gerarchia dei rifiuti, privilegiando prevenzione e compostaggio rispetto alla digestione anaerobica.
La distanza tra ciò che è tecnicamente possibile e ciò che è ecologicamente giusto è lo spazio dove si gioca la credibilità della transizione. Il metano che sfugge dai digestori non fa rumore, ma potrebbe pesare sul clima tanto quanto quello dei pozzi fossili. E i 300 miliardi di euro che l’Europa sta investendo nel biometano e nelle infrastrutture collegate sono un capitale che non possiamo permetterci di disperdere.
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