Barriere commerciali, sostenibilità, innovazione. Si può dire che tra trama e ordito, la moda europea nel 2025 sta facendo i conti con i propri nodi. Non solo quelli creativi o produttivi, ma soprattutto quelli geopolitici, perché la solidità e durabilità del “tessuto” industriale sta oggi nella capacità dell’Europa di restare competitiva, in fretta, in filiere globali sempre più complesse e interconnesse. Proprio intorno a queste sfide il 23 e 24 ottobre si è sviluppata la quarta edizione del Venice Sustainable Fashion Forum (VSFF), summit internazionale promosso da Confindustria Moda, The European House - Ambrosetti e Confindustria Veneto Est, ospitato sull’isola di San Giorgio, tra i chiostri della Fondazione Giorgio Cini.

Ed è proprio il titolo scelto per il 2025, Harmonizing Values (armonizzare i valori), a indicare la direzione di marcia. Perché, come dichiarato dal palco da Luca Sburlati, presidente di Confindustria Moda: “Il sistema moda è sotto pressione: l’export rallenta, l’import cresce e modelli ultra-fast mettono a rischio qualità, diritti e valore del Made in Italy. La nostra risposta deve essere unitaria: legalità, innovazione e coerenza etica devono diventare i nuovi pilastri della competitività europea”.

L’Europa affronta le tensioni globali

Nel 2025, le tensioni geopolitiche si confermano tra i principali fattori di instabilità a livello globale, mentre i dazi commerciali hanno raggiunto i livelli più alti dagli anni Trenta del Novecento. Entrambi fattori che alimentano un clima di forte incertezza per il commercio internazionale e per le catene globali del valore, come sintetizza lo studio Just Fashion Transition 2025, sviluppato da TEHA, che, come nelle edizioni precedenti, ha accompagnato i lavori del Forum, a cui hanno partecipato anche quest’anno Kering, Prada, Ermenegildo Zegna, Armani e numerosi altri protagonisti del sistema moda europeo.

“I due grandi player sono gli Stati Uniti, e la Cina, mentre l’UE fatica a trovare posizioni condivise e quindi tende a rinviare le decisioni”, spiega a Materia Rinnovabile l’autore dello studio Carlo Cici, Partner & Head of Sustainability Practices di TEHA. “Le prospettive di lungo termine del modello di business attuale, anche dal punto di vista ambientale e sociale, non possono più essere sostenute. Non si tratta tanto di stabilire che sia sbagliato, quanto di riconoscere che non è più praticabile: le risorse si stanno esaurendo, e sul piano sociale la disuguaglianza che genera è eccessiva. È quindi necessario individuare approcci differenti per affrontare una transizione di questa portata.”

La partita dell’innovazione

Una delle soluzioni indicate è nell’innovazione. “La Cina ha impostato una strategia chiara”, continua Cici. “Non si tratta tanto di giudicare gli impatti di società come Shein, ma di comprendere il loro modello di business: si considerano aziende tecnologiche e, per questo, domani pronte a vendere qualsiasi prodotto con la stessa logica con cui oggi vendono un capo d’abbigliamento. La tracciabilità, per loro, è un fatto naturale, integrato nel sistema. Noi, invece, manteniamo spesso una posizione partigiana. Abbiamo ancora tutto il potenziale per risolvere questi problemi.”

La sostenibilità europea mancherebbe così di una chiara leadership narrativa, mentre i tradizionali capisaldi della moda UE, che per lungo tempo hanno valorizzato i paesi “brand-of-origin”, stanno cambiando. Oggi sono i paesi “produttori”, appunto come la Cina, a emergere come leader d’innovazione. “Contiamo sempre meno su ciò che costituiva la nostra forza, ovvero la qualità e l’artigianalità”, aggiunge Cici. “Quando però emergono scandali, la reputazione si perde e diventa difficile recuperarla. È come un patrimonio che non si rigenera: degenera.”

Attenzione ai nodi interni al mercato unico e all’Italia

Secondo lo studio di TEHA, il settore moda dell’UE presenta due trend principali: crescente frammentazione e aumento della produttività del lavoro. Entro il 2030, infatti, l’industria della moda europea potrebbe crescere del 12%, nonostante la domanda debole e l’aumento dei costi. Il numero di imprese continuerà a salire, ma quasi 293.000 posti di lavoro restano a rischio. La produttività del lavoro, oggi pari a circa la metà della media manifatturiera dell’UE (€40.600 contro €80.000 per addetto), è però destinata a raddoppiare rispetto ai livelli del 2018.

In Europa, il dibattito pubblico tende poi sempre più spesso a individuare nel Green Deal la causa principale della perdita di competitività. Tuttavia, altri fattori, meno evidenti ma strutturalmente più determinanti, incidono in misura maggiore sulla produttività. Tra questi, oltre l’accesso a energia abbondante e a basso costo, la persistente assenza di un autentico mercato unico, che genera veri e propri “dazi interni” stimati attorno al 44%, a fronte del 15% applicato negli Stati Uniti.

Sul piano nazionale invece il Made in Italy dovrebbe sviluppare una proiezione industriale. “Senza questa prospettiva, non si riesce a garantire continuità generazionale né ad attrarre talenti o capitali”, aggiunge Cici. “Servono condizioni di redditività sostenibili, sia per chi investe sia per chi lavora. Esistono esperienze molto positive di aggregazione d’impresa: imprenditori che vendono la propria azienda a una holding ma reinvestono una parte del ricavato, diventando azionisti e amministratori delegati della stessa realtà. Così si crea un legame a doppio filo, anche in termini di capitale.”

Economia circolare e Cleantech hanno bisogno di capitali

La moda europea, secondo lo studio di TEHA, sta imparando a chiudere i cicli, ma non ancora a rallentarli. La capacità di riciclare e recuperare materiali cresce, ma i capi continuano a essere prodotti, acquistati e scartati sempre più rapidamente. In vent’anni, la produzione globale di fibre è più che raddoppiata: i consumatori europei comprano oggi il 60% di vestiti in più rispetto al 2000, ma li conservano per metà del tempo, generando quasi 7 milioni di tonnellate di rifiuti tessili ogni anno. Il risultato è una contraddizione evidente: il settore investe in circolarità, ma non riesce a frenare il sovraconsumo. Nonostante i progressi – con tassi di raccolta e riciclo cresciuti rispettivamente del 51% e del 20% – metà dei tessuti scartati finisce ancora nell’indifferenziata.

Le tecnologie per invertire la rotta esistono: nel 66% dei casi, le soluzioni cleantech per il fashion sono già mature, e quasi la metà dei brevetti europei riguarda materiali avanzati. Il vero ostacolo non è più tecnico, ma economico: servono almeno 4,4 miliardi di euro di investimenti aggiuntivi per raggiungere gli obiettivi climatici al 2030, una cifra che il 60% delle aziende italiane della moda non può sostenere da sola.

“Abbiamo più startup degli USA”, spiega Cici. “Questo significa che la forza delle idee non ci manca. Il problema è il passaggio dalla fase iniziale, quella dei piccoli finanziamenti da 150.000 euro, alla costruzione di una vera visione industriale. Lì ci fermiamo. Diamo vita alle startup, ma poi, quando si tratta di investire seriamente − cinque, dieci milioni − ci tiriamo indietro. Eppure, è proprio in quella fase che bisognerebbe intervenire. Negli USA, i fondi di venture capital, che restano comunque concentrati nella Silicon Valley, cominciano a creare collegamenti con Africa ed Europa.”

Finanza, la sostenibilità dichiarativa non basta

A Venezia arriva un altro chiaro segnale sulla leva finanziaria, proprio mentre il Parlamento europeo respinge l’accordo sul pacchetto Omnibus, che avrebbe allentato le regole su sostenibilità e due diligence. La sostenibilità, avvertono dal palco di Venezia, non può limitarsi alle dichiarazioni: deve essere misurabile e verificabile. “Armonizzare, dunque, è fondamentale − ci mancherebbe altro − ma senza pretendere di reinventare la ruota”, conclude infatti Cici. “Il disegno di base, che per certi aspetti critico, era giustissimo: standardizzare la misurazione della sostenibilità, in modo che gli investitori possano sapere con chiarezza se stanno finanziando qualcosa di più o meno sostenibile. È un obiettivo che nessuno dovrebbe mettere in discussione. Ora tutti parlano di ‘armonizzazione’, ma bisogna essere realistici: sarà comunque un processo [con margini di discrezionalità], settore per settore. Non è pensabile che una banca, per esempio, possa adottare un sistema diverso per ogni ambito produttivo. Ogni tanto rischiamo di guardarci troppo l’ombelico, dimenticando che serve un approccio più uniforme.”

 

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In copertina: foto VSFF2024