L’Unione Europea è sempre più sotto attacco. A est, una nuova cortina di ferro prende una forma ibrida e permeabile, con droni, fossati e aree minate pronti a fermare i tank russi. A ovest, invece, c’è un alleato ingombrante: gli Stati Uniti. Sempre più distanti, concentrati sul Pacifico, si autoinfliggono l’harakiri di una guerra commerciale, chiedendo nel frattempo a Bruxelles di emanciparsi militarmente, tentando di piegare il Green Deal a colpi di lawfare e paventando al Vecchio Continente un rischio estinzione.

Sorge però una domanda: e se fosse la coesione, non solo la competitività, la vera forza che impedisce a un corpo di sfaldarsi? Se fossero, cioè, povertà, disuguaglianze e lo svuotamento dello spazio civico a minare la legittimità dell’Unione? È proprio sulla ricomposizione di queste fratture, che forse minacciano più urgentemente la tenuta stessa del progetto europeo, che si concentra il mandato del nuovo presidente del Comitato economico e sociale europeo (CESE), l’irlandese Séamus Boland, eletto a ottobre per il periodo 2025-2028. O, per dirla con le sue parole, certo senza strizzare occhio all’extrema ratio, ma semplicemente con la lucidità di chi sa leggere i tempi: “In un’Europa che parla sempre più di difesa, cosa accade se i cittadini sul territorio non credono nell’Europa che si intende proteggere?”.

Presidente, ha fatto dell’eradicazione della povertà una priorità del suo mandato. Il tema è strettamente intrecciato con l’inclusione sociale, il lavoro e la salute, come emerge chiaramente dagli ultimi dati Eurostat.

La povertà non è scomparsa. C’è stato un decennio, dal 2010 al 2020, in cui l’UE ha esplicitamente dato priorità alla lotta alla povertà, eppure oggi abbiamo ancora circa 93 milioni di persone al di sotto della soglia di povertà, pari a circa il 21% della popolazione dell’UE-27. Questa condizione continua a colpire donne, bambini, anziani, persone con disabilità e, chiaramente, minoranze come i Rom. Rimane un problema molto reale. Sosterrei anche che sia uno dei fattori di instabilità politica, perché le persone che vivono in povertà stanno perdendo fiducia nell’establishment e nella sua capacità di rispondere ai loro bisogni.

Quali azioni specifiche intende promuovere?
Il primo elemento essenziale è l’housing. L’alloggio [è una voce che] sta generando molta povertà tra i giovani, ma anche tra gli anziani e le donne. Le famiglie monoparentali stanno affrontando difficoltà gravissime a causa della mancanza di alloggi a prezzi accessibili. Il secondo elemento è affrontare la povertà a livello di servizi per l’infanzia e della prima infanzia. È allarmante che un bambino che all’età di cinque anni non abbia acquisito neppure competenze linguistiche o di lettura di base possa essere destinato a vivere in povertà per il resto della vita.

Con i prezzi delle case che crescono più velocemente dei redditi e con i costi di abitazione, acqua ed energia che assorbono quasi un quarto dei bilanci familiari, cosa può fare l’UE per rendere l’edilizia più accessibile? La proposta della Commissione europea presentata il 16 dicembre è sufficiente?

In Europa dobbiamo riconoscere chiaramente che si tratta di un’emergenza. Lo abbiamo detto direttamente quando abbiamo incontrato António Costa, presidente del Consiglio europeo, sollecitandolo affinché un piano per l’edilizia accessibile diventi una parte centrale del quadro europeo. [La proposta della Commissione] è un annuncio positivo e accolgo con favore l’inclusione del CESE, insieme al Comitato delle regioni e al Parlamento europeo, in un’Alleanza europea per l’edilizia volta a facilitare la cooperazione e la governance multilivello sul tema della casa. Accolgo inoltre con favore l’opportunità di collaborare con le altre istituzioni dell’UE e con la Presidenza del Consiglio dell’UE per contribuire attivamente al primo Vertice europeo sull’edilizia abitativa nel 2026. Abbiamo anche sottolineato la necessità di misure UE più forti per contenere gli aumenti eccessivi degli affitti e per promuovere l’edilizia sociale. Per quanto riguarda quest’ultima, sosteniamo con forza che i modelli esistenti debbano essere ripensati, in particolare sul piano dei finanziamenti e del sostegno finanziario.

Cosa è necessario?

Un mix di investimenti pubblici e privati, chiaramente focalizzati sulle priorità e accompagnati da una regolamentazione efficace della costruzione di alloggi. Questo richiederà anche investimenti massicci nelle competenze. Una delle conseguenze irrisolte della crisi bancaria in Europa è stato il duro colpo inferto al settore delle costruzioni. Abbiamo perso un’enorme quantità di competenze e non le abbiamo mai pienamente recuperate. Allo stesso tempo, poiché la politica abitativa è direttamente collegata alla condizione di senza dimora e alla povertà, l’edilizia deve essere utilizzata come opportunità per realizzare abitazioni sostenibili. Anche la transizione energetica è un fattore chiave, poiché la povertà energetica è una parte sempre più grande del problema più ampio della povertà.

Ha evidenziato la salute emotiva dei giovani come una “crisi silenziosa”. Quali passi urgenti dovrebbero compiere i governi o le istituzioni?

Uno dei principali effetti collaterali del COVID è stato l’isolamento, che ha colpito una particolare generazione di giovani in modi che solo ora stiamo iniziando a comprendere. In paesi come l’Irlanda, la ricerca mostra prove chiare del fatto che i giovani isolati dai coetanei durante quel periodo stanno sperimentando impatti significativi sulla salute mentale. Dal punto di vista delle politiche, ci sono due aspetti chiave. Primo, la salute mentale è sempre stata la “Cenerentola” rispetto alla cosiddetta salute convenzionale, rimanendo costantemente indietro in termini di ricerca e sviluppo. Secondo, c’è una grave carenza di programmi di benessere mentale, soprattutto quelli rivolti ai giovani e realizzati attraverso i servizi di comunità. Questi programmi sono fondamentali perché consentono l’individuazione precoce dei problemi, spesso segnalati da isolamento, abbandono scolastico, perdita di motivazione o coinvolgimento in gruppi vicini alla criminalità o a comportamenti distruttivi. L’assistenza alla salute mentale non riguarda solo il trattamento medico, che certamente deve essere migliorato; riguarda anche formazione, prevenzione e educazione tra pari. Questo ci riporta all’idea di un’Unione della salute, promessa dalla Commissione dopo il Covid. Una vera Unione della salute integrerebbe le lezioni apprese durante la pandemia, compreso il massiccio aumento dei bisogni di salute mentale in tutta la società. Per questo chiediamo un rinnovato impegno verso tale obiettivo.

Lo spazio civico è sotto pressione in alcuni stati membri. Quale supporto pratico può fornire il CESE a ONG, attivisti e giornalisti? L’UE potrebbe beneficiare di un meccanismo indipendente per monitorare e proteggere la libertà di associazione, di espressione e l’indipendenza dei media in tutti gli stati membri?
Il mio mandato è incentrato su ciò che chiamo “la società civile al cuore dell’Europa”. Questo significa, molto chiaramente, che se l’Europa e i suoi stati membri non consentono seriamente alle organizzazioni della società civile di partecipare ai processi decisionali, lo spazio civico si ridurrà. Lo spazio civico significa dare spazio democratico a organizzazioni che spesso sono in prima linea nella lotta alla povertà, nella risposta alle catastrofi, nell’erogazione dei servizi sanitari e nella preparazione alle emergenze. Queste organizzazioni apprendono direttamente da ciò che accade sul campo, anche in situazioni di conflitto, e la preparazione è oggi una priorità centrale dell’UE. In termini pratici, stiamo cercando di sostenere il commissario Michael McGrath, responsabile della giustizia e dello stato di diritto e titolare anche del portafoglio sulla Strategia per la società civile, la quale mira proprio a dare alle organizzazioni della società civile lo spazio per descrivere ciò che stanno vivendo e per proporre soluzioni. Il CESE può svolgere un ruolo centrale attraverso il lavoro di prossimità. I nostri membri, in genere da nove a dodici per paese, sono direttamente collegati alle organizzazioni sul territorio.

Quindi il CESE è l’organismo più appropriato all’interno del quadro istituzionale dell’UE per svolgere questo ruolo?

Se si vuole costruire una strategia per la società civile, esiste già un comitato istituito dai Trattati di Roma (1957) il cui compito è rappresentare la società civile organizzata in tutte le sue forme: sindacati, datori di lavoro e organizzazioni della società civile. I diritti fondamentali sono una parte centrale del nostro mandato e abbiamo un memorandum d’intesa con l’Agenzia dell’UE per i diritti fondamentali di Vienna. Abbiamo esperienza, un corpus di lavoro attraverso i nostri pareri e un collegamento diretto con le organizzazioni nazionali. In sostanza, la struttura esiste già. È un sito “brownfield”, pronto per essere utilizzato.

Nei prossimi negoziati sul Quadro finanziario pluriennale (QFP), come possiamo assicurarci che gli investimenti sociali restino una priorità accanto ad altri impegni urgenti, inclusa la difesa?

Il QFP, la Politica agricola comune (PAC) e i fondi collegati sono la linfa vitale dell’UE. Lo sono sempre stati e continueranno a esserlo, perché portano i benefici tangibili dell’Europa in ogni angolo dell’Unione. Qualsiasi perdita di visione in questo senso sarebbe profondamente negativa. Oggi il QFP affronta la sfida di mantenere la coesione sociale ed economica rispondendo al contempo a una nuova realtà in materia di difesa. Stiamo attualmente preparando un parere sulla preparazione (preparedness), in cui sosteniamo che la preparazione non riguarda solo la possibilità di una guerra, ma anche le catastrofi: le alluvioni a Valencia, le tempeste in Irlanda, gli incendi in Grecia e altrove. La società civile è sempre presente in queste situazioni e la preparazione significa essere pronti a coinvolgerla. La spesa per la difesa aumenterà e questo metterà sotto pressione il QFP.

Qual è il modo migliore per gestire questo rischio?

Dobbiamo costruire un ruolo chiaro per la società civile all’interno dei nuovi meccanismi di finanziamento. Se i fondi per la preparazione passano attraverso la società civile, è molto meno probabile che la coesione sociale venga compromessa. Voglio sollevare una domanda fondamentale: in un’Europa che parla sempre più di difesa, cosa accade se i cittadini sul territorio non credono nell’Europa che si intende proteggere? In tal caso, non importa quanti missili vengano acquistati. Senza uno spirito condiviso e un attaccamento all’Europa − come vediamo in Ucraina − la difesa sarà vuota. Il QFP deve quindi rimanere fedele alle sue radici: coesione sociale ed economica tra regioni, partenariati e inclusione.

Completare il mercato unico è stato un obiettivo di lunga data e probabilmente, dopo il QFP, una delle aree più messe alla prova del pensiero politico dell’UE.

È sotto pressione a causa dei cambiamenti geopolitici, dell’uso diffuso dei dazi come strumento politico e delle tendenze alla rinazionalizzazione. Il mercato unico riguarda la libera circolazione e lo scambio aperto, che sono sempre più limitati. Le imprese affrontano ostacoli crescenti, comprese difficoltà nei viaggi e negli scambi transfrontalieri. Anche all’interno dell’area Schengen, le preoccupazioni per la sicurezza stanno incidendo sulla libera circolazione. Il CESE ha costantemente prodotto, e continuerà a produrre, pareri che chiedono un rafforzamento del mercato unico e della libera circolazione. Riconosciamo che le questioni di difesa devono essere affrontate, ma non possiamo accettare richieste, in particolare provenienti da fuori Europa, di limitare i confini in modi che minano il mercato unico. I cittadini e le imprese dell’UE devono continuare a beneficiarne. L’Europa non sopravviverà se non consente il commercio e lo scambio all’interno dei propri confini. Che l’Unione resti a 27 o si espanda a 28, l’Europa deve agire come un’unica entità europea.

Ultimo, ma non meno importante, la Commissione europea sta preparando nuove strategie sull’economia circolare e sulla bioeconomia.

Il CESE è stata la prima istituzione dell’UE a essere pioniera sull’economia circolare e sulla bioeconomia. Quasi cinque anni fa abbiamo prodotto un parere che dimostrava come l’economia circolare e la bioeconomia possano essere redditizie contribuendo al contempo al raggiungimento dei 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU. Siamo riusciti a persuadere l’UE a porre questo tema al centro della sua agenda politica. Guardando al futuro, il legame tra economia circolare e più ampia agenda della transizione è evidente. L’economia circolare deve essere sostenuta attraverso la tassazione e la politica fiscale. Il protrarsi dei sussidi ai combustibili fossili rappresenta un ostacolo, costringendo le imprese circolari a sostenere costi più elevati mentre i loro concorrenti beneficiano di sostegni. Chiediamo un campo di gioco equo. Nonostante le sfide attuali e alcune negazioni delle realtà ambientali, l’Europa è stata una leader globale in questo ambito. Il CESE vuole che l’Europa continui a esercitare questa leadership, lavorando in partenariato con agricoltori, produttori alimentari, associazioni di residenti e comunità locali, affinché l’economia circolare diventi una realtà concreta nei territori.

 

In copertina: Sèamus Boland