Londra, agosto 2025. La West Cumbria Mining aveva tutto pronto. Il progetto per la prima miniera di carbone del Regno Unito degli ultimi trent’anni era sulla carta: 220 milioni di tonnellate di CO₂ da immettere nell'atmosfera nel corso della sua vita operativa, l’equivalente delle emissioni annuali della Spagna. Ma qualcosa è andato storto. A settembre 2024, un tribunale britannico ha dato ragione agli ambientalisti di Friends of the Earth: il governo non aveva considerato adeguatamente l’impatto climatico del progetto, violando la legge del paese.

Fine della storia? Tutt’altro. L’11 agosto scorso, la compagnia di Singapore ha iniziato una procedura di arbitrato internazionale contro il Regno Unito, basandosi su un trattato del 1975 che permette alle aziende straniere di aggirare i tribunali nazionali e sfidare le politiche governative di fronte a pannelli di arbitri privati.

È l’ultima mossa di una partita a scacchi globale che si sta giocando tra tribunali, consigli di amministrazione e uffici governativi. Una partita dove le regole sembrano cambiare continuamente, dove una vittoria ambientalista può trasformarsi in una sconfitta per i contribuenti.

L’arte della guerra climatica

Gli ambientalisti hanno imparato a usare i tribunali come campi di battaglia. Vincono cause contro i governi che autorizzano progetti fossili, li costringono a ripensare le politiche energetiche, celebrano ogni sentenza come una vittoria per il pianeta. Ma le multinazionali del fossile hanno una contromossa segreta: il sistema di risoluzione delle controversie investitore-stato, conosciuto come ISDS (Investor-State Dispute Settlement).

È un meccanismo inserito in migliaia di trattati commerciali e di investimento che permette alle aziende di trascinare i governi davanti a tribunali privati, chiedendo risarcimenti miliardari quando le politiche pubbliche danneggiano i loro profitti. E funziona: le aziende di petrolio, gas e minerarie hanno vinto miliardi di dollari in risarcimenti dai governi, con i paesi in via di sviluppo che subiscono l’impatto maggiore.

“È un vulnus sistematico quello degli arbitrati”, spiega a Materia Rinnovabile dal suo studio napoletano l’avvocato Luca Saltalamacchia, esperto e in prima linea nelle cause climatiche e internazionali per la difesa dei diritti umani. Incontrarlo è un po’ come entrare in un fortino assediato. Lavora 12-13 ore al giorno su casi che stanno ridisegnando i rapporti tra stati e multinazionali. “Cosa sono questi meccanismi scritti nei contratti commerciali? Spesso non è dato conoscerli nei dettagli ma sono la regola nei documenti che avviano gli investimenti. C’è sempre una sproporzione di forze tra le multinazionali e gli stati.”

Il tribunale che non c’è

Il meccanismo è semplice quanto efficace. “Immaginiamo che una grande industria decida di investire in Congo un bel capitale”, spiega Saltalamacchia. “Lo fa pensando che se qualcosa va storto si rivolge non al tribunale del Congo ma a un collegio creato ad hoc per la controversia. È un meccanismo nato per assicurare gli investitori.”

Questi collegi arbitrali non sono tribunali come li intendiamo noi. “Si tratta di un tribunale che invece di essere precostituito e istituzionale, viene formato ad hoc e vi siedono come giudici non quelli di carriera ma persone nominate come arbitro. Professori universitari, avvocati ed esperti della materia. Tecnici dell’investimento in questione, che a volte hanno avuto anche relazioni professionali con le stesse aziende che intentano la causa.”

Il problema è nella specializzazione estrema di questi arbitri. “In genere sono tre componenti che guardano solo le norme relative agli investimenti e decidono in base a esse. Conoscono il diritto commerciale, decidono in base a quanto c’è scritto nel contratto. Se però quel paese ha una legislazione per il clima, ad esempio, loro possono non conoscerla e comunque spesso decidono di ignorarla.”

Il caso Ecuador: quando la giustizia diventa un boomerang

La perversità del sistema emerge in tutta la sua evidenza nel caso dell’Ecuador raccontato da Saltalamacchia: “Riguarda i contadini dell’Amazzonia saccheggiata e devastata da Chevron con l’estinzione di intere tribù. È accaduto dagli anni Sessanta. I contadini hanno fatto causa dinanzi ai tribunali ecuadoregni, e in primo e secondo grado hanno vinto. La Chevron, che nel frattempo aveva abbandonato l’Ecuador, non ha pagato i risarcimenti e poi si è rivolta a un tribunale arbitrale contro l’Ecuador chiedendo un risarcimento in quanto ha consentito che si intentasse la causa limitando il diritto all’iniziativa economica.”

La strategia appare cristallina: non solo non pagare per i danni ambientali causati, ma trasformare la stessa possibilità di essere citati in giudizio in un danno risarcibile. È la logica del mondo rovesciato, dove chi inquina diventa la vittima.

I numeri di una guerra silenziosa

Le cifre parlano chiaro. In una ricerca pubblicata su Science nel 2022, si è stimato che il valore dei progetti petroliferi e di gas coperti dai trattati ISDS potrebbe costare ai governi fino a 340 miliardi di dollari: una somma che eclissa i circa 660 milioni di dollari contribuiti al Fondo perdite e danni delle Nazioni Unite per compensare i paesi poveri colpiti dagli impatti dei cambiamenti climatici.

Il Canada si trova di fronte a una richiesta da 20 miliardi di dollari per il rigetto di un permesso per costruire un terminale di gas naturale liquefatto in Quebec. L’Australia affronta una serie di rivendicazioni che superano i 200 miliardi di dollari per progetti minerari di ferro e carbone. La Slovenia deve fronteggiare una richiesta di 500 milioni di dollari da una compagnia petrolifera britannica per aver limitato il fracking.

Una vittoria italiana che dà speranza: il caso Ombrina Mare

Il caso Ombrina Mare rappresenta forse l’esempio più significativo per il pubblico italiano di come sia possibile vincere questa battaglia apparentemente impari. La vicenda inizia nel 2008, quando la Rockhopper Exploration ottiene la concessione per estrarre petrolio al largo delle coste abruzzesi, in una zona di mare particolarmente delicata dal punto di vista ambientale.

Il progetto prevedeva una piattaforma petrolifera a soli 6 chilometri dalla costa della Riserva naturale di Punta Aderci, in Abruzzo. Gli ambientalisti si mobilitano immediatamente: il rischio è quello di compromettere un ecosistema marino prezioso e di trasformare una delle coste più belle d’Italia in un’area industriale.

La battaglia legale e politica si protrae per anni. Nel 2016, il governo italiano introduce il divieto di attività di ricerca e coltivazione di idrocarburi nelle acque territoriali, di fatto bloccando il progetto Ombrina Mare. La Rockhopper non ci sta e nel 2017 avvia un arbitrato internazionale ICSID contro l’Italia, chiedendo 275 milioni di dollari di risarcimento.

La prima sentenza, nell’agosto 2022, sembra dare ragione alla compagnia britannica: il tribunale arbitrale condanna l’Italia a pagare 190 milioni di euro più interessi, ritenendo che il divieto abbia violato l’accordo bilaterale di investimento tra Regno Unito e Italia.

Ma qui arriva la svolta. L’Italia non si arrende e presenta ricorso presso il Comitato di annullamento ICSID. È una mossa rischiosa: molti paesi accettano le sentenze arbitrali anche quando le considerano ingiuste, per evitare di apparire come “cattivi pagatori” agli occhi degli investitori internazionali.

La strategia italiana si rivela vincente. Nel giugno 2025, il Comitato di annullamento ribalta completamente la decisione: il lodo arbitrale viene annullato e l’Italia non deve pagare nulla. La motivazione è tecnica ma fondamentale: il tribunale arbitrale aveva ecceduto i propri poteri e commesso errori procedurali gravi. “C’'è stata la Camera arbitrale e per fortuna in appello gli ambientalisti e lo stato italiano hanno avuto ragione”, conferma Saltalamacchia. “C’è il diritto all’investimento ma c’è anche il diritto internazionale.”

Il caso Ombrina Mare dimostra che il sistema ISDS, per quanto squilibrato, non è invincibile. Con la giusta strategia legale e la determinazione politica, è possibile difendere l’interesse pubblico e ambientale anche contro le multinazionali più agguerrite. La vittoria italiana ha fatto giurisprudenza e potrebbe incoraggiare altri paesi a resistere alle pressioni delle compagnie fossili.

La Germania paga per non essere citata

Ma i numeri raccontano solo una parte della storia. L’effetto più insidioso è quello che gli esperti chiamano “regulatory chill”, il raffreddamento regolamentare. James Shaw, quando era ministro dei cambiamenti climatici della Nuova Zelanda, ha spiegato come il paese avesse spinto politiche climatiche progressiste che includevano la fine dell’esplorazione offshore di petrolio e gas ma si è fermato prima di limitare lo sviluppo dei giacimenti dove il petrolio era già stato scoperto, perché farlo li avrebbe esposti a rivendicazioni ISDS.

Un caso emblematico è quello della Germania e il suo phase-out dal carbone. Nel 2020, il paese ha deciso di eliminare completamente il carbone entro il 2038 e ha stanziato compensazioni per un totale di 4,35 miliardi di euro per le chiusure pianificate entro il 2030. La compagnia energetica RWE, la più grande del paese, riceverà da sola 2,6 miliardi di euro per chiudere i propri impianti entro la fine del 2029, mentre altri 1,75 miliardi andranno alle operazioni nella Germania orientale.

Ma questi non sono solo costi di transizione energetica: sono veri e propri “Coal Ransom”, riscatti per il carbone, come li ha definiti Global Justice Now in un rapporto che analizza come l’Energy Charter Treaty abbia fatto lievitare i costi del phase-out tedesco. L’organizzazione suggerisce che questi pagamenti hanno probabilmente superato il valore effettivo delle centrali, proprio per evitare rivendicazioni ISDS ancora più costose sotto l’Energy Charter Treaty.

Il piano complessivo della Germania prevede 42,8 miliardi di euro in aiuti finanziari alle regioni carbonifere fino al 2038. È una cifra enorme che riflette non solo i costi della transizione, ma anche la paura di essere trascinati davanti ai tribunali arbitrali internazionali.

Eppure, nonostante questa generosità senza precedenti, la strategia tedesca non ha funzionato completamente: un investitore svizzero in una centrale a carbone tedesca ha comunque intentato una causa contro il paese l'anno scorso, con i dettagli mantenuti rigorosamente confidenziali. È la dimostrazione che anche pagando somme enormi i governi non possono mai essere sicuri di evitare le ritorsioni legali delle multinazionali.

Una questione di democrazia

Come si fa a sostenere ancora il diritto internazionale, a crederci, quando – nonostante le condanne per crimini di guerra – i condannati possono viaggiare per il mondo senza essere arrestati nei paesi dove approdano?

Saltalamacchia non ha bisogno di rifletterci. Non si tratta di credere a qualcosa di esterno o superiore: “Il diritto internazionale deriva dalle condotte degli stati: o sono patti o consuetudini. Non c’è un comitato di saggi o un gruppo di premi Nobel che decide cosa è giusto e cosa no, ma questo diritto esiste in quanto dipende dagli accordi tra paesi e dal loro comportamento reiterato nel tempo. Infatti anche chi decide di metterlo in discussione e lo viola, cerca di piegarlo con interpretazioni arbitrarie, non rinnegandolo, tranne USA e Israele”.

Ma il sistema ISDS rappresenta qualcosa di diverso: è un meccanismo che permette alle aziende private di sfidare decisioni democratiche, di trasformare la volontà popolare in un danno economico quantificabile. Niall Toru, avvocato senior di Friends of the Earth, ha definito la rivendicazione “un oltraggio contro la democrazia”.

Mentre scriviamo, la partita a scacchi globale continua. Almeno otto paesi europei e l’Unione Europea si sono ritirati dall’Energy Charter Treaty, che permette rivendicazioni ISDS. Il Regno Unito è diventato il decimo paese a ritirarsi lo scorso anno. Ma tali ritiri non fanno nulla per abolire le “clausole sunset” in molti trattati ISDS che permettono alle aziende di intentare cause per decenni dopo il ritiro.

La mossa finale della partita è ancora lontana. Ma il caso Ombrina Mare ha dimostrato che questa battaglia si può vincere. Non sempre le multinazionali hanno l’ultima parola, e quando i governi hanno il coraggio di resistere − con il supporto di strategie legali solide e della mobilitazione popolare − possono prevalere anche contro i meccanismi più potenti del capitalismo globale.

 

In copertina: foto di Ehimetalor Akhere Unuabona, Unsplash