Ogni ondata di caldo degli ultimi vent’anni ha colpevoli precisi. Oggi ne conosciamo i nomi e possiamo quantificarne le responsabilità. È la conclusione di uno studio pubblicato su Nature (Systematic attribution of heatwaves to the emissions of carbon majors) che ha ricostruito il legame diretto tra le emissioni delle grandi compagnie fossili e l’intensificazione dei picchi di caldo, mettendo nero su bianco il nesso di causalità tra le loro condotte e il riscaldamento globale. E questo avviene in un momento in cui i colpi di frusta climatici quasi non ci sorprendono più: sbalzi improvvisi di temperatura, ondate di calore sempre più lunghe, fenomeni che ci colpiscono con una violenza crescente e che spesso percepiamo come incontrollabili. Li subiamo, li viviamo sulla nostra pelle, li vediamo riflessi nei bilanci agricoli, nella salute pubblica, nelle infrastrutture messe in crisi. Ma la scienza ci ricorda che non siamo di fronte a fatalità, né a eventi naturali isolati.

L’origine del problema: le emissioni di gas serra

Dobbiamo risalire lungo la catena causale che porta da quelle giornate insopportabilmente calde all’origine del problema: le emissioni di gas serra.

La relazione tra la concentrazione di anidride carbonica e l’aumento della temperatura globale è nota da molto più di un secolo. Fourier e Tyndall ne avevano intuito i meccanismi e Arrhenius, nel 1896, calcolò per la prima volta quanto la CO₂ potesse alterare l’equilibrio climatico del pianeta e il bilancio energetico in atmosfera. Da allora la scienza ha affinato gli strumenti, confermando la connessione tra combustione di carbone, petrolio e gas e riscaldamento globale. Eppure, fino a oggi, un passaggio mancava: quantificare in modo sistematico il legame tra le principali aziende emettitrici e i singoli eventi estremi.

Quantificato il legame tra aziende ed eventi estremi

È qui che entra in gioco lo studio appena pubblicato su Nature da un team internazionale guidato dall’ETH di Zurigo. I ricercatori hanno analizzato 213 ondate di calore avvenute tra il 2000 e il 2023 in tutto il mondo, eventi catalogati per i loro impatti in termini di vittime o danni economici. Per ciascuna hanno applicato la cosiddetta scienza dell’attribuzione, la branca della climatologia che misura concretamente quanto un fenomeno estremo sia stato reso più probabile o più intenso dal riscaldamento atmosferico su scala globale. Il risultato è netto: ogni singola ondata di calore di questo periodo è stata resa più probabile e più intensa dal riscaldamento antropico, cioè dovuto all’attività emissiva umana.

Ma lo studio compie un passo ulteriore, decisivo. Attribuisce questa maggiore probabilità non solo al cambiamento climatico in astratto, bensì alle emissioni di 180 grandi produttori di combustibili fossili e cemento: i cosiddetti carbon majors. È un salto concettuale enorme. Significa poter risalire l’intera catena causale, dall’evento estremo fino al responsabile industriale che, attraverso decenni di produzione e vendita di idrocarburi, ha alimentato l’accumulo di gas serra in atmosfera.

I numeri parlano chiaro. Rispetto all’epoca preindustriale, le ondate di calore sono oggi molto più intense e almeno metà di questo aumento è attribuibile alle emissioni dei carbon majors. Le 14 aziende più grandi – tra cui Saudi Aramco, Gazprom, ExxonMobil, Chevron, BP e Shell – hanno contribuito da sole quanto tutte le altre 166 messe insieme. Ma anche i soggetti minori non sono affatto irrilevanti: persino la più piccola impresa del campione, il produttore russo di carbone Elgaugol, ha comunque reso possibili 16 ondate di calore che, in un clima preindustriale, sarebbero state virtualmente impossibili. In Italia, le emissioni di Eni risultano sufficienti ad aver reso possibili 50 ondate di calore tra il 2000 e il 2023, comprese quelle memorabili dell’estate 2003 e del 2019.

Individuate quote di responsabilità precise

Questa capacità di assegnare quote di responsabilità precise riempie un vuoto cruciale: quello probatorio, quindi finalmente si forniscono le prove necessarie per sostenere un’accusa o una difesa in sede giudiziaria. Finora le controversie legali sul clima – il cosiddetto climate litigation – hanno dovuto muoversi in un terreno complesso, in cui la connessione causale tra le emissioni e i danni locali era evidente per la scienza, ma difficile da dimostrare in tribunale. Ora invece esiste una quantificazione solida, validata e pubblicata su una delle riviste scientifiche più autorevoli.

Le implicazioni sono profonde. Politicamente, significa che i governi non possono più nascondersi dietro la genericità della responsabilità collettiva: sappiamo chi ha contribuito, quanto e con quali effetti. Giuridicamente, significa che cittadini, comunità e Stati che hanno subito danni da ondate di calore possono invocare dati scientifici che stabiliscono un nesso diretto con le emissioni di aziende specifiche.

Un cambio di paradigma

È un cambio di paradigma che rafforza il principio “chi inquina paga”, rendendolo non più solo una formula etica o politica, ma un argomento tecnico-giuridico.

Naturalmente, il quadro resta complesso. Il riscaldamento globale è il risultato di decine di migliaia di decisioni industriali, politiche e individuali. Ma la forza di questo studio sta nel dimostrare che, anche in un contesto così intrecciato, è possibile individuare gli anelli della catena e quantificarne il peso.

Ecco perché, accanto alla sofferenza per i colpi di frusta climatici che tutti sperimentiamo, serve la freddezza dell’analisi scientifica. Solo risalendo la catena causale possiamo assegnare responsabilità storiche e costruire strumenti politici e legali adeguati. Non per puntare il dito in astratto, ma per aprire la strada a giustizia, compensazioni e soprattutto a una transizione energetica che non sia più ritardata da chi, per decenni, ha tratto profitto dall’alimentare il problema.


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