Il 19 maggio di dieci anni fa era stata una giornata mite. Il cielo ospitava solo poche nuvole, bianche come la panna, non aveva fatto troppo caldo. Gli scranni dell’aula del Senato a Palazzo Madama erano tutti occupati per la seduta pomeridiana. Oltre ai senatori c’erano decine di ospiti accreditati. Ex parlamentari, attivisti, rappresentanti di associazioni ambientaliste, giornalisti. In calendario c’era una votazione che aveva una portata storica e tutti ne eravamo consapevoli.
Con 170 voti favorevoli, 20 contrari e 21 astenuti fu approvato il Disegno di legge “ecoreati” che porta tre nomi come primi firmatari: Ermete Realacci (PD), Salvatore Micillo (M5S) e Serena Pellegrino (SEL). Per Confindustria questa legge avrebbe affossato l’economia italiana, avrebbe spedito le imprese all’estero, avrebbe fatto impennare la disoccupazione. Per alcune voci ambientaliste invece rappresentava un condono per gli inquinatori. Come era possibile che coesistessero queste interpretazioni differenti? E cosa è successo poi veramente?
Con la Legge ecoreati la parola ambiente è entrata nel codice penale con i cinque nuovi delitti di inquinamento, disastro ambientale, traffico di materiale radioattivo, omessa bonifica e impedimento del controllo. Sono state previste aggravanti ecomafiose, nei casi di lesione o morte, il raddoppio dei tempi di prescrizione, la confisca dei beni e sconti di pena per chi si adopera per bonificare in tempi certi.
Dieci anni sono un percorso sufficiente per stilare un bilancio e lo ha fatto Legambiente, che ogni anno pubblica il Rapporto ecomafia quindi ha un osservatorio allenato sui reati ambientali. Non solo: insieme con ACLI, Azione Cattolica, Agesci, Libera e ARCI ha appena terminato il primo anno della campagna Ecogiustizia subito: in nome del popolo inquinato, con la quale ha attraversato sei SIN, i siti di interesse nazionali, e in ognuno ha siglato un patto di comunità, per aiutare i territori a chiedere e pretendere le bonifiche.
Reati ambientali e sanzioni, 10 anni in numeri
Secondo il rapporto redatto da Legambiente e da Libera, da quando la legge ecoreati è nata sono stati accertati in Italia 6.979 reati ambientali. Un illecito penale in media ogni tre verifiche fatte da parte delle forze dell’ordine. Sono stati effettuati 21.169 controlli, 12.510 le persone denunciate e 556 quelle arrestate. Il valore economico dei sequestri ammonta a 1,155 miliardi di euro. Il 40,5% dei reati accertati si concentra nelle quattro regioni a tradizionale presenza mafiosa: Campania, Puglia, Sicilia e Calabria.
Il reato di inquinamento ambientale, che fino al 19 maggio 2015 non era contemplato in Italia, in questi dieci anni è stato accertato 1.426 volte su 5.506 controlli effettuati, con 2.768 persone denunciate, 136 ordinanze di custodia cautelare e 626 sequestri, per un valore di oltre 380 milioni di euro.
Segue il delitto di attività organizzata di traffico illecito di rifiuti, recepito nella nuova veste nel Codice penale solo nel 2018, con 964 reati (e un’incidenza tra controlli e illeciti accertato del 54%), 2.711 persone denunciate, 305 arresti e 475 sequestri, per un valore di oltre 168 milioni di euro.
Il terzo delitto più accertato è quello per disastro ambientale, contestato 228 volte, con 737 persone denunciate, 100 ordinanze di custodia cautelare e 180 sequestri, per un valore di oltre 85 milioni di euro. Poi arrivano i delitti colposi contro l’ambiente con 107 reati e 105 persone denunciate, l’impedimento al controllo, con 94 reati e 209 persone denunciate, e l’omessa bonifica, con 42 reati e 54 denunce, due fattispecie nuove nel sistema penale italiano ma molto significative per le loro implicazioni con il ruolo delle imprese.
Ne abbiamo parlato con Stefano Ciafani, presidente di Legambiente e uno dei più attivi difensori della legge durante il tormentato iter parlamentare.
Ciafani, numeri a parte, la Legge ecoreati 68/2015 funziona? Sta aiutando il paese a emergere dal pantano dell’inquinamento?
È una legge molto robusta, e non lo dice Legambiente ma le sentenze della Cassazione, e ciò significa che le accuse basate sulla Legge ecoreati resistono ai tre gradi di giudizio. È stata una mannaia per gli inquinatori ma ha fatto giustizia per le imprese che lavoravano in modo trasparente e legale. Anzi, dirò di più: nei primi mesi dopo il maggio 2015 molti hanno deciso di mettersi in regola. Abbiamo raccolto la testimonianza di aziende che lavoravano nel comparto della sicurezza industriale e avevano ricevuto commesse da parte di aziende piccole, medie e grandi. Cioè, quando gli imprenditori hanno capito che la pacchia era finita, hanno investito nella sicurezza degli impianti. Le aziende serie ne hanno beneficiato perché si è posto un argine alla concorrenza sleale di chi non metteva a bilancio, ad esempio, la gestione e lo smaltimento dei rifiuti.
La vostra alleanza di associazioni ha girato l’Italia in questi mesi. Il “popolo inquinato” come sta?
Rassegnato. Abbiamo trovavo comunità rassegnate che danno per scontato di essere condannate a vivere in aree inquinate, con stabilimenti produttivi chiusi e disoccupazione dilagante. Abbiamo riscontrato un grande senso di solitudine.
La legge non è anche uno strumento a disposizione delle comunità per far valere i propri diritti?
È mancata la assunzione collettiva di responsabilità. Le istituzioni ci sono ma non si notano. Le bonifiche sono ferme. Denunciare e mettere in galera gli inquinatori e lasciare le comunità con la tossicità di luoghi non più vivibili non mette al riparo da questo senso di impotenza. Si può dire che il Ministero dell’ambiente non riesce a gestire le conferenze dei servizi e renderle operative, per cui solo il 4% delle aree a terra e il 2% delle falde sotterranee sono bonificate, ma non basta dire che è colpa del Ministero. Le istituzioni locali non hanno gli strumenti per affrontare questa emergenza. Il mondo del lavoro, quindi i sindacati, spesso sono arroccati nella difesa di posti di lavoro che comunque scompariranno perché quelle aziende sono destinate a chiudere, come ad esempio i cicli produttivi della chimica di base. E gli inquinatori ne approfittano.
La lotta all’inquinamento e il diritto a un ambiente salubre sembra scomparso dalle agende politiche. Anche a livello internazionale, sembra che siamo lontani un’era geologica da dieci anni fa.
La narrazione istituzionale di governi come quello di Trump, Milei, Orban o Meloni è quella che passa sui media, ma il mondo dell’economia sta decisamente da un’altra parte. I cittadini non hanno perso la voglia di combattere per la crisi ambientale, nel 2024 il 92,5% dei nuovi impianti di produzione di elettricità installati nel mondo è alimentato a fonti rinnovabili, soprattutto fotovoltaico ed eolico, in aumento rispetto all'85,8% nel 2023, mentre le centrali a gas, carbone, petrolio e nucleare hanno contributo solo per il 7,5% della nuova potenza elettrica installata (erano il 14,2% nel 2023). Le aziende di tutto il mondo sanno che il mercato di oggi e quello di domani è dominato dalle tecnologie pulite. Lì investono, non perché siano ambientaliste ma perché conviene. Dobbiamo tenere duro, certamente, rispetto alla narrazione tossica, ma osservare dove sono diretti gli investimenti economici nel mondo rassicura.
In copertina: Hush Naidoo Jade Photography, Unasplash