C’è un’Italia dell’energia che scorre sottotraccia, letteralmente. È quella dei fiumi che alimentano le centrali idroelettriche, infrastrutture strategiche che garantiscono il 15% della produzione elettrica nazionale e costituiscono, con il fotovoltaico, la spina dorsale delle fonti rinnovabili del paese. Eppure, mentre il mondo accelera sulla transizione energetica e l’Europa stringe i tempi per l’addio ai combustibili fossili, questa risorsa preziosa − non replicabile, per sua natura scarsa − continua a essere gestita secondo logiche che ricordano più il Novecento che il futuro prossimo.
L’11 novembre 2025, nel giorno del 35° anniversario della sua costituzione, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) ha scelto di festeggiare con un regalo scomodo al governo: un richiamo netto, quasi un ultimatum, sulla questione delle concessioni idroelettriche.
Durante l’audizione presso la X Commissione attività produttive della Camera, il segretario generale Guido Stazi non ha usato giri di parole: “È urgente adottare per le concessioni idroelettriche procedure di assegnazione che rispettino parametri competitivi, equi e trasparenti”. Non è una richiesta nuova, ma questa volta il tono è diverso, perché dietro quella frase c’è un impegno assunto dallo stato italiano con l’Unione Europea nell’ambito del Next Generation EU: la cessazione del regime delle proroghe. Un impegno che rischia di trasformarsi in un boomerang se non verrà onorato.
La trappola delle rendite di posizione
Per capire la portata del problema, bisogna guardare ai numeri e alle dinamiche di un settore che, paradossalmente, vive di inerzia proprio mentre dovrebbe essere il motore della transizione. Le concessioni idroelettriche italiane sono quasi tutte nelle mani degli stessi concessionari da decenni. Nessuna gara, nessun confronto competitivo, nessuno stimolo a innovare o efficientare. Il risultato? Impianti progressivamente invecchiati, una riduzione dell’efficienza produttiva e − ciliegina sulla torta − una gigantesca asimmetria informativa.
“I concessionari detengono la conoscenza esclusiva dei costi di gestione e dei valori di remunerazione dell’attività degli impianti”, spiega l’AGCM nella memoria consegnata alla Commissione e che Materia Rinnovabile ha visionato. In altre parole: solo loro sanno quanto guadagnano davvero e quanto spendono. Una situazione che, in qualsiasi altro settore, farebbe suonare tutti i campanelli d’allarme. Ma qui no. Qui si perpetuano “rendite di posizione che non appaiono più in alcun modo giustificate”, come scrive senza mezzi termini l’Autorità.
Una situazione che fa risuonare alla memoria quella − altrettanto annosa − delle concessioni balneari. Come per gli stabilimenti sulla spiaggia, infatti, anche per le centrali idroelettriche si tratta di risorse pubbliche − l’acqua dei fiumi − affidate a privati che le gestiscono senza dover dimostrare, periodicamente, di essere i migliori sul mercato. Con una differenza non da poco: mentre le spiagge sono (anche) luoghi di svago, l’idroelettrico è un tassello fondamentale della strategia energetica nazionale.
Non stiamo parlando di una fonte marginale. Le centrali idroelettriche italiane producono circa il 15% dell’energia complessiva generata nel paese e costituiscono la spina dorsale delle fonti rinnovabili. Solo per il Nord-Ovest, ad esempio, con oltre 1.350 impianti idroelettrici e più di 13.000 GWh di producibilità media annua, le risorse idroelettriche rappresentano un asset strategico. In un momento in cui l’Italia deve correre per rispettare gli obiettivi del Piano nazionale integrato energia e clima (PNIEC) − che prevede 131 GW di capacità installata da rinnovabili entro il 2030, contro i 72 GW attuali − tenere ingessato un quinto delle rinnovabili è un lusso che non possiamo permetterci.
Ma c’è di più. L’AGCM sottolinea che “una gestione efficiente delle concessioni idroelettriche può rappresentare non solo una leva significativa per la transizione ecologica del paese ma anche una preziosa opportunità per lo sviluppo competitivo del settore industriale”. Tradotto: mettere a gara le concessioni non significa solo rispettare le regole europee o fare giustizia verso le regioni (che ricevono canoni ridicoli rispetto al valore della risorsa), ma anche innescare un circolo virtuoso di investimenti, innovazione tecnologica, efficienza. E più passa il tempo più il rischio cresce: quello di una procedura d’infrazione europea (l’Italia è già nel mirino), quello di perdere occasioni di ammodernamento industriale, e quello − forse il più grave − di restare indietro mentre altri paesi europei accelerano sulla decarbonizzazione.
Il nodo delle proroghe (e della paralisi)
La storia recente delle concessioni idroelettriche italiane è un labirinto fatto di proroghe, ricorsi, norme che si accavallano e investimenti bloccati. Diverse regioni hanno provato a bandire gare, ma si sono trovate di fronte a un muro: contenziosi legali, incertezze normative, resistenze dei concessionari uscenti. Risultato: paralisi.
Utilitalia, l’associazione a cui fanno capo le multiutility, quantifica in circa 15 miliardi le risorse che potrebbero restare sospese per colpa dell’incertezza dell’esito di gare, ricorsi e assegnazioni. L’ultima puntata di questa telenovela risale a pochi mesi fa, quando il governo ha dovuto fare i conti con il pressing europeo e con le scadenze del PNRR. La milestone M7-2 della Riforma 1 (Missione 7 REPowerEU) impone, tra le altre cose, un quadro normativo chiaro per lo sviluppo delle rinnovabili. E l’idroelettrico è parte integrante di quel quadro. Eppure, invece di sciogliere il nodo, si continua a rimandare.
Le regioni aspettano linee guida univoche dal Ministero dell’ambiente e della sicurezza energetica. I concessionari si difendono citando gli ingenti investimenti fatti (spesso decenni fa) e chiedono garanzie. Gli operatori che vorrebbero entrare nel mercato restano alla finestra, scoraggiati dalla nebbia normativa. E intanto, come nota l’AGCM, gli impianti invecchiano e l’efficienza cala.
Project financing: una soluzione o un altro intoppo?
Nel dibattito pubblico, una delle proposte emerse per sbloccare la situazione è quella di ricorrere al project financing: i privati presentano progetti per rilevare e ammodernare le concessioni, investendo risorse proprie. Sulla carta, una buona idea. Ma l’AGCM mette le mani avanti: “Appare opportuno garantire la parità di condizioni ai potenziali concorrenti fin dalla fase di presentazione del progetto di finanza, anche consentendo loro di redigere un progetto alternativo da sottoporre all’amministrazione”, scrive nella sua memoria.
In altre parole: se si sceglie questa strada, bisogna evitare che diventi un modo per aggirare la competizione. Il rischio, altrimenti, è di sostituire vecchie rendite con nuove, magari sotto altra veste. La concorrenza, ricorda l’Autorità citando la Corte Costituzionale, “si estrinseca, in via prioritaria, nell’ampliamento dell’area di libera scelta sia dei cittadini che delle imprese” e “la ricerca e l’impiego di innovazioni rivestono un ruolo essenziale in un mercato efficiente e attento ai bisogni dei consumatori”. Senza gare trasparenti, quell’ampliamento resta sulla carta.
La soluzione, secondo l’AGCM, è chiara: gare pubbliche. Il modello della “competizione per il mercato”, già applicato con successo in altri paesi europei, consentirebbe di risolvere d’un colpo diversi problemi. Primo: neutralizzare l’asimmetria informativa, costringendo i concessionari a rivelare i propri dati economici per sottoporli al confronto competitivo. Secondo: attrarre nuovi investimenti, perché un mercato aperto è più dinamico e attrattivo. Terzo: garantire alle regioni (e quindi ai cittadini) canoni congrui per l’uso di una risorsa pubblica. Non è utopia. È quello che prevede l’articolo 7 della legge n. 118 del 2022, che parla esplicitamente di “parametri competitivi, equi e trasparenti”. Ma tra il dire e il fare, in Italia, c’è sempre di mezzo il mare. O, in questo caso, il fiume.
C’è un’ironia amara in tutto questo. L’idroelettrico è una fonte rinnovabile, pulita, fondamentale per la decarbonizzazione. Eppure, la sua gestione attuale rischia di diventare un freno, non un motore, della transizione ecologica. Mentre il fotovoltaico e l’eolico devono ancora superare ostacoli burocratici e normativi (come dimostra il recente schema di decreto correttivo al Testo unico FER, anch’esso oggetto di critiche), l’idroelettrico avrebbe tutte le carte in regola per correre. Ma è bloccato da una ragnatela di interessi costituiti, proroghe e inerzie.
Nel frattempo, i dati parlano chiaro: secondo Terna, le nuove connessioni di impianti da fonti rinnovabili hanno registrato una contrazione del 18% nei primi sette mesi del 2025. Un segnale d’allarme che l’AGCM non ha mancato di sottolineare. Se non si sblocca l’idroelettrico, se non si accelera su tutte le rinnovabili, il rischio è di mancare gli obiettivi europei e di pagare un prezzo salatissimo, economico e ambientale.
Ma c’è un’altra dimensione, spesso trascurata: quella democratica. Come ha ricordato l’AGCM citando la Corte Costituzionale, un mercato efficiente “amplia i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini”. Non è solo una questione di soldi o di efficienza: è una questione di giustizia. Le risorse idriche appartengono alla collettività. Affidarle a privati senza gare competitive significa, di fatto, regalare una fetta di patrimonio pubblico a chi è già dentro. E questo, in una democrazia, dovrebbe far riflettere. Le regioni, in particolare quelle alpine dove si concentrano le grandi derivazioni idroelettriche, hanno tutto l’interesse a vedere applicata la legge. Perché sono loro, e quindi i loro cittadini, a perdere i maggiori introiti da canoni sottostimati.
Cosa succede ora?
L’audizione dell’AGCM è un atto dovuto, ma anche un segnale politico forte. L’Autorità, nei suoi 35 anni di attività, ha emesso sanzioni per circa 9 miliardi di euro (di cui due terzi effettivamente riscossi dopo il vaglio della giustizia amministrativa) e formulato 2.095 segnalazioni a Parlamento, Governo ed enti locali. Non è un ente che parla a vuoto.
Ora la palla passa al Parlamento e al governo. La legge annuale per il mercato e la concorrenza 2025 (DDL C. 2682), attualmente in discussione, potrebbe essere l’occasione per inserire norme chiare sulle gare per l’idroelettrico. Ma, come ha fatto notare l’AGCM, “pur consapevole della oggettiva difficoltà ad addivenirvi”, il tema rischia di restare ai margini.
L’acqua è movimento, per natura. Scorre, trasforma, genera energia. Ma in Italia, quella stessa acqua è intrappolata in un sistema immobile, fatto di rendite, privilegi e inerzie. Liberarla − attraverso gare trasparenti, investimenti mirati, regole certe − non significa solo rispettare gli obblighi europei o fare contenti gli ambientalisti. Significa dare al paese una chance concreta di accelerare sulla transizione energetica, di innovare, di competere. “Un mercato efficiente non è funzionale soltanto allo sviluppo economico, ma amplia i diritti e le libertà fondamentali dei cittadini”, conclude l’AGCM. Vale per tutti i mercati. Ma per quello dell’energia, in un’epoca di crisi climatica e geopolitica, vale doppio.
In copertina: la diga di Ponte Cola sul lago di Valvestino, immagine Envato
