Dietro a due semplici parole come “cibo” e “città”, c’è un mondo di significati e connessioni che va ben oltre la loro apparenza immediata: culture, economie, storie e interazioni sociali. Nei contesti urbani, il cibo è elemento di identità collettiva, un punto di incontro tra tradizione e innovazione al centro di spinte come la globalizzazione e i suoi opposti, come il ritorno a filiere corte e locali. Basti pensare al Covid-19, ai relativi lockdown o alla crisi del grano a seguito del conflitto russo-ucraino.

Occuparsi di food system nelle città ‒ cioè di tutte quelle attività che sono connesse alla produzione, trasformazione, distribuzione, consumo e postconsumo di cibo – è però fondamentale anche dal punto di vista ambientale. Secondo le Nazioni Unite, nel 2050 due persone su tre vivranno in insediamenti urbani, fagocitando così l’80% del cibo. Nelle principali metropoli globali, ricorda uno studio pubblicato da C40, Arup e University of Leeds, nel 2017 le emissioni di CO₂ dovute alla produzione e al consumo alimentare costituivano il 13% del totale. Parliamo di un rilascio di 582 milioni di tonnellate di CO₂ equivalente nell'atmosfera, che potrebbero crescere del 40% entro la metà del secolo.

Le politiche alimentari locali, o urban food policy, diventano così strumenti fondamentali di pianificazione urbana. Come si passa però dal dire al fare? Come si previene lo spreco alimentare o si sostiene la domanda di prodotti biologici senza tralasciare sostenibilità sociale, salute e l’educazione di vecchie e nuove generazioni? Materia Rinnovabile lo ha chiesto a Peter Defranceschi, Head Global di ICLEI e Global Coordinator di CityFood. ICLEI - Local Governments for Sustainability è una rete globale che lavora con più di 2.500 governi locali e regionali impegnata a guidare l'azione locale verso una transizione socio-ecologica. Riguardo i sistemi alimentari, ICLEI cerca di promuovere filiere circolari e catene del valore a basse emissioni di carbonio.  

Peter Defranceschi

 

Peter, partiamo spiegando che cos’è il programma CityFood. 

City Food è il nostro programma alimentare globale, una delle più rilevanti food policy urbane. Lavoriamo su tre aree, tutte attinenti alla salute: healthy people, healthy landscape and healthy climate. Trasversalmente, questo significa occuparsi di favorire cambiamenti nei comportamenti e nelle abitudini dei cittadini.

Parliamo prima dei casi estremi. Fino a che punto sindaci e governi locali possono influenzare l'alimentazione sana nelle città?

In alcuni Paesi come l’Italia, nella Costituzione è scritto che il sindaco è responsabile della salute della comunità. Tuttavia, se anche i sindaci dicessero “non voglio pesticidi nelle città e nelle loro vicinanze, oppure non voglio cibo spazzatura e la sua promozione nelle scuole”, non potrebbero fare molto. Ci sono sempre problemi legali. Ad esempio, nella regione italiana da cui sono originario, c'è un paese con molti agricoltori che usano molti pesticidi. Qualche anno fa, attraverso un referendum, il 70% della popolazione di quel paese si espresse contro i pesticidi, perché con la pioggia e il vento venivano trasportati ovunque, anche nei cortili delle scuole. Il sindaco impedì allora l’irrorazione di quelle sostanze intorno alla città, sul territorio comunale. Sebbene la misura fosse legale, il sindaco ha ricevuto attacchi da tutte le parti e alla fine è stato sconfitto: non avrebbe dovuto indire un referendum su questioni di salute, né vietare i pesticidi consentiti dall'Unione Europea. Un fatto simile è successo anche in Germania, dove un sindaco ha detto: "Non voglio la plastica monouso nella mia città perché sono responsabile della gestione dei rifiuti". McDonald's gli fece causa, anche se lì fu il sindaco a vincere alla fine. Ma questo dimostra quanto sia difficile intervenire.


E allora quali leve si possono usare?

Cibo, clima e transizione proteica verso un’alimentazione più vegetale hanno molto a che vedere con la comunicazione. Se proponi di evitare la carne qualcuno potrebbe rispondere dicendo “mangio quello che voglio”. Mentre suggerire di consumare più piatti tradizionali che non contengono carne, come in Italia potrebbe essere una parmigiana, funziona meglio. È una questione di comunicazione. In generale lo spostamento verso le proteine e i prodotti vegetali è quello che ha un impatto maggiore. Aiuta a ridurre le emissioni di gas serra e lo spreco alimentare.


Oltre alla comunicazione, a livello locale come si può intervenire? Soprattutto ora che perde inerzia la Strategia Farm to Fork, che inizialmente era un vero e proprio pilastro del Green Deal europeo.

C'erano molte speranze quando è stata presentata, era la prima volta che l'Unione Europea e la Commissione adottavano una politica alimentare sostenibile. Per noi di ICLEI la proposta è particolarmente interessante perché a livello di appalti pubblici prevede standard minimi obbligatori per l'acquisto di alimenti sostenibili. Insieme a oltre 50 organizzazioni abbiamo realizzato un manifesto in diverse lingue, Buy Better Food, per capire quali aree sviluppare. Alimenti sani, benessere degli animali, pratiche biologiche o agroecologiche che avessero benefici anche per i piccoli agricoltori. Abbiamo discusso di quali potrebbero essere gli obiettivi e i criteri, di come verificarli e di come abilitarli. Questo ha avuto un grande impatto. Allo stesso tempo, è interessante perché la Strategia comprende la revisione del programma scolastico (School Scheme) dell'UE, che prevede la distribuzione di frutta, verdura, latte e attività di educazione alimentare nelle scuole.

 

Però la Strategia prevedeva di raggiungere anche il 25% di terreni a coltura biologica e la riduzione dei pesticidi.

Purtroppo questo non è andato a buon fine, però c'è ancora speranza per la revisione del nuovo programma scolastico. Le proteste degli agricoltori, oltre a concentrarsi sui prezzi del grano, fanno pressione contro la riduzione dei pesticidi e per il mantenimento del business as usual. Ogni volta che i grandi agricoltori e i trattori vengono a Bruxelles, si scatena il panico. C’è una diffusa mancanza di visione, ma attualmente sono le grandi imprese agricole a guidare il discorso: negli ultimi 20 anni il 40% dei piccoli agricoltori è scomparso.


Come tutelarli?

Auspichiamo un forte legame tra i piccoli agricoltori e le città attraverso i mercati e la vendita diretta. Ma anche attraverso gli appalti, nelle scuole, negli asili, nelle case di riposo, negli ospedali. A livello europeo questo manca ancora, ma c'è speranza. Prevediamo che l'alimentazione sarà un punto importante dell'agenda della nuova Commissione. Ma in questo mandato, no, non è stato fatto molto, purtroppo.

 

Parliamo di appalti e impegno in materia di educazione alimentare: ICLEI è capofila di SchoolFood4Change, di cosa si tratta?

SchoolFood4Change è il nostro progetto di punta e conta 43 partner in 12 Stati membri. L'idea alla base è molto concreta. Attraverso gli appalti per le mense scolastiche, dagli asili alle scuole superiori, le autorità locali si impegnano a includere determinati criteri. Una certa percentuale di alimenti deve provenire da piccoli agricoltori per favorire filiere alimentari corte e una certa percentuale deve essere costituita da prodotti da agricoltura biologica. Cibo sano, che punta a favorire il legame con la biodiversità. In questo modo, tutti gli SDGs, gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU, possono essere serviti in un unico piatto. Tra l’altro, all’interno della campagna Buy Better Food, abbiamo lanciato una petizione per chiedere che in Europa ogni bambino e ogni bambina, in ogni scuola, abbiano un pasto sano e un'educazione alimentare. Abbiamo raccolto quasi 60.000 firme e vogliamo promuoverla per far sì che questa Commissione o la prossima si impegnino ad attuarla.

Quindi il procurement è il primo pilastro del progetto: quali sono gli altri?

Il secondo pilastro di SchoolFood4Change è quello che chiamiamo "approccio alimentare completo". Non ci concentriamo solo sull'alimentazione, perché non si tratta solo di far mangiare i bambini e poi farli tornare in classe. Prendiamo in considerazione ciò che accade attorno alle scuole: sono disponibili solo cibi fritti e cibo spazzatura o si possono trovare anche opzioni più sane come una mela? Osserviamo le relazioni tra bambini, genitori, nonni e altri membri della famiglia, nonché l'interazione con il personale della cucina e il collegamento con gli agricoltori locali. Cucinare, ad esempio, deve far parte del curriculum scolastico, perché se gli studenti imparano cos'è il cibo sano e lo cucinano in prima persona, saranno interessati a sapere da dove provengono gli alimenti. Infine, il terzo pilastro riguarda il lavoro di cucina. Come possiamo elevare il ruolo del cuoco della mensa scolastica, che spesso non è visto proprio come l'apice di una carriera culinaria? Eppure è un ruolo incredibilmente importante. Gli studi dimostrano che i bambini che ricevono pasti scolastici nutrienti hanno risultati accademici migliori, crescono più sani e si concentrano meglio in classe. Questo aspetto dell'alimentazione scolastica dovrebbe essere maggiormente valorizzato.

 

Peter, in conclusione le chiedo qualche esempio concreto di food policy che merita di essere raccontato ai nostri lettori e alle nostre lettrici. Cosa le viene in mente?

Vicino a Bruxelles, Ghent ha una politica alimentare sostenibile e completa. Applicano molto il principio del commercio equo e solidale, che consiste nel sostenere da un lato le filiere alimentari corte e dall'altro di ridurre la distanza tra agricoltori e consumatori in città, eliminando intermediari e relativi costi. Scegliere prodotti direttamente dal contadino permette di avere buon cibo a un buon prezzo. Ma il legame è anche con molti aspetti sociali ed economici. Per esempio, in città ci sono dei ristoranti sociali dove le persone che di solito non possono permettersi di andare al ristorante possono cenare o pranzare a un prezzo conveniente. Inoltre, forniscono le eccedenze alimentari alle persone disoccupate da lunghi periodi.

 

Un chiaro esempio di sostenibilità sociale. Invece, ci sono altri modi per sostenere filiere corte e produzioni locali?

Dordogne, in Francia, è un esempio molto forte. Nel loro caso, gli appalti pubblici hanno l’obiettivo di acquistare il 100% di prodotti biologici e locali. Ci riescono senza spendere un euro in più, si tratta di farlo in modo intelligente. Un po' meno carne, meno intermediari e soprattutto dividendo il bando di gara in diversi lotti, in modo che i fornitori più piccoli possano partecipare.

 

Un ultimo esempio, tornando al tema dell’educazione alimentare?

In Slovacchia, al confine con l'Ucraina, c'è una scuola con il 90% di bambini romanì per cui è necessario sostenere un’alimentazione sana anche fuori dalla scuola, però non c'era modo di coinvolgere i genitori, perché non partecipavano alle attività scolastiche. Si è allora scelto di iniziare dai bambini, nelle scuole, spiegando cosa significa un’alimentazione sana e quali sono i suoi impatti, eccetera. In poco tempo sono stati i bambini a dire ai genitori: "Perché non mi date del cibo nutriente? Perché non mi date un'insalata, invece che cibo spazzatura a basso costo o solo carne o salsicce?”. Nel corso dell'anno, i bambini hanno educato i genitori. Il risultato è stato davvero notevole.

 

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Immagini: ICLEI

 

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