La bioeconomia in Italia ha raggiunto nel 2024 un valore della produzione di 426,8 miliardi di euro, dando lavoro a circa 2 milioni di persone. Numeri che salgono nel complesso dell’Unione Europea a 3.042 miliardi con 17 milioni di occupati. È la fotografia scattata dall’undicesimo Rapporto sulla bioeconomia in Europa realizzato da Intesa Sanpaolo, in collaborazione con il cluster italiano della bioeconomia circolare Spring, e presentato ieri martedì 17 giugno a Roma all’Università LUISS Guido Carli.  

La bioeconomia italiana rappresenta, quindi, circa il 10% del valore della produzione complessiva e il 7,7% considerando l’occupazione. L'Italia risulta specializzata in questo meta-settore, rappresentando il 14% dell’UE27, una percentuale superiore rispetto a quella che si osserva per il totale delle attività economiche (12,4%).

L'analisi del quadro europeo evidenzia una maggiore rilevanza della bioeconomia per i paesi del Mediterraneo (10,3%) e nei paesi nordici (9,7%). Mentre il focus settoriale fa emergere come in tutte le aree considerate la filiera agroalimentare rappresenti oltre la metà del valore della bioeconomia. Nel sistema moda bio-based spiccano i paesi dell'area mediterranea, trainati dall'Italia, mentre nei comparti del legno e dell’arredo bio-based, così come nella carta, guidano i paesi nordici. 

La componente bio-based del settore chimica, gomma e plastica ha incidenze più modeste e relativamente simili nelle diverse aree climatiche, dall’1,2% del totale della bioeconomia nel Mediterraneo al 2,3% dei paesi nordici.

Pur con un peso economico ancora contenuto, il segmento delle plastiche e dei prodotti in plastica bio-based presenta secondo il Rapporto un forte potenziale di sviluppo, anche alla luce della recente normativa UE in materia di imballaggi, e può contribuire alla riduzione delle emissioni grazie alla minore impronta carbonica e alla migliore gestione del fine vita.

Non mancano, però − sottolineano le ricercatrici di Intesa Sanpaolo − colli di bottiglia e vere e proprie barriere per il pieno sviluppo della bioeconomia italiana ed europea: a oggi non esistono ancora codici NACE e codici ATECO dedicati alle industrie bio-based, né un sistema di standard ed etichettature dedicato, a fronte di 7.000 miliardi di dollari di sussidi annui ancora esistenti per le fonti fossili, secondo l’ultima stima del Fondo monetario internazionale.

Un’indagine condotta presso 171 imprese clienti dell’istituto bancario, attive nel settore della produzione di imballaggi in plastica, conferma il ruolo che i prodotti bio-based già ora giocano nel contesto italiano: poco meno della metà delle imprese intervistate utilizza già input di origine naturale e di queste circa il 40% presenta un utilizzo superiore al 30% di tali materie prime sul totale degli input.

In prospettiva, il 23% delle aziende che non utilizzano materie prime bio-based intende introdurre tali input nei propri processi produttivi, mentre ben il 68% delle imprese che utilizzano input bio-based in maniera marginale dichiarano di voler ampliare l’utilizzo di tali risorse.

Le scelte produttive e strategiche delle imprese risultano strettamente legate al quadro normativo e le imprese bio-based risultano essere maggiormente sensibili e reattive rispetto alla sua evoluzione.

La bioeconomia rappresenta − secondo un’analisi specifica condotta quest’anno grazie alla collaborazione di SRM Centro studi e ricerche − un’opportunità straordinaria di sviluppo inclusivo anche delle aree interne, ovvero quei territori con minore accesso ai servizi essenziali, in particolare nel Mezzogiorno.

La loro ricchezza in biodiversità, la prevalenza di colture stabili, la diffusione di pratiche biologiche, la presenza di sistemi agro-silvo-pastorali integrati e la relativa assenza di agricoltura intensiva configurano questi territori come aree strategiche per l’Italia, non solo in termini produttivi, ma soprattutto come custodi di servizi ecosistemici e innovazione sostenibile. Ulteriore tassello è rappresentato dalle politiche legate alla tutela della biodiversità: la protezione della biodiversità è un requisito fondamentale per l’economia, l’evoluzione sociale e culturale.

Per Stefania Trenti, responsabile Industry and Local Economies Research di Intesa Sanpaolo, “la bioeconomia si conferma un settore rilevante per l’economia italiana, rappresentando un’occasione per la crescita e lo sviluppo sostenibile anche delle aree interne, territori marginali a rischio di spopolamento. Ma la bioeconomia può rappresentare un’occasione per innovare anche per settori altamente competitivi come quello del packaging in plastica. L’originale indagine su imprese attive in questo settore, presentata nel report, conferma il ruolo che i prodotti bio-based già ora giocano nel contesto italiano grazie all’impegno di imprese fortemente innovative e proattive di fronte alle sfide del mercato”. 

Catia Bastioli, presidente del cluster Spring, sottolinea come “in un contesto globale profondamente trasformato, la bioeconomia si conferma una leva strategica per coniugare sostenibilità ambientale, competitività industriale e coesione territoriale. Trasformare la bioeconomia in una vera e propria strategia industriale europea è fondamentale per garantire prosperità duratura, autonomia strategica e benessere condiviso”.

Per Bastioli, “è ora necessario che l’Europa riconosca pienamente il contributo dei prodotti bio-based alla transizione ecologica, integrandoli nel quadro legislativo e regolatorio europeo. Occorrono azioni concrete: introdurre sottocodici NACE per le bioraffinerie, valorizzare il contenuto bio-based nei prodotti, e promuovere una nuova Lead Market Initiative dedicata al settore. Spring, attraverso il proprio impegno nella EU Bioeconomy Clusters Alliance – che oggi riunisce 14 cluster di 11 paesi – lavora attivamente per costruire sinergie europee e rafforzare un ecosistema capace di scalare l’innovazione sul territorio. Insieme a partner provenienti da tutta Europa collaboriamo in numerosi progetti europei, tra cui Terrific e BioinSouth, e alla partnership pubblico-privata del Bio-based Industries Consortium, promuovendo una visione industriale della bioeconomia, fondata sull’integrazione delle filiere, sull’efficienza delle risorse e sullo sviluppo di modelli produttivi più resilienti. Trasformare la bioeconomia in una vera e propria strategia industriale europea è fondamentale per garantire prosperità duratura, autonomia strategica e benessere condiviso.”

Entro la fine di quest’anno è attesa, peraltro, la nuova strategia europea sulla bioeconomia, su cui la Commissione europea guidata da Ursula von der Leyen sembra puntare in modo deciso per la piena realizzazione del Clean Industrial Deal, in un contesto geopolitico globale dove le scelte del Presidente Usa Donald J. Trump − che lo scorso marzo ha revocato l’ordine esecutivo di Biden Biotechnology and Biomanufactoring − potrebbero aprire nuove interessanti opportunità per l’Europa in tema di attrazione di investimenti per bioraffinerie.

 

In copertina: immagine Envato