È una svolta per la sostenibilità degli oceani. Dopo quasi vent’anni di negoziati, entra finalmente in vigore l’Accordo sui sussidi alla pesca dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC), un passo storico verso la lotta alla pesca illegale e alla tutela delle risorse marine.

L’intesa, conosciuta come Fish 1, pone un freno ai sussidi governativi che incentivano pratiche dannose come la pesca eccessiva, quella nelle acque internazionali non regolamentate e la cosiddetta IUU (illegal, unreported and unregulated), cioè la pesca illegale, non dichiarata e non regolamentata. Il divieto riguarda in particolare i contributi legati agli stock ittici sovrasfruttati, salvo nei casi in cui siano in vigore piani di ricostituzione delle risorse.

L'accordo mira direttamente alle sovvenzioni dannose, stimate in 22 miliardi di dollari all’anno. Per diventare operativa, l’intesa richiedeva la ratifica da parte di almeno due terzi dei Paesi membri del WTO, un traguardo raggiunto con 111 adesioni lunedì 15 settembre.

L'entrata in vigore dell'accordo dell'OMC sui sussidi alla pesca arriva dopo che nelle ultime settimane altri Paesi hanno ratificato l'High Seas Treaty dell’ONU, portando il totale vicino alla soglia di 60 parti necessaria per la sua entrata in vigore. Il Trattato sull'alto mare, concordato nel 2023 e talvolta denominato anche Accordo sulla Biodiversità al di fuori della Giurisdizione Nazionale (BBNJ), integrerà l'accordo dell'OMC sulle sovvenzioni alla pesca fornendo un quadro giuridico globale per la creazione di aree protette in alto mare. Se altri paesi firmassero l'accordo entro il prossimo 20 settembre, quest’ultimo entrerà in vigore nel gennaio 2026.

Uno stop alle pratiche dannose

“La pesca garantisce cibo, migliora la nutrizione e supporta mezzi di sussistenza. Il mondo non può permettersi di sovvenzionare attività che minano i benefici di lungo periodo del settore”, è stato il commento di Manuel Barange, vicedirettore generale della FAO e capo della Divisione Pesca e Acquacoltura.

L’agenzia delle Nazioni Unite, che ha offerto supporto politico ai membri dell’Organizzazione mondiale del commercio (OMC), ha annunciato che collaborerà con le operazioni del Fisheries Funding Mechanism, meccanismo pensato per fornire assistenza tecnica e rafforzamento delle capacità di sviluppo, soprattutto ai Paesi in via di sviluppo e meno avanzati.

Elemento cruciale di Fish 1 è il contrasto alla pesca IUU, riconosciuta come pratica dannosa a livello globale. Il nuovo accordo si affianca ad altri strumenti giuridici già in vigore, come l’Accordo sulle misure dello Stato di approdo (PSMA) della FAO, vincolante a livello internazionale dal 2016 e oggi ratificato da 84 parti, inclusa la Cina, che ha aderito lo scorso maggio, e l’Unione Europea in rappresentanza dei 27 Stati membri. Il PSMA mira a bloccare la pesca illegale negando l’accesso ai porti e impedendo l’immissione sul mercato del pescato proveniente da attività irregolari.

Secondo Barange, l’intesa del WTO darà nuovo slancio anche agli organismi di gestione regionale della pesca, la cui collaborazione è cruciale per garantire lo sfruttamento sostenibile delle risorse condivise.

Come sottolineato dal WWF, l'accordo crea anche nuove opportunità di trasparenza, responsabilità e cooperazione globale, contribuendo direttamente all'Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile, all'Obiettivo di sviluppo sostenibile 14.6 e al Quadro globale di Kunming-Montreal sulla biodiversità, istituendo al contempo meccanismi come un nuovo Fondo per la pesca dell'OMC per sostenere i paesi in via di sviluppo nell'attuazione dell’accordo. Diciassette membri hanno promesso di versare al Fish Fund un importo pari a oltre 18 milioni di dollari USA. All'inizio di giugno, il Fondo ha pubblicato il suo primo invito a presentare proposte, invitando i membri ammissibili che hanno ratificato l'accordo a presentare richieste di sovvenzioni per progetti volti a sostenerli nell'attuazione dell'accordo. Le domande devono essere presentate entro il 9 ottobre.

Un accordo dopo quasi due decenni di negoziazioni

Il mondo ambientalista ha accolto con favore il traguardo, ma invita a non fermarsi qui. “In un anno di tensioni geopolitiche, questo è un risultato straordinario che dimostra come i Paesi possano ancora unirsi per proteggere la salute degli oceani. Le comunità costiere di tutto il mondo ne beneficeranno”, ha sottolineato Tom Pickerell, direttore globale del programma oceani del World Resources Institute (WRI).

Pickerell ha definito l’accordo “un passo critico per frenare gli incentivi governativi che alimentano lo sfruttamento eccessivo degli stock ittici”, ma ha ricordato con amarezza i tempi lunghi dei negoziati: “È sconcertante che il denaro dei contribuenti sia stato utilizzato per alimentare la pesca eccessiva, pagando di fatto per distruggere le risorse oceaniche da cui dipendono le comunità. Non ci sarebbero dovuti volere oltre 20 anni di negoziati per concordare di smettere di sovvenzionare la distruzione degli stock ittici”.

Fish 1 è soltanto il primo passo. L’attenzione ora si sposta sulla seconda fase dei negoziati, nota come Fish 2, che dovrà affrontare il nodo dei sussidi che contribuiscono alla pesca eccessiva, rendendo l'accordo più efficace e applicabile. Tuttavia, Fish 2 non può richiedere altri vent'anni. Né l'ambiente marino in declino né le comunità che da esso dipendono possono permettersi di aspettare.

Il caso Panama: se la tutela ambientale diventa una minaccia per i popoli indigeni

Se a livello multilaterale la comunità internazionale celebra l’Accordo sulle sovvenzioni alla pesca, sul campo emergono contraddizioni profonde. In Panama le comunità indigene di pescatori Ngäbe Buglé e Ño Kribo stanno affrontando una crisi esistenziale dopo che il governo ha vietato loro l’accesso all’ultima isola ancestrale di pesca, Escudo de Veraguas.

Le autorità giustificano la chiusura con motivazioni scientifiche legate alla riproduzione degli stock ittici, ma i leader indigeni sottolineano di avere sempre praticato una pesca rispettosa dei cicli naturali, fermandosi per metà anno per permettere il ripopolamento. “Questo è il nostro diritto alla vita e al cibo, che esercitiamo da oltre cento anni”, ha denunciato Alfonso Simon Raylan, leader della comunità Ngäbe Buglé.

La repressione delle proteste è stata violenta, con vittime e gravi violazioni dei diritti umani documentate anche dal Relatore Speciale ONU Albert K. Barume, anche contro donne incinte e bambini. Le comunità denunciano che promesse governative di programmi sociali alternativi non si sono mai concretizzate, lasciandole prive di mezzi di sussistenza.

Il caso panamense mette in luce un nodo cruciale: iniziative globali come il 30x30, volte a designare il 30% delle terre emerse e delle aree marine mondiali come aree naturali protette entro il 2030, rischiano di trasformarsi in strumenti di esclusione per popolazioni che da generazioni custodiscono e gestiscono in maniera sostenibile questi territori.


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