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Andrej Babiš, il miliardario che ha vinto le elezioni in Repubblica Ceca, è il tipo di politico che si presta benissimo al gioco delle analogie. Prima di essere definito, come vediamo nei titoli di questi giorni, “il Trump ceco”, era stato accostato a Berlusconi. Foreign Policy aveva anche coniato l'agghiacciante “Babisconi” per presentarlo al mondo durante la sua prima ascesa, quella che lo aveva già portato a essere primo ministro nel 2017. Babiš minacciò di fargli causa, poi non lo fece.

Dal suo primo mandato, il mondo è cambiato, è cambiato il suo paese, è cambiata l'Unione Europea, sono cambiati temi, problemi e parole. La crisi climatica è peggiorata, la Repubblica Ceca ha la guerra alle porte, e quasi 400.000 profughi ucraini (terza dopo Polonia e Germania). Oggi dopo l'esito delle elezioni di Praga potremmo dire che l'Ucraina ha un amico in meno in Europa e che il Green Deal ha un nemico in più.

Babiš odiava il Green Deal quando tutti gli altri sembravano ancora amarlo. La sua ostilità alle politiche europee di decarbonizzazione è allo stesso tempo ontologica e politica. Ontologica perché il probabile primo ministro della Repubblica Ceca è un miliardario ad altissima intensità carbonica. È diventato uno degli uomini più potenti dell'Europa centrale come magnate dei fertilizzanti, e ha un legame fortissimo con l'industria dei combustibili fossili. Se riuscirà a formare il governo, sarà probabilmente insieme a Trump e Putin il leader mondiale più fossile. La Agrofert è uno dei più grandi conglomerati del paese, possiede e controlla decine di aziende operanti nei settori chimico, petrolchimico e agricolo. Babiš è stato stato amministratore delegato e proprietario di Agrofert fino al 2017, oggi il gruppo è affidato a un trust, ma l'ex CEO esercita ancora influenza. È di fatto ancora sotto il suo controllo.

E poi c'è l'ostilità politica al Green Deal, usato da Babiš in queste elezioni secondo il manuale della destra populista, cioè come capro espiatorio per tutte le difficoltà dei cechi: crisi economica, inflazione, alti costi dell'energia. Il suo partito, Akce nespokojených občanů (ANO), significa letteralmente “azione dei cittadini insoddisfatti”. Trattare l'ecologia come un bancomat politico da cui prelevare consenso è un riflesso condizionato che attraversa l'Europa da anni. C'è da dire però che Babiš è stato un precursore dell'antiambientalismo.

Da primo ministro partecipò alla COP26 di Glasgow, e già allora fece un feroce attacco, da quella platea e in quel contesto, al Green Deal, che sembrava ancora avere il vento a favore. Sembra strano ricordarlo oggi, ma quattro anni fa il galateo politico imponeva se non altro ai capi di stato e di governo un ambientalismo di facciata, obbligo al quale Babiš si era del tutto sottratto. A Glasgow disse che il Green Deal era il suicidio europeo verde. “Il Green Deal ha un costo sociale, economico, politico e geopolitico enorme. Sarà la perdita della competitività europea, causerà impoverimento delle famiglie, disoccupazione, disintegrazione dell'industria e anche distruzione dell'ambiente. Il Green Deal vuole troppo, lo vuole troppo presto e lo vuole a qualsiasi costo.”

Insomma, in un certo senso potremmo dire che Babiš non è solo un seguace del manuale antiambientalista, ma ha anche contribuito a scriverne frasi e pagine. A Glasgow nel 2021, prima della guerra in Ucraina, disse anche che invece di negoziare contratti a lungo termine con la Russia, i politici europei erano troppo impegnati a bloccare il transito del gas, citando il timore di diventare troppo dipendenti dalla Russia. “Signore e signori, siamo già dipendenti dal gas russo e sarà così per ancora trent'anni e non c'è altro modo.” Riascoltate quattro anni dopo, sono frasi che fanno piuttosto impressione, e non è difficile immaginare da che lato dell'Europa si schiererà Babiš, qualora dovesse diventare primo ministro.

I voti li dovrà cercare tra quelli ancora più populisti di lui. Saremmo incoscienti a trattare il 7% di un partito impensabile come quello degli “Automobilisti per sé stessi” come se fosse una nota di colore, un dettaglio nel grande disegno dell'Europa, non solo perché sono voti decisivi ma perché questo single issue party sorto alla destra di Babiš e decisivo per il governo rischia di essere un format, un modello per altre creature politiche europee. Questo partitino abbreviato AUTO (Motoristé sobě) sta a metà strada tra il neonazismo di Alba dorata e il populismo energetico più spietato: è contro le ciclabili, contro le auto elettriche, contro l'Europa, contro l'euro, il suo motto è “macchine, carbone e corone”. Che vada al governo o no, nel parlamento di Praga ci saranno tredici deputati che di fatto rappresentano un mezzo di trasporto e non un pezzo della società. Non è uno stunt, è l'Europa del 2025.

Quello dell'autunno praghese è uno slittamento che arriva in un momento delicatissimo per l'Unione Europea, in cui la narrazione sullo smantellamento del Green Deal sembra precedere lo smantellamento stesso, come una profezia che prova a diventare autoavverante. Il nostro campo di forze è la lacerazione, tra il magnetismo fossile trumpiano tutto dazi, ricatti e gas, quello putiniano a est al quale Babiš è sensibile sul modello di Slovacchia e Ungheria, quello autocratico ed elettrificato cinese, che oggi per l'Europa sta diventando un'angosciante tentazione.

Se dialogare con Trump e Putin è impossibile a prescindere, farlo con la Cina senza un'adeguata consapevolezza di sé e della propria vocazione diventa altrettanto pericoloso. Il Green Deal, con i suoi pregi e i suoi difetti, era il tentativo di darci una vocazione, di poter dire, a noi e agli interlocutori: questo è il nostro posto del mondo, questo è il nostro progetto. Ogni elezione europea sembra aggiungere un nuovo tassello alla lacerazione dell'Unione. Insoddisfatta, arrabbiata, difensiva e soprattutto molto stanca, costretta a consegnarsi a qualcuno o qualcosa perché non più in grado di prendere niente. Questa è l'immagine dell'Europa che ci consegna la vittoria del magnate dei fertilizzanti.

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In copertina: Andrej Babiš e Donald Trump alla Casa Bianca nel 2019