“Temporaneo” è una parola che per l’Italia può significare “decenni”. Lo sanno bene i 33.766 metri cubi di rifiuti radioattivi che l’Italia custodisce in una trentina di depositi temporanei sparsi dal Piemonte alla Puglia. Ed è una quantità che cresce continuamente. Nell’ultimo anno l’aumento è stato di 1.103,5 metri cubi, il 3,38% in più rispetto al 2023.

Lo certifica l’Inventario nazionale dei rifiuti radioattivi pubblicato dall’ISIN, l’Ispettorato per la sicurezza nucleare, con dati aggiornati al 31 dicembre 2024. Una montagna di materiali contaminati che si accumula anno dopo anno mentre il Deposito nazionale − previsto da una legge del 2010 − resta sulla carta. Nel frattempo, lievitano anche i costi di gestione, pagati da tutte e tutti noi attraverso le bollette elettriche.

Lo smantellamento che non si ferma

Perché i rifiuti crescono? La risposta ha un nome, anche se non è l’unico: decommissioning. È il termine usato per indicare lo smantellamento delle quattro centrali nucleari italiane ferme da decenni. Garigliano, Trino, Caorso, Latina: luoghi che per molti evocano un passato remoto, ma che invece sono ancora cantieri attivi. Ogni giorno si smantellano componenti, si abbattono strutture, si rimuovono materiali contaminati. E tutto questo diventa rifiuto radioattivo.

È la risposta principale, dicevamo, ma non l’unica. Nel dicembre 2024 sono tornati alla centrale del Garigliano alcuni rifiuti radioattivi metallici che erano stati spediti in Svezia per il trattamento di fusione. Rientrano meno voluminosi ma sempre radioattivi, sempre da gestire. È l’esempio concreto di come il problema non si risolva: si trasforma, si sposta, ma non sparisce.

E poi ci sono i rifiuti medico-ospedalieri provenienti dagli esami di medicina nucleare. Risonanze magnetiche, radiografie, TAC: ogni giorno ospedali in tutta Italia utilizzano sorgenti radioattive per diagnostica e terapie oncologiche. Laboratori industriali impiegano radiazioni per controlli sui materiali. Centri di ricerca conducono esperimenti. Quando queste sorgenti esauriscono la loro funzione, diventano rifiuti. E a differenza di quelli da smantellamento delle centrali − destinati a esaurirsi quando sarà completata la dismissione − questi rappresentano un flusso costante. Non si fermeranno tra dieci o vent’anni. Continueranno a essere prodotti finché esisteranno ospedali e industrie. Per ora sono “stipati” in una trentina di depositi temporanei. Ma fino a quando?

I numeri dell’inventario raccontano che cosa sta accadendo nei depositi: rispetto al 2023 sono cresciuti soprattutto questi rifiuti ad attività molto bassa, con un aumento di 1.482 metri cubi. Contemporaneamente sono diminuiti quelli a vita molto breve (-109 metri cubi), quelli a bassa attività (-268 metri cubi) e quelli a media attività (-0,91 metri cubi). Variazioni che riflettono il completamento di operazioni di condizionamento − il processo che trasforma liquidi e materiali incoerenti in blocchi solidi sigillati − e il naturale decadimento della radioattività per alcuni materiali.

La mappa dei rifiuti: dove li teniamo

Dove si trovano questi 33.000 metri cubi di materiali radioattivi? Il Lazio è in testa con 12.224 metri cubi, il 36% del totale nazionale. Segue la Lombardia con 6.602 metri cubi, poi il Piemonte con 5.903, la Basilicata con 4.288, la Campania con 2.400, l’Emilia-Romagna con 1.383, la Toscana con 939 e la Puglia con appena 27 metri cubi.

L’aumento maggiore nell’ultimo anno si registra per Nucleco, la società che gestisce un deposito presso il Centro ricerche ENEA della Casaccia, alle porte di Roma: +453 metri cubi. Il motivo? Il trasferimento dei rifiuti radioattivi provenienti dal deposito della ex Cemerad di Statte, in provincia di Taranto, dove proseguono le complicate operazioni di messa in sicurezza e bonifica affidate a un commissario straordinario. Ed è una buona notizia, perché quei rifiuti erano precedentemente stoccati in modalità decisamente poco sicure.

Se parliamo invece di attività radioattiva totale − misurata in terabecquerel − il primato spetta al Piemonte con 27.067 terabecquerel, il 73,5% del totale nazionale. Il dato apparentemente contraddittorio − il Piemonte ha meno volume del Lazio ma molta più radioattività − si spiega con la natura dei materiali: a Saluggia, in provincia di Vercelli, l’impianto Eurex detiene da solo 1.877.598 gigabecquerel. Qui sono stoccati rifiuti liquidi ad alta attività, concentrati in volumi relativamente piccoli ma con livelli elevatissimi di radioattività. È il lascito più pesante del ciclo del combustibile nucleare italiano. E qui entriamo nel capitolo più complesso.

Il deposito che non c’è

Sono passati quasi quindici anni dal 2010, quando il Decreto legislativo 31 ha stabilito la realizzazione di un unico Deposito nazionale. Quindici anni in cui si è parlato, discusso, litigato. Ma il deposito non c’è ancora. E secondo le stime più recenti, i rifiuti radioattivi conferibili al futuro Deposito nazionale ammontano in totale a circa 98.000 metri cubi: circa 84.000 a molto bassa e bassa attività, destinati allo smaltimento definitivo in strutture superficiali, e altri 14.000 a media e alta attività, che dovranno essere stoccati temporaneamente in attesa di un deposito geologico profondo che l’Italia non ha nemmeno iniziato a progettare.

Il progetto del Deposito è finanziato attraverso la componente A2RIM delle bollette elettriche, quella voce che tutti gli italiani pagano per finanziare lo smantellamento del parco nucleare nazionale e la gestione dei rifiuti radioattivi. Nonostante questo, l’iter per la localizzazione è stato un percorso accidentato.

Il 5 gennaio 2021 – fu un’Epifania decisamente vivace dal punto di vista del dibattito pubblico − i ministeri dell’Ambiente e delle attività produttive desecretarono e pubblicarono con SOGIN, la società pubblica incaricata del decommissioning e della realizzazione del deposito, la Carta nazionale delle aree potenzialmente idonee (CNAPI): 67 zone in sette regioni giudicate tecnicamente adatte scatenando reazioni fortissime da parte di amministrazioni locali e comitati cittadini. È seguita una consultazione pubblica che ha raccolto oltre 320 osservazioni, e tra settembre e novembre 2021 si è svolto un seminario nazionale articolato in nove sessioni.

Nel dicembre 2023 il Ministero dell’ambiente ha poi pubblicato la proposta di Carta nazionale delle aree idonee: da 67 si scende a 51 zone, dopo aver vagliato le osservazioni tecniche emerse nella consultazione. Un passo avanti, certo. Ma ancora nessun comune ha detto sì.

L’ultima novità ha una data recente, il 21 agosto scorso: il MASE ha pubblicato il parere sulla prima fase (detta scoping) della procedura VAS. Il grafico interattivo sul sito ha conquistato una nuova casella, in un gioco dell’oca in cui non si vede ancora l’arrivo.

L’Europa che corre, l’Italia che arranca

Mentre l’Italia discute, molti paesi in Europa hanno risolto il problema. La Spagna ha il deposito di El Cabril operativo dal 1992. La Francia dispone di due centri di stoccaggio superficiale gestiti dall’ANDRA e sta procedendo con il progetto Cigéo per lo smaltimento geologico profondo dei rifiuti ad alta attività. La Germania ha individuato siti per il deposito geologico. La Finlandia ha iniziato la costruzione del deposito di Onkalo per il combustibile esaurito.

L’Italia resta tra i pochi paesi europei senza una struttura centralizzata, in violazione della Direttiva 2011/70 dell’Unione Europea che impone agli stati membri di smaltire i propri rifiuti radioattivi sul proprio territorio. Una procedura d’infrazione non è ancora stata avviata, ma il rischio è concreto. Nel frattempo, i rifiuti restano nei depositi temporanei. Strutture che richiedono manutenzione costante, sorveglianza continua, costi che si accumulano anno dopo anno. E che pagano i cittadini.

Senza contare poi che il Deposito nazionale, quando anche sarà realizzato, non risolverà del tutto il problema. Accoglierà i rifiuti a bassa e media attività − la maggior parte per volume − ma non quelli ad alta attività. Questi ultimi dovranno essere stoccati temporaneamente in attesa di un deposito geologico profondo che l’Italia non ha nemmeno in programma.

Il Deposito nazionale costa, certo. Ma quanto ci sta costando non averlo? Nessuno ha mai fatto il conto complessivo. Eppure sarebbe interessante: quanto spendiamo ogni anno per mantenere operativa una trentina di depositi temporanei? Quanto ci costerebbe − in termini di sanzioni europee, di mancato utilizzo dei siti, di rischi ambientali − continuare così per altri anni?

 

In copertina: immagine Envato