*da Dubai
Transizione ecologica, decarbonizzazione, tutela delle foreste, mercati del carbonio. Per la società civile spesso questi elementi chiave per la lotta al cambiamento climatico hanno una doppia faccia. Dove c’è un’opportunità per creare una nuova economia a basse emissioni e resiliente al clima, c’è il rischio di ledere diritti, non offrire una giusta transizione a chi sarà più colpito sul lavoro (basti pensare a cosa significa per milioni di persone il graduale stop alle fossili), non dare equa rappresentanza a tutte le comunità, specie le minoranze e le comunità informali.
Senza riferimenti chiari ai diritti umani nella finanza climatica si rischia che impianti di rinnovabili, miniere per i minerali della transizione, aree protette, riduzione della deforestazione portino enormi problemi.
E così come sono i Paesi più vulnerabili, le minoranze, le comunità indigene a essere le più impattate dagli effetti del cambiamento climatico, altrettanto rischiano di esserlo dalla svolta low-carbon che si sta imprimendo all’economia, in uno scontro dicotomico solo apparentemente insormontabile. Ma tutto questo ha un nome: razzismo climatico.
Il tema dei diritti umani, di una finanza climatica (che qua a COP28 ha trovato spazio solo con l’approvazione del Fondo Loss and Damage) per tutti e tutte, dell’accesso paritario alla tecnologia, della rappresentanza nei processi delle minoranze e delle popolazioni indigene rimane un tema secondario, spesso opposto dagli Stati più autoritari, specie in Asia e Africa, ma poco supportato anche dal mondo industrializzato.
Materia Rinnovabile ha discusso di razzismo climatico con Ronaldo dos Santos, segretario quilombola presso il Ministero per l'Uguaglianza Razziale brasiliano, il cui governo ospiterà la COP30 nel 2025 a Belém, in Brasile, appunto.
“Il razzismo ambientale è un tema che deve acquisire forza nell'intero dibattito sul clima”, esordisce Dos Santos, seduto nell’ufficio di Materia Rinnovabile qua alla COP. “Innanzitutto perché nei modelli di sviluppo dei cicli economici che si verificano in tutto il pianeta è sempre presente. Il rischio di distruggere territori, violare i diritti delle popolazioni, di razzializzazione rimane diffuso anche con la transizione ecologica. Riguarda uomini e donne e comunità come la mia, i Quilombola. Le multinazionali arrivano sui territori senza considerare il gruppo colpito nell’attuazione di un progetto. Allo stesso tempo i disastri climatici colpiscono esattamente le stesse comunità, che però tradizionalmente e storicamente conservano al meglio biomi e risorse naturali, con un apporto concreto alla sfida climatica.”
Il Brasile da anni è in prima linea nel dibattito climatico. Dopo una breve parentesi con il climanegazionista Jair Bolsonaro, è tornato con il presidente Lula a cercare un ruolo globale, fermando la deforestazione da un lato e portando i diritti delle comunità e delle popolazioni indigene al centro del dibattito dall’altro, sia nel proprio Paese che in fori internazionali come la convenzione quadro sul clima e il negoziato sulla biodiversità ONU, oltre che al G20.
Gli chiedo di raccontarci quali sono le sfide tra agrobusiness, estrattivismo e green economy per la minoranza quilombola e il suo viso si illumina. “Le comunità quilombola sono un segmento della popolazione brasiliana diffusa in tutta l'America Latina, con altre denominazioni”. I quilombo erano i primi insediamenti rurali degli schiavi africani in Brasile che fuggivano dalle piantagioni, fino all’abolizione della schiavitù nel 1888: comunità ancora oggi poverissime e spesso escluse da processi di partecipazione legati allo sviluppo economico.
“Sono comunità a cui, di regola, non è garantito il diritto al territorio, sia perché in vari Paesi non esiste una legislazione specifica che lo garantisca, sia perché in altri, come nel caso del Brasile, esiste questa legislazione ma è molto difficile da attuare a causa delle controversie che sorgono. Se non si ha un titolo di proprietà non si possono esigere diritti.”
La disputa agraria è una delle più feroci in questi territori. Spazi in cui, quindi, si verifica un processo di deterritorializzazione, con persone che arrivano da fuori e si impongono con minacce, persecuzioni, omicidi nelle campagne.
Se da un lato gran parte dei progetti economici sono legati all’agrobusiness, ci sono anche il settore minerario, disboscamenti e l’idroelettrico. “È necessario che ci sia un progetto di sviluppo economico del Paese, che non percepisca comunità come la nostra come un problema ma, al contrario, come parte da coinvolgere e che può portare valore aggiunto.”
Che siano processi multilaterali come l’ONU o iniziative private di multinazionali, raramente si discute di razzismo ambientale o climatico, perpetrando bias per cui gli scienziati sono spesso maschi bianchi ed è il mondo industrializzato a insegnare e dire cosa fare.
“Abbiamo bisogno che il razzismo ambientale venga incorporato più fortemente di quanto sia stato menzionato finora”, spiega serio Dos Santos. “Deve essere trattato dai leader globali, dalle aziende, dall’intero dibattito COP come una preoccupazione prioritaria. Non si possono affrontare le questioni ambientali senza affrontare il tema del razzismo ambientale, specie se si parla di Just Transition.”