Mentre Stati Uniti e Cina sperimentano già flotte su larga scala, in Europa il dibattito sulle macchine a guida autonoma è ancora aperto. Secondo l’eurodeputato Pierfrancesco Maran, l’Italia non parte da zero: le università italiane, i suoi centri di ricerca e una rete di startup emergenti possono giocare un ruolo chiave nel definire un modello europeo di guida autonoma, più attento alla sicurezza e alla mobilità.

In un’intervista esclusiva a Materia Rinnovabile, Maran ripercorre lo stato dell’arte della ricerca italiana, le sfide regolatorie, l’impatto sul lavoro e le potenzialità ambientali di una mobilità che promette di ridisegnare le nostre città.

 

Onorevole Maran, negli Stati Uniti e in Cina la guida autonoma è già realtà. Come si sta muovendo l’Italia su questa frontiera tecnologica?

L’Italia non è assente da questo ragionamento, anzi. Negli anni Ottanta una delle prime auto a guida autonoma al mondo – una Lancia Thema – fu sviluppata proprio in Italia e partecipò alla Mille Miglia. Quella tradizione continua: oggi abbiamo università di eccellenza come Milano, Torino, Parma e Modena, che producono prototipi di altissima qualità. Mi spingo a dire che, a livello prototipale, i nostri sono migliori di quelli statunitensi. Il vero limite non è l’intelligenza o la ricerca, ma il capitale. Negli Stati Uniti un prototipo diventa rapidamente una flotta di 500 o 1.000 veicoli; da noi, se da uno si passa a tre è un successo. È un problema strutturale. Ma sono moderatamente ottimista: al Politecnico di Milano sta nascendo una startup che potrebbe diventare uno dei grandi player europei del settore nei prossimi anni.

Spesso si dice che le nostre città non siano adatte. È davvero così?

No, non credo esista una “specificità italiana” del traffico che renda impossibile la guida autonoma. È vero, abbiamo strade strette e una certa indisciplina, ma anche in Cina o in negli Stati Uniti ci sono differenze enormi tra le città. Londra e San Francisco, ad esempio, hanno caratteristiche molto simili alle nostre. Bisogna smetterla con lo stereotipo dei “vicoli di Napoli”: le città italiane possono adattarsi alla guida autonoma come tutte le altre. Il vero nodo, piuttosto, è normativo. Siamo in ritardo come Europa e come Italia: il nostro Codice della strada, approvato solo un anno fa, definisce ancora che ogni veicolo debba essere “guidato da un uomo”. È una visione novecentesca. Le nuove norme europee del 2026, che individueranno zone di sperimentazione, potranno aiutare a colmare il gap, anche per educare i cittadini: la guida autonoma non è più futuro, è presente.

Molti temono la perdita di posti di lavoro. Quali sono invece i benefici concreti della guida autonoma?

È vero che alcune preoccupazioni sono legittime, ma oggi mancano autisti e personale nel trasporto pubblico. La guida autonoma andrà a integrare e non sostituire. Inoltre, se pensiamo agli anziani o alle persone disabili, può restituire loro il diritto alla mobilità senza mettere a rischio sé o gli altri. O ancora, pensiamo ai giovani sotto i 18 anni o agli abitanti delle aree montane, oggi escluse dai servizi pubblici. Secondo alcuni studi, una città con un sistema di auto autonome in sharing potrebbe ridurre di sei o sette volte il numero di veicoli necessari, liberando spazio urbano e migliorando la qualità della vita. È una rivoluzione sistemica, non solo tecnologica. A differenza dell’elettrico, cambierà i modi del lavoro e della mobilità in tempi rapidissimi, in meno di una generazione.

Negli Stati Uniti e in Cina si stanno già affrontando i nodi legali e assicurativi. L’Europa come intende regolarsi?

Dipende dal modello. Se parliamo di flotte condivise, la filiera assicurativa è più semplice, visto che c’è un rapporto diretto tra produttore e assicurazione. È più complesso, invece, il caso delle auto private con sistemi di guida autonoma parziale, dove la responsabilità è ibrida tra conducente e software. Paradossalmente, il livello massimo di autonomia [livello 5, ndr] semplifica le cose, perché elimina la componente umana. Ma la vera novità sarà culturale, perché le auto autonome rispettano i limiti di velocità e riducono gli incidenti. È un cambio di paradigma che potrebbe salvarci da molti dei nostri errori quotidiani.

Guardando al futuro dell’automotive, il divieto di vendita di auto a combustione interna dal 2035 è ancora realistico?

Credo che, in realtà, non fosse neanche necessario fissare una data. In dieci anni, che sono un’eternità per la tecnologia, il mercato andrà naturalmente in quella direzione. L’idrogeno è interessante, ma non sarà pronto per un uso massivo entro il 2035. L’elettrico, invece, sta già fissando uno standard che dialoga bene con il cuore della macchina, che diventa sempre più digitale. Il problema è che continuiamo a considerare l’auto come un oggetto meccanico del Novecento. Ma chi oggi innova in questo settore, dalle big tech americane ai produttori cinesi, non viene dall’automotive. L’auto del futuro sarà più simile a un computer su quattro ruote. E questo cambierà anche il modo in cui misuriamo l’impatto ambientale.

Cosa cambierà con il nuovo regolamento europeo sul fine vita dei veicoli? Un dossier che lei conosce bene…

L’obiettivo è chiaro: dovremo usare nei nuovi veicoli più materiali riciclati, soprattutto plastica e alluminio, ed evitare che l’alta tecnologia montata sulle auto di oggi diventi un rifiuto non riutilizzabile. C’è anche un tema di indipendenza industriale. Dobbiamo impedire che l’intera filiera dei demolitori europei diventi subalterna alle case automobilistiche o a paesi terzi, come la Cina. È un modo per tutelare quel tessuto di piccole e medie imprese che rappresenta un pilastro del sistema industriale europeo.

 

In copertina: Pierfrancesco Maran fotografato da Philippe BUISSIN © European Union 2024