A metà novembre, l’azienda di abbigliamento e attrezzature sportive Patagonia ha pubblicato il suo primo Work in Progress Report, coprendo l'esercizio fiscale conclusosi il 30 aprile 2025, frutto di una riflessione aziendale che si propone come sperimentale e non definitiva. Nel report, l’azienda statunitense, che nel 2022 ha ritirato la proprietà dalle mani del fondatore per porre come unico azionista la Terra, racconta non solo le proprie buone pratiche, ma anche le lacune e le sfide irrisolte.

“Nessuna delle cose che facciamo è sostenibile”

Il report, definito appunto work in progress è un invito ad assumere che l’impegno ambientale e sociale non è una tappa raggiunta, bensì un percorso ancora in corso e che, sgomberando fin da subito ogni dubbio, “nessuna delle cose che facciamo è sostenibile”.

Il documento ricorda che alcuni traguardi decennali fissati nel 2015 sono stati raggiunti o quasi: nel 2025 il 95% dei prodotti è Fair Trade Certified e il 100% realizzato senza l’uso intenzionale di PFAS. Diverso il discorso per la neutralità carbonica: Patagonia ha scelto di abbandonare formalmente tale obiettivo nella sua formulazione originaria, rifiutando l’idea di compensare le emissioni senza affrontare i nodi strutturali della produzione. Non essendo un’opzione comprare crediti e continuare a inquinare, Patagonia ha riformulato l’obiettivo di carbon neutrality in una sfida più radicale: ripulire la supply chain e raggiungere emissioni nette pari a zero entro il 2040.

Patagonia Ownership Model

“La Terra è ora il nostro unico shareholder” è uno dei mantra del fondatore Yvon Chouinard che ama ripetere anche che “ogni miliardario è un fallimento politico”. A lui fa eco Malinda Chouinard, co-fondatrice di Patagonia, che racconta: “Abbiamo gestito Patagonia per cinquant’anni come un esperimento di imprenditoria responsabile e abbiamo dimostrato che funziona. Il nostro prossimo esperimento è trasformare le aziende e il capitalismo. Non possiamo salvare il mondo, ma possiamo impegnarci nella lotta contro ciò che lo distrugge. Tutto il resto è un sintomo, il modello aziendale moderno di fare imprenditoria è la causa e deve cambiare”.

Uno dei cardini del report è, non a caso, l’assetto proprietario dell’azienda californiana. Nel 2022, Patagonia è stata ristrutturata. Invece di incassare vendendo l'azienda o quotandola in borsa, la famiglia Chouinard ne ha scelto lo scopo. Lo ha fatto cedendo tutte le azioni a entità distinte create con due obiettivi: impiegare tali risorse per combattere la crisi climatica e proteggere per sempre lo scopo e i valori dell'azienda.

I nuovi proprietari sono diventati il Patagonia Purpose Trust, che protegge lo scopo e i valori dell'azienda, e Holdfast Collective, che impiega le azioni e i profitti futuri per combattere la crisi climatica ed ecologica. I dividendi annuali vanno per il 98% all’Holdfast Collective e il 2% al Patagonia Purpose Trust. Il nuovo modello di proprietà è progettato per garantire che i valori dell’azienda rimangano invariati, per sempre.

I materiali contano

Nonostante questa architettura pionieristica, gli ostacoli restano evidenti: infrastrutture energetiche insufficienti nei paesi produttori, complessità della supply chain e il peso inevitabile dell’impatto generato da qualsiasi bene materiale. È nel capitolo dedicato al prodotto che Patagonia affronta con più chiarezza il cuore del problema: produrre meno e meglio, sapendo che ogni scelta ha un costo ambientale. La strategia ruota attorno a durabilità, riparabilità e qualità dei materiali, con l’obiettivo di prolungare il ciclo di vita dei capi e ridurre i rifiuti.

Il report introduce alcuni dei progressi più significativi: oltre il 93% del poliestere e l’89% del nylon utilizzati nel 2025 proviene da fonti riciclate, una transizione che ha ridotto l’uso di petrolio e aperto nuovi flussi di riciclo. L’84% dei tessuti e dei componenti è oggi realizzato con preferred materials, vale a dire, secondo la definizione di TextileExchange, fibre o materie prime che “garantiscono costantemente un impatto ridotto e maggiori benefici per il clima, la natura e le persone”.

Particolarmente rilevante è l’avanzamento nel cotone impiegato nel 2025: il 44% è certificato biologico, il 17% è Regenerative Organic Certified, l’11% cotone in conversione verso il biologico, e il 27% riciclato. Patagonia ribadisce il proprio sostegno al cotone rigenerativo, sottolineando che la sua diffusione e la creazione di un mercato solido e affidabile per la fibra rigenerativa dipende dall’impegno collettivo.

Tra impatto ambientale e attivismo

Nonostante i progressi, il report non nasconde le difficoltà. Le emissioni assolute sono aumentate nell’ultimo anno, complice l’ampliamento dell’assortimento e la crescita produttiva. Tra il 92 e il 95% dell’impatto ambientale complessivo continua a derivare dalle materie prime e dal prodotto finito, confermando un limite strutturale che l’azienda non può governare da sola.

L’ultima parte del report è dedicata alla dimensione comunitaria e all’attivismo. Dal 1985 l’azienda devolve l’1% delle vendite a organizzazioni ambientaliste, ma grazie alla nuova governance può destinare risorse ancora più significative a movimenti e iniziative dal basso. Nel documento si insiste non solo sulla quantità di fondi erogati, ma sulla qualità del rapporto con le comunità, sull’importanza del lungo periodo e sulla necessità di affiancare al sostegno economico un lavoro politico e culturale di advocacy. D’altra parte, anche in questo campo Patagonia riconosce che un’azienda, per quanto virtuosa, non può compensare l’assenza di infrastrutture e politiche pubbliche adeguate.

Tra gli elementi degni di nota, nell’aprile 2025 Patagonia ha pubblicato Tools to Save Our Home Planet: A Changemaker's Guidebook (Strumenti per salvare il nostro pianeta: una guida per chi vuole cambiare le cose). “Più strati di cipolla si sbucciano, più si piange”, è uno dei claim che si legge nel report a testimoniare le tante sfaccettature di ogni singola azione. In questa ottica va letto quel “all dams are dirty” presente nel report, per dire che anche le fonti energetiche etichettate come “rinnovabili” hanno un impatto negativo significativo. Ad esempio, l'energia idroelettrica proveniente da dighe e bacini idrici di grandi e piccole dimensioni, pur costituendo la maggior parte del mix di energie rinnovabili in molte regioni, è ben lungi dall'essere priva di emissioni.

Il report, nel suo complesso, non offre soluzioni definitive, ma apre un dibattito. Ricorda che fare meglio è possibile solo se si continua a interrogare i modelli, non solo i prodotti; che la trasformazione richiede collaborazione sistemica e non può essere ristretta dentro i confini aziendali. E mentre i risultati finanziari dell’anno − 1,47 miliardi di dollari di ricavi e 14,7 milioni donati tramite 1% for the Planet − mostrano la solidità del business, Patagonia insiste che la sfida vera non è crescere (o, come scrive nel report, la “Careful Growth”) ma cambiare le regole del gioco. In questo senso, più che un punto d’arrivo, l’azienda continua a essere un benchmark in divenire.

 

In copertina: foto di Chin Jimmy, Patagonia