Tra decreti, incentivi e modifiche al perimetro geografico e temporale di accesso ai fondi Pnrr, a fine luglio il GSE registrava in Italia circa 1.900 configurazioni tra comunità energetiche rinnovabili (CER) e autoconsumo collettivo. I numeri sono in netta crescita, ma non quanto ci si aspettava: la capacità energetica installata (tra i 350 e i 380 Mw) rimane lontana dagli obiettivi definiti dal MASE, 5 gigawatt entro il 2027.

Come creare CER solide tra ostacoli culturali e incentivi temporanei

Dal 17 luglio il contributo da PNRR in conto capitale fino a un massimo del 40% del costo di investimento è stato ampliato alle CER nei Comuni con meno di 50mila abitanti. Inizialmente il limite era fissato a 5mila. Inoltre è stata allungata la deadline di ammissione: per accedere all’incentivo i nuovi impianti dovranno entrare in esercizio non oltre 31 dicembre 2027, con lavori completati entro giugno 2026.

“Nonostante gli ultimi interventi, Il ritmo di diffusione delle CER è molto lento perché manca una sensibilizzazione culturale – commenta a Materia Rinnovabile Giuseppe Milano, ingegnere e autore del libro COMUNITÀ ENERGETICHE – Esperimenti di generatività sociale e ambientale’. “In Italia non c’è abitudine a fare le cose insieme, manca la fiducia reciproca. Non a caso, la prima domanda che una persona comune si pone davanti a una comunità energetica non è ‘cos’è’, ma ‘dove sta la fregatura’”.

Secondo Sergio Olivero, Head of Business & Finance Innovation all’Energy Center del Politecnico di Torino − think tank che supporta le autorità locali, nazionali e transnazionali su politiche e tecnologie energetiche da adottare - per capire il fenomeno CER bisogna andare oltre i numeri. “Ha relativamente senso parlare di numero di comunità energetiche – spiega Olivero –. È più corretto contare le configurazioni di autoconsumo, ossia gli insiemi di produttori e consumatori collegati alla stessa cabina primaria. Alcune comunità hanno decine di configurazioni, altre solo una. Limitarsi al numero di partite IVA è fuorviante”.

Per Olivero, esistono tre tipologie di CER: quelle “solide”, con l’obiettivo di durare vent’anni e crescere stabilmente; quelle nate per intercettare il contributo a fondo perduto del 40% sugli impianti sotto il megawatt, destinate a breve vita; e infine quelle sorte grazie a piccoli contributi di fondazioni o enti locali, che rischiano di non avere risorse per sostenere i costi di gestione. “Molte di queste comunità – avverte Olivero – dall’anno prossimo finiranno in crisi finanziaria perché non avranno i soldi per pagare commercialisti, revisori e piattaforme di gestione”.

Tra profitto e valore sociale dell’energia condivisa

Un altro nodo è la gestione della flessibilità della rete elettrica. Con l’aumento dei consumi e la spinta all’elettrificazione, le comunità energetiche possono diventare attori chiave, fornendo servizi di stabilizzazione grazie a batterie e sistemi digitali avanzati. “Il vero valore delle comunità energetiche sono i POD, cioè i contatori”, continua Olivero. “Aggregandoli e gestendoli in modo intelligente, si possono generare non solo decine di migliaia, ma anche milioni di euro all’anno. Così si può davvero combattere la povertà energetica”.

Giuseppe Milano si trova d’accordo nel puntare su CER grandi che creino valore economico, ma percepisce il rischio che spesso passi l’idea che le comunità energetiche siano “l’ennesimo superbonus”, un’occasione per incassare incentivi piuttosto che per creare cooperazione. “In questo modo si rischia di trasformare un’opportunità di inclusione in un’operazione di greenwashing. Una comunità energetica non deve essere un progetto speculativo, ma un modello innovativo di cooperazione. Solo così potrà davvero contribuire a combattere la povertà energetica e rafforzare la coesione sociale”, conclude Milano.

L’opportunità delle CER transfrontaliere 

In Europa la strada delle CER è segnata, anche se ogni paese procede con tempi, regole e approcci diversi. In questo quadro, le comunità energetiche transfrontaliere diventano uno strumento chiave per connettere hub energetici di diversi paesi che potrebbero persino giocae un ruolo importante nella gestione del nucleare da Francia e Slovenia.

In Italia, il decreto Cacer del 2023 ne parla espressamente, indicando le tipologie di CER transfrontaliere e dando al GSE il compito di supportarne la creazione. Oltre a progetti pilota in ambito Horizon, anche gli enti privati tentano di sviluppare sinergie transfrontaliere.

Per esempio, a settembre, la Energy City Hall (ECH), la prima CER italiana, ha siglato un accordo con soci privati nel Principato di Monaco e nel Département des Alpes Maritimes (Francia) per realizzare la prima CER transfrontaliera. Olivero, che è presidente del Comitato scientifico dell'accordo, è cosciente degli ostacoli di un progetto così innovativo, ma è convinto che questi strumenti possono davvero accelerare la transizione energetica europea.


In copertina: foto Envato