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Ci sono denari più verdi di altri, e fra quelli asiatici lo yuan cinese è oggi il più brillante. Merito delle politiche green della Banca Popolare Cinese che, secondo il primo East and Southeast Asia Green Central Banking Scorecard realizzato dal think tank Positive Money, ha fatto negli ultimi anni molti progressi in materia di finanza climatica e sostenibile, dando una spinta alla transizione ecologica non solo nazionale, ma di tutta la regione.

Il report, pubblicato il 10 settembre, ha per la prima volta analizzato le politiche green delle banche centrali dell’area ASEAN Plus Three (APT), ovvero i dieci membri dell’Associazione delle nazioni del Sud-Est asiatico a cui si aggiungono le tre maggiori economie dell’Asia orientale (Cina, Giappone e Corea del Sud). Sebbene, come osservano gli analisti, nessuna banca centrale “stia oggi attuando politiche su una scala commisurata alla gravità della crisi ecologica”, alcuni paesi asiatici come Indonesia, Malaysia, Singapore, Filippine e Giappone hanno fatto passi importanti. E a guidare la cordata c’è, ancora una volta, la Cina, che del resto già nel ranking relativo alle nazioni del G20 si era aggiudicata un solido sesto posto: dietro all’Unione Europea, ma ben al di sopra della performance degli Stati Uniti.

Che cos’è la Green Central Banking Scorecard

Redatta sin dal 2021, la Green Central Banking Scorecard è letteralmente una pagella assegnata ai paesi del G20 in base ai progressi delle proprie banche centrali nell’integrare le politiche ambientali in operazioni e iniziative. I paesi vengono valutati e poi classificati attraverso quattro categorie: Research and Advocacy, Monetary Policy, Financial Policy, e Leading by Example.

Il report è redatto dall’organizzazione globale Positive Money, un think tank con base a Londra e Bruxelles che si occupa di promuovere la riforma del sistema monetario e bancario mondiale in ottica più equa e sostenibile, fornendo a governi e banche centrali analisi e strumenti per indirizzare gli investimenti verso le comunità e la transizione ecologica.

L’ultima classifica, pubblicata nel 2024, è guidata da Francia, Germania e Italia, a cui segue al quarto posto l’intero blocco dell’Unione Europea (quindi la BCE), al quinto il Brasile (che ha fatto grandi passi avanti rispetto al 2022) e al sesto la Cina. Ben più in basso, al 17° posto, si trovano gli Stati Uniti.

Per la prima volta, quest’anno, Positive Money ha “dato i voti” anche alle banche centrali dell’area del Sud-Est asiatico e dell’Asia orientale, redigendo una classifica specifica per una delle regioni più cruciali sul fronte della transizione e delle politiche climatiche.

Le politiche green delle banche centrali in Asia

La East and Southeast Asia Green Central Banking Scorecard è la prima classifica del suo genere che valuta, paese per paese, le performance green delle banche centrali asiatiche. Sotto la lente di Positive Money sono finiti 13 paesi: i dieci membri dell’ASEAN (Laos, Cambogia, Indonesia, Malaysia, Myanmar, Filippine, Singapore, Thailandia, Vietnam e Brunei) più Cina, Giappone e Corea del Sud.

Nel complesso, scrivono gli analisti, lo sviluppo delle politiche green delle banche centrali asiatiche è ancora in una fase iniziale. Le differenze fra i vari paesi, e le criticità specifiche, sono tuttavia già molto evidenti. Nazioni con un PIL relativamente basso, come Vietnam, Cambogia, Laos, Brunei e Myanmar (che totalizza uno zero), hanno punteggi che indicano come le loro banche centrali siano ancora in una fase molto immatura nell’esplorazione e implementazione di politiche green. Ma questi paesi, va detto, scontano tuttora pesanti eredità coloniali e belliche, guerre civili e, non da ultimo, una posizione marginale nell’ambito del sistema monetario e finanziario internazionale.

Il gruppo dei più diligenti, guidato dalla Cina, comprende invece economie consolidate o emergenti come Giappone, Singapore, Malaysia, Indonesia e Filippine, mentre a metà strada fra i due gruppi si trovano Corea del Sud e Thailandia. Giappone e Corea del Sud si guadagnano tuttavia una tirata d'orecchie da Positive Money che li giudica “sottoperformanti rispetto alla loro notevole capacità economica e al loro contributo storico sproporzionato alle emissioni di carbonio, che li vede secondi solo alla Cina”.

“I paesi dell'ASEAN+3 sono pesantemente colpiti dagli effetti più gravi del collasso climatico, ma molti rimangono strutturalmente vincolati all'estrazione di combustibili fossili”, commenta Joe Herbert, ricercatore senior di Positive Money e lead author del report. “Fondamentale per cambiare questa situazione sono gli investimenti verdi su larga scala, e le banche centrali hanno un ruolo chiave nel guidare la finanza lontano dall'espansione dei progetti sui combustibili fossili e verso la crescita dell'energia pulita."

La Banca popolare cinese vira al verde, ma ora deve liberarsi del carbone

E veniamo alla prima della classe. La Cina, si legge nel report, ha le politiche di green central banking più incisive di tutta l’area ASEAN+3. Il merito va alla Banca popolare cinese, affiancata da alcuni organi governativi come la National Financial Regulatory Administration (NFRA), che regola il settore finanziario e ha sostituito nel 2023 la China Banking and Insurance Regulatory Commission (CBIRC). Ma quali sono, dunque, le iniziative che sono valse il primo posto alla banca centrale cinese?

I punteggi relativi alla ricerca, alla promozione e alla disseminazione di buone pratiche non sono in realtà molto alti: decisamente meglio, su questi punti, fa ad esempio Singapore, nonostante le dimensioni imparagonabili dei due paesi. La Repubblica Popolare va invece forte sulle politiche più concrete: quelle finanziarie e monetarie.

Per quanto riguarda le politiche finanziarie, gli analisti segnalano ad esempio gli stress-test climatici implementati dalla Banca Popolare e le linee guida sulla finanza verde emanate dal CBIRC, “che impongono a banche e assicuratori una serie di requisiti per integrare ulteriormente le considerazioni ambientali nelle loro politiche e pratiche”.

Tra le politiche monetarie, il report segnala invece il Carbon Emission Reduction Facility (CERF) della Banca Popolare, che fornisce finanziamenti a basso tasso di interesse alle istituzioni finanziarie per estendere prestiti a progetti di riduzione delle emissioni, e l'integrazione dei green bond nel quadro delle garanzie della Banca Popolare. “Queste politiche hanno acquisito validità rispetto al nostro quadro di valutazione dopo che gli incentivi paralleli per i prestiti alla produzione di ‘carbone pulito’ sono cessati nel 2023 e il carbone è stato eliminato dalle classificazioni dei green bond”, scrivono gli analisti di Positive Money.

Tuttavia, si osserva ancora nel report, è proprio l’industria del carbone, che il Dragone non ha intenzione di dismettere a breve, a frenare un ulteriore sviluppo del central green banking cinese, come dimostrano diversi prestiti ancora in essere erogati negli scorsi anni dalla Banca popolare nell’ambito di un programma speciale per il settore. È un’annosa questione, per la quale la Cina – come del resto altri paesi del Sud Globale – ha sempre fatto valere il principio delle “responsabilità comuni ma differenziate”: chi ha meno emissioni “storiche” non dovrebbe essere tenuto a un phase out dal carbone rapido come per i paesi del Nord Globale, molto più responsabili per la crisi climatica.

Eppure, come chiosano i ricercatori di Positive Money, "dato il livello di influenza politica ed economica della Cina, i suoi progressi nel green central banking non sono solo di importanza nazionale, ma hanno la capacità di plasmare e accelerare la decarbonizzazione e la transizione ecologica in tutta la regione".

 

In copertina: immagine Envato