Grazie all'avvento delle tecnologie di simulazione 3D, ora non è un'utopia creare modelli virtuali tridimensionali di organi complessi come il cuore o il cervello. Da qualche anno, l'azienda francese Dassault Systèmes sta trasferendo verso questo ambito molto sfidante le proprie competenze di industria aerospaziale e automobilistica. La svolta decisiva è avvenuta nel 2014, col lancio del Living Heart Project, che oggi rappresenta il progetto di punta della divisione Virtual Human Modeling di Dassault. La storia ha radici personali: nel 1989, la figlia di Steve Levine, ora Senior Director dell'azienda, nacque con una grave e rara malformazione cardiaca.

Steve Levine

Professore, come è nato il Living Heart Project, una tecnologia che lei ha vissuto e vive come scienziato e come padre?

La doppia prospettiva che ha plasmato praticamente tutto quello che ho fatto da quando ho lanciato il Progetto è questa. Come scienziato e ingegnere, so bene che il corpo umano è un sistema estremamente complesso. Ma avendo dedicato la mia carriera a modellare e simulare sistemi complessi, mi sembrava possibile applicare lo stesso approccio al corpo umano. Tuttavia, come padre, ho vissuto sulla mia pelle cosa significa dover prendere decisioni mediche cruciali per la vita di una persona che ami, con una limitata possibilità di prevedere le conseguenze. In quel momento non è più scienza, non è più teoria: diventa tutto tremendamente personale.

Ci sono stati momenti di dubbio durante lo sviluppo del progetto?

All'inizio erano tanti, ovviamente. La sfida scientifica sembrava troppo ambiziosa o le difficoltà nel far collaborare esperti di campi diversi parevano insormontabili, ed è stata la parte di me come padre a rifiutarsi di mollare. Con la vita di mia figlia in gioco, non potevo permettermi di aspettare che il sistema cambiasse. Dovevo contribuire a costruire ciò che ancora non esisteva. Per più di un anno non ho rivelato il mio coinvolgimento personale: dovevo essere sicuro che le mie idee fossero valide di per sé.

Quale ritiene sia il prossimo traguardo importante nella tecnologia dei gemelli virtuali, dopo il successo del gemello virtuale cardiaco?

Credo che il prossimo grande passo non sia semplicemente creare un altro gemello virtuale di un organo, ma far convergere tutti quelli esistenti. Recentemente ho avuto un problema al cervello, risolto, un tumore benigno delle dimensioni di una palla da golf che mi stava creando molti fastidi. Questa mia esperienza ha reso tutto più chiaro: nessun organo esiste in isolamento. Il cuore, il cervello, il sistema immunitario, quello endocrino, sono in continua interazione in modi complessi e dinamici. Se vogliamo migliorare le cure, dobbiamo smettere di trattare il corpo come un insieme di parti disconnesse.

E dunque, qual è la prossima mossa?

Ora mi sto concentrando sul riunire le comunità globali di modellazione dei vari organi - cardiaca, neurologica, epatica, renale, polmonare - per creare un framework unificato e interoperabile. Solo così potremo guidare la medicina a trattare non solo una condizione specifica, ma il paziente nella sua totalità. La sfida tecnica è significativa - integrazione multiscala, interfacce dati standardizzate, fedeltà a livello normativo - ma il cambiamento culturale potrebbe essere ancora più difficile. L'attuale sistema sanitario è altamente specializzato e frammentato, ma la malattia non rispetta questi confini. E nemmeno i nostri modelli dovrebbero farlo. Credo che se riusciremo a fare questo nel modo giusto, il gemello virtuale diventerà più di una semplice simulazione. Sarà un progetto vivente della salute umana, capace di trasformare la diagnosi, personalizzare la terapia e anticipare i problemi prima che si manifestino. Questa è la visione verso cui sto lavorando. Ed è qualcosa che possiamo realizzare solo se migliaia di persone collaborano.

Il Living Heart Project si distingue per una collaborazione aperta, senza dispute sulla proprietà intellettuale, da oltre 10 anni. È un risultato notevole nella ricerca medica…

Fin dall'inizio abbiamo preso una decisione consapevole: se volevamo cambiare il sistema, non potevamo affidarci solo alle normali forze competitive, dovevamo passare a un livello superiore. Questo significava creare uno spazio pre-competitivo sicuro dove industria, università, medici e autorità regolatorie potessero lavorare insieme senza paura di perdere proprietà intellettuale, controllo o reputazione. Non abbiamo chiesto alle persone di rinunciare alla proprietà, ma di condividere uno scopo. Potevano poi utilizzare i nostri progressi per il loro beneficio individuale o organizzativo, qualunque esso fosse.

Qual è stato l'elemento chiave di questo successo collaborativo?

La chiarezza della missione. Tutti i coinvolti nel Living Heart Project credevano nella stessa cosa: migliorare le vite attraverso una scienza migliore. Questa visione condivisa si è rivelata più potente di qualsiasi agenda individuale. Abbiamo anche costruito fiducia attraverso la trasparenza: tutti avevano visibilità sulla scienza, i dati, il processo decisionale. E abbiamo mantenuto il rigore scientifico. Non era un esercizio di marketing, ma un lavoro massicciamente sottoposto a revisione tra pari e fondato clinicamente. Ancora più importante, abbiamo dato ai collaboratori una piattaforma dove il loro lavoro avrebbe avuto un impatto reale. Non solo citazioni o aiuto al prossimo paziente, ma cambiamenti veri delle regole, trasformazione dei rischi clinici e del processo decisionale o accelerazione delle approvazioni dei dispositivi. Questo senso di partecipazione significativa ha mantenuto l'ecosistema fiorente per oltre un decennio.

Una ricetta che si può copiare in altri campi?

Per replicare questo modello in altre aree della medicina, servono tre cose: scopo condiviso, riconoscimento condiviso e accesso condiviso all'impatto. Se questi elementi sono presenti, la collaborazione diventa non solo possibile, ma inevitabile.

 

In copertina: foto di Jesse Orrico, Unsplash