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La penicillina, l’insulina, i trattamenti per l’HIV, le tecniche per il trapianto d’organi e di protesi, la chemioterapia, i vaccini, anche quello per il Covid-19. E ancora, le cure per il diabete, le terapie per il Parkinson, gli impianti cardiovascolari, persino i farmaci per la depressione. Quasi tutti i grandi successi della ricerca biomedica, e oltre l’80% dei premi Nobel per la medicina assegnati da quando esiste il riconoscimento, hanno alle spalle una storia che non vogliamo sentire. Non certo il racconto epico delle intuizioni geniali, dello studio indefesso e dell’abnegazione degli scienziati. Ma la storia di un sacrificio più grande: quello di milioni, miliardi di animali morti (e soprattutto vissuti) nei laboratori di ricerca.
La sperimentazione sugli animali è uno dei più difficili dilemmi etici che accompagnano il progresso scientifico. Un male necessario, si è sempre detto; una sofferenza giustificata per raggiungere un beneficio più grande. Ma è ancora così?
Se negli anni Settanta e Ottanta la “liberazione animale” auspicata dal filosofo Peter Singer spingeva gruppi di attivisti a fare irruzione nei laboratori per aprire le gabbie di topi e scimmie, oggi le critiche e la richiesta di metodi alternativi arrivano in molti casi dagli stessi scienziati. E non solo per motivi etici. Nonostante la loro importanza storica, i “modelli animali” hanno fatto il loro tempo, sostengono i ricercatori più progressisti: oltre alla sofferenza inflitta, sono costosi e non sono abbastanza accurati nel fornire risultati attendibili anche per l’uomo. Mentre oggi esistono svariate tecnologie su cui puntare per mettere a punto metodi sostitutivi più efficienti e più affidabili. Come dice Arti Ahluwalia, ingegnera biomedica e fondatrice del Centro 3R dell’Università di Pisa, “abbiamo il dovere nei confronti della scienza – e degli animali, anche quelli non umani – di fare di meglio”.
Sacrificati per la scienza
Per cominciare a parlare di sperimentazione animale e sue alternative, il primo passo è farsi un’idea di quanto sia diffusa la pratica nel mondo. Cosa per niente semplice. La più recente e attendibile stima globale è quella fornita da Cruelty Free International nel 2015: i ricercatori della più importante ONG per l’abolizione dei test sugli animali hanno calcolato che, in un anno, vengono uccisi 192 milioni di esemplari di vertebrati per scopi di ricerca, con Cina, Giappone e Stati Uniti a guidare la classifica dei paesi che ne utilizzano di più. Per una stima aggiornata, ci dicono dall’ufficio comunicazione, si dovrà però aspettare il 2026.
Le stime per l’Unione Europea sono invece più accurate grazie al database ALURES (Animal Use Reporting EU System), aggiornato con i dati che i paesi membri hanno l’obbligo di fornire ogni cinque anni, come stabilito dalla Direttiva 2010/63 sugli animali utilizzati a fini scientifici. I dati più recenti, raccolti fra il 2021 e il 2022, indicano che nei laboratori europei vengono utilizzati ogni anno fra gli 8 e i 9 milioni di vertebrati: più della metà sono topi e ratti, ma ci sono anche conigli, cani, gatti, maiali, mucche e scimmie, oltre a polli, rettili, anfibi e pesci.
Sul sito dell’Eurogroup for Animals, l’organizzazione paneuropea per la protezione degli animali, si legge però un altro numero: 23 milioni. “Non si tratta di un errore", ci spiega Luisa Bastos, responsabile del programma Animals in Science dell’organizzazione. "Gli esemplari indicati nell’ALURES sono gli animali effettivamente utilizzati negli esperimenti, sia a scopo didattico, sia per la ricerca o per testare l'efficacia e la sicurezza delle sostanze chimiche. Oltre a questi, ci sono circa 1,2 milioni di animali necessari per la creazione e il mantenimento di linee geneticamente modificate, a cui si aggiungono tutti quelli allevati e uccisi senza essere usati in laboratorio: un numero che è solitamente pari o superiore a quello degli esemplari utilizzati."
Questo “surplus di animali” – come viene indicato con gelido termine tecnico – è dovuto a diverse ragioni: magari l’alterazione genetica ottenuta non è quella che serve per l’esperimento; oppure si sta conducendo una ricerca dove servono solo le femmine, e così i maschi vengono eliminati. “Sebbene alcuni stati membri adottino politiche per limitare il surplus, i numeri sono ancora molto alti", osserva Bastos. "Ad esempio durante la pandemia, quando la maggior parte dei laboratori ha dovuto sospendere le attività, moltissimi animali sono stati uccisi e non abbiamo tutt’oggi i dati su quanti fossero.”
Perché si sperimenta sugli animali
Oltre ai numeri, il database europeo contiene preziose informazioni sugli usi specifici degli animali in laboratorio, che a grandi linee rispecchiano la situazione globale. In parte (nel 13% dei casi) i test vengono eseguiti per scopi regolatori, sono cioè richiesti dalle autorità di controllo per verificare la sicurezza delle sostanze chimiche: e in questi casi, finché non cambiano i regolamenti, i ricercatori non hanno scelta. Ma la stragrande maggioranza degli animali (il 72%) viene ancora utilizzata per la ricerca di base, applicata e traslazionale, benché non ci sia nessuna legge che obblighi a farlo.
Perché, dunque, la sperimentazione animale è ancora considerata così necessaria? Lo abbiamo chiesto a Giuliano Grignaschi, portavoce di Research4Life, associazione che raccoglie numerosi enti di ricerca biomedica in Italia, e co-autore del saggio Io le patate le bollo vive. Ricerca, sperimentazione animale, vita (Einaudi, 2023). Grignaschi lavora come responsabile del benessere animale nei laboratori dell’Università di Milano, e fra i suoi compiti c’è anche quello di valutare con un comitato interno la validità dei progetti di ricerca che utilizzano animali, prima di inviarli al Ministero della salute.
“In base alla mia esperienza e ai progetti che leggo posso dire che la necessità dei test sugli animali è motivata dal fatto che non esistono ancora metodi alternativi per simulare un organismo completo in maniera soddisfacente, e quindi per studiare gli effetti sistemici di una sostanza o una terapia", ci spiega.
“È un ostacolo che molti scienziati ritengono insormontabile, ma che secondo me è soprattutto una barriera mentale”, ribatte la professoressa Ahluwalia. “Un essere umano non è un topo e nemmeno un maiale. Se osservo gli effetti sistemici in un topo, non è detto che poi questi siano traslabili all’uomo. E questo è il maggior limite del modello animale, che è per l’appunto solo un ‘modello’ in condizioni molto controllate."
Ahluwalia dà voce a una posizione che sta prendendo sempre più piede fra scienziati di varie discipline. Come Azra Raza, luminare di oncologia della Columbia University, che intervistata dal Guardian qualche anno fa esprimeva tutto il proprio scetticismo sull’approccio animale: “Non si può iniettare artificialmente un tumore in un topo sano, poi trattarlo con un farmaco, vedere che scompare e aspettarsi che lo stesso accada in un essere umano menomato e immunodepresso. Questo tipo di estrapolazione ci ha deluso troppe volte, non solo nel caso del cancro."
“La verità è che la sperimentazione animale ha radici profonde nella cultura e nella pratica scientifica", osserva Luisa Bastos. "A partire dal sistema educativo, dove è obbligatorio avere una formazione sull'uso degli animali. Tanto che diventa difficilissimo per uno studente o un dottorando condurre una ricerca human-oriented, utilizzando cioè tessuti umani donati dagli ospedali. I colleghi che invece utilizzano gli animali risparmiano tempo e pubblicano molto di più."
Insomma, andrebbe ripensato dalle basi l’intero “sistema scienza”, che, come ogni mastodontica istituzione umana, tende a muoversi per inerzia sempre sugli stessi binari. “Avremmo bisogno di un sistema che scoraggi gradualmente l'uso degli animali e in cui gli studenti possano trovare insegnanti e supervisori che li aiutino a utilizzare le nuove tecnologie disponibili", conclude Bastos.
Nuove strade
In un video su Youtube, un ricercatore nella luce immacolata di un laboratorio maneggia un piccolo chip polimerico trasparente e flessibile. Non è una chiavetta USB, ma un polmone, o forse un fegato, o un cuore. Un Organ-on-Chip (OoC), insomma: il futuro, o meglio uno dei futuri possibili della sperimentazione biomedica.
Gli OoC sono “dispositivi di coltura microfluidica che ricapitolano le complesse strutture e funzioni degli organi umani viventi”, si legge sul sito del Wyss Institute di Harvard fondato da Donald Ingber, uno dei pionieri di questa tecnologia. In pratica, si tratta di sezioni trasversali tridimensionali viventi, che offrono una finestra sul funzionamento interno degli organi umani e sugli effetti dei farmaci su di essi, senza coinvolgere persone o animali. E non è finita: i modelli si possono anche collegare fra di loro, per studiare le eventuali interazioni fra organi diversi, fino ad arrivare, in futuro, a simulare un intero “organismo su chip”.
Gli OoC sono solo uno dei cosiddetti NAM, o New Approach Methodologies: metodi innovativi – alcuni già in uso, altri ancora in fase di sviluppo – che non richiedono l’utilizzo di modelli animali. “Ce ne sono svariate categorie", spiega la professoressa Ahluwalia. "Si va dall’utilizzo dell’intelligenza artificiale e dei big data alla modellazione informatica, da sistemi di microfluidica ai modelli organoidi sviluppati a partire da cellule staminali, dall’imaging non invasivo sull’essere umano fino a metodi di microdosaggio. Sono tutti sistemi in cui non è necessario passare attraverso una specie diversa per ottenere risultati applicabili all’uomo. Quindi, tendenzialmente, sono più accurati e vanno nella direzione di una medicina di precisione, anche se c’è ancora parecchio lavoro da fare. La via da seguire è, secondo me, quella dell’integrazione dei vari NAM: ad esempio, abbinare analisi predittive su big data a modelli organoidi connessi fra loro con sistemi fluidici. L’integrazione è la strada più promettente, e ho fiducia nel fatto che questi metodi possano un giorno sostituire completamente l’uso di modelli animali per la ricerca sull’uomo.”
Questione di regole
Perché i nuovi metodi possano davvero, un giorno, soppiantare la sperimentazione animale, è però necessario che tutta la comunità scientifica li adotti, o almeno cominci a considerarli come valide alternative. E non è tanto una questione di buona volontà, quanto di regolamenti e, come si diceva prima, di “sistema”. Secondo Giuliano Grignaschi, per ragioni sia etiche che di costi ed efficienza, nessuno scienziato rifiuterebbe di utilizzare un metodo alternativo ai test sugli animali, a patto che sia riconosciuto e validato a livello scientifico.
Ma la faccenda, ci spiega Luisa Bastos, è un po’ più complessa. “Partiamo innanzitutto dalla Direttiva 2010/63, il quadro di riferimento per la protezione degli animali usati a fini scientifici in Europa. La direttiva contiene indicazioni per il benessere degli animali da laboratorio, come standard sulle gabbie e specifiche sulle modalità con cui possono essere uccisi. C’è poi un aspetto molto importante che riguarda la valutazione dei progetti.” In pratica, se un ricercatore desidera utilizzare animali per un progetto di ricerca, deve presentare una richiesta all’autorità competente per il suo paese (in Italia, ci dice ad esempio Grignaschi, si passa dal Ministero della salute e poi dall’Istituto superiore di sanità).
“Ma guardando alle statistiche che provengono dagli stati ogni cinque anni si vede come in realtà quasi tutti i progetti vengano accettati", continua Bastos. "I pochi respinti sono rigettati per aspetti procedurali e solo pochissimi perché vengono riconosciute alternative alla sperimentazione animale. Il problema è che spesso nelle commissioni di valutazione mancano le competenze sui NAM. Ogni stato membro organizza queste commissioni secondo i propri criteri: alcuni hanno un unico organo nazionale, altri, come Spagna e Germania, ne hanno decine. E questo porta anche a un problema di armonizzazione degli standard di valutazione.”
Ma oltre alla Direttiva, che risale ormai a quindici anni fa e non è particolarmente avanguardistica, ci sono sui tavoli europei altre iniziative più innovative. Come la collaborazione tra gli stati membri nell’ambito della European Research Area, un forum che stabilisce le priorità dell'UE in materia di ricerca (e quindi dove vanno i finanziamenti), e che ora sta cercando di promuovere approcci alternativi a quello animale. E soprattutto il lancio, nel luglio 2023, della roadmap della Commissione UE per il phase out graduale dalla sperimentazione animale: un passo storico, arrivato a dieci anni esatti dal divieto imposto sulla commercializzazione in Europa di cosmetici che utilizzano test sugli animali.
“È partito tutto da lì", commenta Bastos. "Quel divieto del 2013 è stato come un innesco nella comunità scientifica e nell'industria per iniziare a sviluppare tecnologie alternative. Ora la roadmap è in fase di sviluppo, ma penso che possa offrire una prospettiva molto promettente per l'eliminazione dell’uso di animali nella scienza in generale.”
E in effetti, come già era successo per il divieto sui cosmetici, la roadmap europea ha fatto da apripista: il 10 aprile 2025 è infatti arrivato l’annuncio da parte della Food and Drug Administration statunitense (FDA) di una propria roadmap per eliminare la sperimentazione animale nello sviluppo di terapie con anticorpi monoclonali e altri farmaci. Si tratta di un passo avanti forse ancora più clamoroso di quello europeo, visto che proviene dal maggiore mercato farmaceutico del mondo.
Principio delle 3R, coscienza e sofferenza
Nella nota stampa della FDA, il Commissario Martin Makary si rallegra del fatto che, grazie alle nuove metodologie, si potranno “fornire ai pazienti trattamenti più sicuri in modo più rapido e affidabile, riducendo al contempo i costi di ricerca e sviluppo e i prezzi dei farmaci”. “È una vittoria per la salute pubblica e l'etica", chiosa alla fine.
L’etica arriva in coda, e non sorprende: nel mondo reale, l’utilità, l’efficienza e la convenienza sono principi superiori, e se oggi finalmente si intravede una concreta possibilità di superare la sperimentazione animale, è solo perché stanno arrivando metodi più validi sotto questi aspetti.
Eppure, è sempre dall’etica che si dovrebbe partire. Così come è da lì che ha avuto origine il principio delle 3R, a cui si rifa la maggior parte delle legislazioni in materia di sperimentazione animale, compresa la Direttiva UE. Replace, Reduce, Refine sono le tre regole auree elaborate dagli inglesi William Russell e Rex Burch nel 1959 per introdurre un po’ di “umanità” nel trattamento degli animali nei laboratori (regole che, comunque, si potrebbero benissimo estendere anche ad altri settori che sfruttano gli animali). L’obiettivo principe delle 3R sarebbe quello di evitare completamente gli esperimenti sugli animali (sostituzione), ma quando questo non è possibile bisogna cercare di ridurre al minimo il numero di esemplari utilizzati (riduzione) e minimizzare il più possibile la loro sofferenza negli esperimenti (raffinamento).
Sebbene il principio di Russell e Burch abbia i suoi limiti (ad esempio si parla di animali vivi, il che implica che uccidendoli si esauriscano le preoccupazioni etiche), si basa su un’idea considerata piuttosto moderna e che ha avuto solo l’anno scorso una sua “ufficializzazione” da parte della comunità scientifica: la coscienza animale. Con la Dichiarazione di New York, firmata nel 2024 da centinaia di scienziati, inclusi neurobiologi, etologi e filosofi, si chiede in pratica a tutta la comunità scientifica di non ignorare l’esperienza soggettiva di ogni animale nelle decisioni che lo riguardano, visto che ormai ci sono solide prove scientifiche a supporto dell’attribuzione di una coscienza ai vertebrati, e probabilmente anche agli invertebrati.
Prove di cui, oltre due secoli fa, non ebbe però bisogno il filosofo Jeremy Bentham quando, in un testo del 1789 considerato la base dell’etica animale moderna, scrisse: “La domanda da porre non è Possono ragionare?, né Possono parlare?, ma Possono soffrire?”.
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In copertina: Cruelty Free International Carlota Saorsa