Tra la notte di giovedì 12 e venerdì 13 giugno Israele ha lanciato un massiccio attacco missilistico contro l’Iran. Con l’obiettivo di “rimuovere la minaccia nucleare e quella dei missili balistici iraniani” dichiarato dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu, i bombardamenti hanno colpito il cuore della struttura militare e nucleare di Teheran, uccidendo circa 78 persone, tra cui diversi leader della catena di comando militare iraniana e scienziati che stavano lavorando al programma di ricerca nucleare.

Tel Aviv ha preso di mira anche importanti infrastrutture oil & gas iraniane, fermando e rallentando la produzione di uno dei paesi più ricchi di idrocarburi al mondo, oltre a centri abitati, soprattutto nel nord ovest, e alcuni quartieri residenziali di Teheran, causando finora almeno 224 vittime.

Venerdì sera, 13 giugno, la risposta della Repubblica islamica non si è fatta attendere: delle centinaia di missili balistici diretti verso lo stato ebraico molti sono stati intercettati dalla contraerea israeliana. I pochi che hanno fatto breccia nel sistema difensivo hanno colpito centri militari, industriali e residenziali, tra cui le città di Bat Yam, Tamra e Tel Aviv. Finora le vittime israeliane sono 24, tutte civili. Anche a Gerusalemme sono state avvertite delle esplosioni.

Gli attacchi israeliani ai siti nucleari iraniani

L'Iran continua a sostenere che il proprio programma nucleare sia destinato esclusivamente a fini civili ed energetici, una posizione recentemente avvalorata anche da fonti dell'intelligence statunitense.

Tuttavia, Israele considera da tempo la Repubblica islamica una minaccia strategica da neutralizzare, nonostante il fatto, ampiamente riconosciuto a livello internazionale, che la stessa Tel Aviv possieda un arsenale nucleare non dichiarato. Non è un caso quindi che i massicci bombardamenti ordinati da Benjamin Netanyahu abbiano colpito proprio tre impianti nucleari iraniani: Natanz, Isfahan e Fordow.

L’Iran è l’unico paese privo di armi nucleari ad arricchire uranio a livelli che l’Agenzia internazionale per l’energia atomica (AIEA) considera preoccupanti. L’arricchimento è un processo di raffinazione che aumenta la percentuale dell’isotopo fissile uranio-235 presente nel combustibile nucleare. Mentre i reattori civili utilizzano uranio a basso arricchimento (tra il 3% e il 5%), impianti come quello di Natanz − danneggiato già in passato da attacchi missilistici di Israele − producono uranio arricchito fino al 60%, una soglia molto vicina a quella necessaria per la costruzione di armi nucleari.

Da quanto emerge dalle immagini satellitari mostrate dalla CNN, anche i siti di Isfahan e Fordow sono stati danneggiati limitatamente. A Isfahan, il più grande complesso di ricerca iraniano, ha preso fuoco solamente un capannone, mentre il sito di arricchimento fortificato di Fordow ha subìto danni limitati ed è considerato espugnabile solo da testate bunker-buster.

"L'intera catena di approvvigionamento nucleare è stata interrotta", ha dichiarato domenica alla CNN Ali Vaez, direttore del progetto Iran dell'International Crisis Group, un’organizzazione di consulenza indipendente che lavora per prevenire lo scoppio di conflitti. Vaez ha commentato che tutti gli impianti colpiti sono coinvolti nella complessa sequenza di fasi necessarie a creare un’arma nucleare, ma attacchi aerei di questo tipo non risolveranno il problema.

L’Iran sta davvero lavorando a delle armi nucleari?

L'Iran ha dedicato decenni allo sviluppo del suo programma nucleare e lo considera fonte di orgoglio nazionale e sovranità. Il governo precisa che il programma è destinato esclusivamente a scopi energetici pacifici e prevede la costruzione di ulteriori centrali nucleari per soddisfare il fabbisogno energetico interno e destinare le proprie riserve petrolifere all’esportazione.

Tuttavia nessun altro paese possiede il tipo di uranio altamente arricchito che ha attualmente l'Iran senza avere a sua volta un programma di armi nucleari. Questo ha alimentato i sospetti che Teheran non sia completamente trasparente riguardo alle proprie intenzioni.

Oltre Netanyahu anche il presidente degli Stati Uniti Donald Trump è convinto che l’Iran sia molto vicino alla costruzione di armi nucleari, nonostante la stessa intelligence USA abbia smentito questa teoria.

Lo scorso marzo infatti la direttrice dell'intelligence Tulsi Gabbard ha dichiarato al Senato di continuare a ritenere che l'Iran non stia costruendo un'arma nucleare e che la Guida Suprema Khamenei non abbia più autorizzato il programma di armi nucleari che aveva sospeso nel 2003.

Dal programma nucleare però l’Iran ricava anche energia elettrica. Nel 2023 la centrale nucleare di Bushehr ha prodotto circa l'1,7% della produzione elettrica nazionale totale, con l’obiettivo di aumentare la capacità totale ai 20 gigawatt nei prossimi decenni.

La guerra tra Iran e Israele e le preoccupazioni per lo stretto di Hormuz

Appena dopo l’ondata di attacchi di Israele contro Teheran di venerdì, i prezzi del petrolio greggio Brent sono aumentati del 7%, superando i 74 dollari al barile. Dallo scoppio del conflitto alcuni impianti energetici sono stati colpiti in entrambi i paesi, causando significative interruzioni della produzione.

Sabato 15 giugno, i missili israeliani hanno danneggiato una raffineria e il deposito di carburante di Shahran, alla periferia di Teheran. Il governo iraniano ha inoltre dovuto sospendere parzialmente la produzione del più grande giacimento di gas del mondo, il South Pars, dopo che un bombardamento israeliano ha causato un incendio. Si stima che il giacimento di gas offshore contenga 35 migliaia di miliardi di metri cubi di gas recuperabile, pari a circa il 20% delle riserve globali conosciute.

Secondo l’Energy Information Administration del governo degli Stati Uniti, l’Iran detiene la seconda riserva di gas naturale più grande al mondo e la terza di petrolio greggio. Un rapporto della IEA suggerisce che l'Iran dalle esportazioni di petrolio ha registrato profitti per 144 miliardi di dollari nel triennio 2021-2023.

I mercati energetici rimangono estremamente volatili e influenzati dagli sviluppi del conflitto. Oltre un notevole impatto sulla produzione e sulle esportazioni energetiche, soprattutto iraniane, i trader di commodity temono ripercussioni sullo stretto di Hormuz, crocevia essenziale per il commercio del petrolio attraverso il quale passano tra i 18 e i 19 milioni di barili al giorno di greggio e carburanti, quasi un quinto del consumo mondiale. Lo scorso anno attraverso lo stretto sono stati trasportati anche 85 milioni di tonnellate di gas naturale liquefatto provenienti dal Qatar e dagli Emirati Arabi Uniti, pari a circa il 20% della domanda globale.

La chiusura dello stretto avrebbe ripercussioni negative sulla sicurezza energetica di diversi paesi, tra cui l’Italia, che importa greggio da Kuwait, Qatar, Bahrain, Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti.

Un comandante della Guardia Rivoluzionaria iraniana ha dichiarato ai media locali in un'intervista che l’ipotesi è stata presa in considerazione. Tuttavia, secondo diversi esperti intervistati dalla CNBC, la mossa non gioverebbe a Teheran. Qualsiasi forte impennata nei prezzi del petrolio causata da una chiusura potrebbe scatenare la reazione del più grande cliente di petrolio dell'Iran: Pechino.

"La Cina non vuole che il flusso di petrolio dal Golfo Persico venga interrotto in alcun modo, e non vuole che il prezzo del petrolio aumenti. Quindi, farebbe pesare tutto il suo potere economico sull'Iran", ha detto Ellen Wald, presidente di Transversal Consulting.

Anas Alhajji, managing partner di Energy Outlook Advisors, ha fatto notare che sarebbe anche fisicamente complesso chiuderlo al transito: “La prima ragione è che si tratta di un canale largo dai 55 ai 95 chilometri. Inoltre una parte del tratto è di competenza dell’Oman”.

 

In copertina: foto di repertorio di Mohammed Ibrahim, Unsplash