
A settembre l’Etiopia ha inaugurato la Grand Ethiopian Renaissance Dam (GERD), celebrandola come una “vittoria generazionale”. Davanti alle acque che scendono dalla diga, il primo ministro Abiy Ahmed ha dichiarato conclusa l’era della dipendenza energetica del paese. In qualità di più grande progetto idroelettrico del continente africano, la GERD è un’impresa ingegneristica monumentale. Il suo bacino contiene 74 miliardi di metri cubi d’acqua e le sue turbine sono progettate per produrre oltre 5.000 megawatt di elettricità, una potenza paragonabile a cinque centrali nucleari.
Tuttavia, l’atmosfera celebrativa è stata segnata dall’assenza evidente dei rappresentanti di Sudan ed Egitto. Per questi paesi a valle, la diga modifica in modo radicale l’accesso alle acque vitali del Nilo. Oltre al suo significato materiale, l’inaugurazione della GERD rappresenta anche un momento di resa dei conti per il diritto internazionale delle acque. La diga costituisce una sfida diretta – e per alcuni un’evidente violazione – ai tre princìpi fondamentali che da decenni regolano i fiumi condivisi del mondo: uso equo, assenza di danno significativo e obbligo di notifica preventiva.
Questi tre princìpi costituiscono l’ossatura della Convenzione ONU del 1997 sui corsi d’acqua internazionali, che ha codificato il moderno diritto internazionale delle acque. Essi furono formulati per sostituire l’arcaica dottrina Harmon, un principio di sovranità territoriale assoluta che consentiva a uno stato di utilizzare qualsiasi acqua scorresse entro i suoi confini, indipendentemente dall’impatto sui paesi a valle. Sebbene sia stata a lungo respinta come giuridicamente e moralmente insostenibile, la dottrina Harmon sembra riemergere silenziosamente nella pratica.
Si consideri innanzitutto il principio dell’uso equo e ragionevole, che impone agli stati rivieraschi di condividere in modo equo le acque transfrontaliere. La GERD è stata costruita senza una consultazione sostanziale su cosa significasse equità per le nazioni del Nilo. L’Etiopia è andata avanti unilateralmente con la costruzione e ora la diga controlla fisicamente il flusso del fiume. Questo crea un fait accompli, cioè un fatto compiuto che rende il principio di equità quasi privo di significato, poiché i paesi confinanti non possono negoziare retroattivamente l'equità di infrastrutture già costruite.
L’obbligo di notifica preventiva − informare gli altri stati rivieraschi dei progetti pianificati con un anticipo sufficiente a discuterne − è stato tecnicamente osservato, ma di fatto svuotato. L’Etiopia ha notificato l’Egitto e il Sudan, ma la costruzione è iniziata nel 2011, mentre l’Egitto era destabilizzato dalla Primavera araba, e il progetto è avanzato nonostante le obiezioni del Cairo. Le notifiche sono arrivate quando la diga era già in costruzione, non prima delle decisioni cruciali. L’obbligo di notifica è stato ridotto a un gesto formale, più che a un meccanismo di reale deliberazione collettiva, una procedura pensata per influenzare gli esiti ma che, in questo caso, è risultata incapace di farlo.
È soprattutto il principio di assenza di danno significativo a risultare messo alla prova. La GERD attribuisce all’Etiopia il controllo fisico del Nilo, creando il potenziale per danni profondi qualora tale potere fosse esercitato unilateralmente. L’intera economia politica dell’Egitto dipende dal fiume: agricoltura, approvvigionamento idrico e industria si basano su flussi prevedibili che oggi l’Etiopia può modulare. Il principio di assenza di danno significativo presume tradizionalmente che i danni siano accidentali o effetti collaterali non intenzionali di uno sviluppo legittimo. La GERD è diversa: è stata costruita esplicitamente per controllare l’acqua, e la possibilità di arrecare danni deliberati, strategicamente calibrati, ora esiste in assenza di un accordo vincolante che disciplini l’uso di tale controllo. In questo contesto, il problema non è solo il rischio di danno, ma il fatto che il principio stesso abbia perso significato pratico.
In definitiva, che la diga porti benefici all’Etiopia non è il punto centrale. Ciò che conta è che l’Etiopia abbia deciso unilateralmente di costruire la più grande diga d’Africa e sia riuscita a farlo nonostante la persistente opposizione dei paesi vicini. Questa scelta rivela una realtà cruda nella politica delle acque transfrontaliere: il diritto internazionale funziona solo quando e dove gli stati scelgono di rispettarlo. In assenza di meccanismi di applicazione robusti − e in presenza di profonde asimmetrie di potere − la legge migra dal centro al margine dei processi decisionali, invocata nei discorsi ma raramente determinante nella pratica.
Non si faccia errore: questo fenomeno non è confinato all’Africa orientale. In tutto il mondo si osservano situazioni simili: l’India limita il flusso del fiume Teesta, la Turchia controlla Tigri ed Eufrate, e il Laos ha costruito la diga di Xayaburi nonostante le obiezioni dei paesi a valle. Questi casi non rappresentano un fallimento del diritto internazionale, ma piuttosto una chiara dimostrazione della sua crescente irrilevanza come vincolo agli stati determinati a usare l’acqua per perseguire obiettivi nazionali.
In copertina: Prime Minister Office Ethiopia, Public domain, via Wikimedia Commons
