Nel contesto della transizione che il pianeta sta affrontando, clima e natura sono due fattori così profondamente interconnessi da rappresentare di fatto una dimensione univoca per quanto riguarda strategie di mitigazione, adattamento ed investimenti finanziari. Come affrontare le complesse sfide che ne derivano? Se ne è discusso in occasione della tavola rotonda Business Roundtable for Climate & Nature, organizzata martedì 25 novembre da SDA Bocconi School of Management.

Un confronto tra diversi punti di vista, per dare il via a un percorso di studio e di approfondimento, di durata almeno triennale, che vedrà il coinvolgimento di aziende, investitori e istituzioni, come ha spiegato il responsabile Stefano Pogutz, Professor of Practice and Director of the Full Time MBA, SDA Bocconi: “Sarà uno spazio condiviso in cui parlare, confrontarsi, cercare punti di incontro. Osserveremo le dinamiche di un mercato in continua trasformazione, valorizzeremo le best practice, riscriveremo insieme le regole del gioco, anche grazie al supporto dei quattro laboratori di SDA Bocconi, dedicati rispettivamente a sostenibilità, natura, agrilab e sustainable operations supply chain”.

Aiutare le aziende a ridurre la complessità

Un lavoro di ricerca che nasce dall’osservazione delle tendenze di attualità, in primis quella del negazionismo: “Se inizialmente a essere negata è stata l’esistenza stessa del climate change, insieme al nesso di causalità con l’azione dell’uomo, negli ultimi anni si contestano invece precisi aspetti del cambiamento in corso, per esempio l’urgenza di intervenire per contrastarlo, diffondendo quindi l’idea che sia possibile posticipare gli sforzi, oppure si cerca di distogliere l’attenzione dalle importanti tematiche connesse, di natura sociale ed economica, oltre che ambientale”, ha aggiunto Pogutz.

In questo scenario le imprese si muovono in modo diverso, a seconda della propria vocazione e della propensione agli investimenti. “Possiamo individuare quattro distinte tipologie di player: accanto alle aziende attiviste convinte, ci sono quelle che investono, ma in modo più soft. Poi ci sono le realtà che hanno fatto retromarcia e quelle che invece restano ferme, in attesa di una regolamentazione più definita. A questo proposito, però, va detto che le leggi per loro natura sono destinate a mutare, adeguandosi ai tempi che cambiano, e non ci sarà mai un momento giusto per cominciare ad agire. Bisogna quindi aiutare le aziende a ridurre la complessità e a razionalizzare le scelte: in questo la ricerca scientifica gioca un ruolo importante ed è essenziale la collaborazione tra università, istituzioni, imprese e finanza.”

Contabilità e mercati del carbonio: scenari

“Quando si parla di cambiamento climatico, sono diversi i fattori in gioco, ma principalmente si fa riferimento alle emissioni di CO₂”, ha sottolineato Renato Orsato, Professor of Practice in Sustainability, SDA Bocconi. Come noto, nel linguaggio tecnico legato al GHG Protocol, ci sono tre ambiti, o scope, di classificazione delle emissioni: dirette (1), indirette da energia (2) e indirette legate alla filiera (3). “Il dibattito sulle strategie di riduzione delle emissioni è molto articolato, dalla decarbonizzazione alla rigenerazione, dall’offsetting all’insetting, così come quello sulle metodologie di carbon accounting.”

A questo proposito, durante la COP30 di Belém l’Organizzazione Internazionale per la Standardizzazione (ISO) e il Protocollo sui Gas Serra (Protocollo GHG), che avevano annunciato a settembre una partnership strategica per lo sviluppo di standard globali unificati per la contabilizzazione delle emissioni di gas serra, hanno presentando un piano congiunto, collegato al più ampio programma di azione per il clima. Una collaborazione che segna un passo significativo verso la creazione di quadri di rendicontazione delle emissioni coerenti e di alta qualità in tutti i settori e le aree geografiche.

“Al centro dell’attenzione mondiale ci sono in particolare le emissioni di scope 3, le più difficili da ridurre e allo stesso tempo le più importanti, perché sono quelle più utili per responsabilizzare le aziende e la società”, ha aggiunto Orsato.

Rigenerare la natura è rigenerare l’economia

Perché le imprese dovrebbe occuparsi anche di natura? “Oltre il 50% del PIL globale è esposto a rischi legati al degrado della natura. Rigenerarla significa anche rigenerare l'economia, e le aziende possono svolgere un ruolo chiave in questo sforzo”, ha risposto Sylvie Goulard, Professor of Practice in Global Affairs (Sustainability, Green Finance and Geopolitics) di SDA Bocconi, che ha anche condotto lo studio Regenerating nature means regenerating the economy, in collaborazione con 2050Now. Attorno a questa iniziativa francese, che mira a sostenere persone e aziende nella transizione ecologica, sono riunite alcune realtà “pioniere”, che stanno sperimentando il business in nature: “Con la crescente scarsità delle risorse naturali e la frequenza delle crisi climatiche, è nel loro interesse proteggere le proprie catene del valore, riducendo i rischi finanziari e garantendo la continuità. Allo stesso tempo, possono contribuire alla soluzione dei problemi stessi”.

Ad esempio, Lvmh promuove pratiche di agricoltura rigenerativa nelle sue catene di approvvigionamento strategiche, Engie e Veolia stanno sviluppando soluzioni per la depurazione, il trattamento delle acque e la riduzione del consumo di energia fossile, Sncf Voyageurs sta adottando strategie di efficienza energetica e piani per ridurre il consumo di acqua. Dagli anni Ottanta, invece, L’Occitane ha avviato in Burkina Faso il programma Resist per la produzione del burro di karité: una partnership duratura e sostenibile con le donne di questo Paese, che favorisce l’autonomia finanziaria, oltre alla protezione degli alberi e all’accesso a zone biologiche per la raccolta di noci.

“C’è poi l’articolato tema dei biodiversity credit, che si differenziano dai carbon credit, perché si basano su unità di misura differenti, ma anche perché la natura delle compensazioni richiede in questo caso un approccio molto locale, legato agli specifici territori”, ha evidenziato Sylvie Goulard.

Il futuro del mercato dei crediti di carbonio

Nato dopo il 2015, il mercato dei carbon credit ha raggiunto uno stadio più evoluto e avanzato, pur trovandosi attualmente in una fase di stasi, dopo il successo degli anni 2019-2021. Quali trend lo caratterizzano?

“Innanzitutto, c’è una convergenza tra mercato volontario e compliance, determinata dall’allineamento generale sugli obiettivi dell’Accordo di Parigi”, ha fatto notare Elisa Riva, manager di Gold Standard. “In secondo luogo, c’è un vivace dibattito sulle diverse soluzioni possibili, dalle tecnologie di engineering removal alle nature based solution. Non esiste una strada univoca, la scelta dipende da esigenze, strategie e tempistiche dell’azienda: l’importante è sviluppare qualcosa che abbia un impatto duraturo.”

Terzo, l’esigenza di una maggiore integrità, trasparenza e sicurezza, su cui ha concordato Andrea Maggiani, founder di Carbosink ed esperto di tecnologia climatica: “Attualmente ci sono molti timori ad assumersi la responsabilità di rilasciare i crediti di carbonio, per paura degli errori che sono stati commessi in passato. Oggi i carbon credit sono ancora un asset di valore, ma sul mercato ne esistono anche tanti non più utilizzabili”.

Un problema che va gestito, anche in ottica futura: “Le tecnologie e le metodologie che dieci anni fa andavano bene, e che determinavano un rating alto, sono cambiate, come è normale che sia nel corso di un’evoluzione. Ma questo non vuol dire che un credito nuovo, rilasciato oggi, sia integro di default e uno vecchio sia invece automaticamente non integro”.

In particolare, è molto discussa la distinzione tra i crediti di carbonio da “avoidance” [o “evitamento”, ovvero mancata emissione, ndr], che sono quelli storici, su cui si basa il 90% del mercato legacy, e i crediti di carbonio da “removal” [o “rimozione”, generati quando la CO₂ viene effettivamente rimossa dall’atmosfera e stoccata per un periodo misurabile, ndr]. “Bisogna riflettere bene su questi aspetti e cercare una soluzione anche in ottica futura, altrimenti si rischia di nuovo che quello che va bene oggi tra dieci anni possa non andarlo più.”

Fondamentale è pure la comunicazione. Dopo i timori legati al pericolo del greenwashing, oggi si sta diffondendo il greenlashing, un neologismo contrazione di green backlashing, che descrive una tendenza cavalcata dai populismi al di là e al di qua dell’Atlantico: il fastidio, o addirittura il rigetto delle politiche ambientali e delle strategie di sostenibilità, spesso percepite dalle aziende come onerose e dall’opinione pubblica come poco attente ai risvolti sociali.

Rischi climatici e adattamento

Infine, il tema del rischio, anche e soprattutto guardando al medio-lungo periodo. Di fronte a rischi climatici sempre più gravi e frequenti, avere un piano di adattamento ecologico per le aziende è fondamentale, altrimenti viene meno l’assicurabilità, e con essa l’attività economica.

“Ma c’è anche un altro punto importante, che riguarda la salute: l’aumento delle temperature globali avrà un impatto devastante su mortalità e morbilità nel corso dei prossimi decenni, con pesanti ripercussioni sui sistemi sanitari mondiali, già ora sovraccarichi”, ha spiegato Gerardo Di Filippo, Head of Group Risk Management Process and Operations di Generali, sulla base dei risultati dello studio Strengthening health and human dvelopment in a changing climate.

A essere colpita sarà soprattutto l’Asia, dove al 2050 ci saranno oltre 15.500 malati in più e un aumento del 50% delle ospedalizzazioni, secondo lo scenario peggiore tra quelli simulati. “Il modello ospedaliero va ripensato, affidandosi alle partnership pubblico privato e sfruttando tutte le possibilità offerte dalle nuove tecnologie, come telemedicina, diagnostica AI e data system digitalization.”

Appuntamento a marzo 2026

Su questo mosaico di tematiche e di attività lavoreranno nei prossimi anni i protagonisti della Business Roundtable for Climate and Nature, attraverso analisi, ricerche e report. “L’obiettivo è fare cross-fertilization tra filiere industriali diverse, ma anche lobbying nel senso più positivo del termine, ovvero creare un’arena di dibattito, in cui coinvolgere anche policymakers e istituzioni”, ha concluso Stefano Pogutz. “Nei prossimi mesi raccoglieremo le adesioni delle imprese interessate e poi ci daremo di nuovo appuntamento a marzo 2026 per dare il via alle attività di monitoraggio e per il primo incontro ufficiale tra i diversi partner coinvolti.”

 

In copertina: foto dell'evento