Dalla produzione ai set, fino alla distribuzione: la sostenibilità nel cinema non è più un tema di nicchia ma una trasformazione strutturale. In prima linea in questo cambiamento c’è Ludovica Chiarini, giovane fondatrice e CEO di EcoMuvi, realtà che dal 2013 lavora per rendere il settore audiovisivo più sostenibile, etico e trasparente.

Oggi, grazie a lei e al suo team, l’Italia è l’unico paese al mondo con uno standard di certificazione per la sostenibilità audiovisiva accreditato da Accredia, l’ente nazionale che riconosce le norme tecniche a valore legale. Un traguardo che segna un salto di qualità non solo per l’industria cinematografica, ma per l’intera filiera creativa.

Dopo anni in cui la sostenibilità sul set era spesso un’etichetta volontaria o un “nice to have”, oggi le produzioni si trovano di fronte a un quadro normativo più chiaro, strumenti certificati e una cultura che evolve. E dietro questa evoluzione c’è anche la visione sistemica di Ludovica Chiarini, che guarda al cinema come a un ecosistema produttivo e culturale complesso, dove ogni scelta − dal catering al contratto di coproduzione − ha un impatto. Materia Rinnovabile l’ha intervistata.

 

Negli ultimi anni il settore audiovisivo ha fatto un grande salto verso la sostenibilità. Che cosa è cambiato concretamente con EcoMuvi?

Il grande cambiamento è arrivato con l’accreditamento di Accredia: dal 2023 lo standard EcoMuvi è riconosciuto ufficialmente come sistema di certificazione per la sostenibilità dei progetti audiovisivi. Oggi EcoMuvi è uno standard tecnico accreditato, revisionato e approvato da un team di esperti ambientali e di certificazione. Questo significa che i certificati rilasciati hanno valore giuridico e vengono riconosciuti automaticamente anche negli altri paesi europei che non dispongono di un proprio standard nazionale.

Quali sono i criteri fondamentali che una produzione deve rispettare per ottenere la certificazione EcoMuvi?

Accredia ha introdotto quattro criteri “bloccanti”, senza i quali non è possibile ottenere la certificazione, indipendentemente dal punteggio complessivo. Si tratta della corretta gestione e del ricollocamento degli animali impiegati nelle produzioni, del rispetto e della tutela della biodiversità nei luoghi di ripresa, della raccolta differenziata adeguata e ben gestita in tutti gli spazi di lavoro, e della gestione certificata dei rifiuti ingombranti o speciali, in particolare quelli provenienti dalle scenografie. A questi si aggiungono decine di indicatori qualitativi e quantitativi, aggiornati nel 2025, che vanno dalla pianificazione strategica ed etica del budget fino all’animazione e alla post-produzione. In tutto oggi EcoMuvi monitora oltre 150 indicatori.

Che cosa significa questo aggiornamento per le produzioni e per le istituzioni?

Per le istituzioni è un salto di trasparenza: un certificato EcoMuvi ha valore legale e interministeriale, riconosciuto anche all’estero. Per le produzioni, invece, significa avere un sistema più preciso ma anche più flessibile e aderente alla realtà del lavoro sul set. Lo standard è pensato per valorizzare le buone pratiche anche quando non si riesce ad applicare un criterio in modo perfetto, purché si dimostri il processo e la motivazione. Questo lo rende adatto sia a grandi film da 20 milioni di euro sia a documentari da 20.000.

Quante produzioni avete seguito finora?

Negli ultimi tre anni abbiamo lavorato su oltre cento progetti, tra lungometraggi, corti, documentari e animazione. Le dimensioni, come detto, variano moltissimo. Ogni volta il percorso si adatta: non c’è una checklist uguale per tutti, ma una metodologia che permette di leggere la sostenibilità come parte integrante del processo creativo.

Perché una produzione sceglie EcoMuvi?

Molte lo fanno perché i fondi pubblici o privati lo richiedono, ad esempio i bandi del Ministero della cultura, le Film commission regionali o le policy degli streamer come Netflix o Amazon. Avere la certificazione significa avere dei crediti in più previsti dai bandi, ad esempio, e in graduatoria ogni punto in più conta. Ma le produzioni che ci scelgono lo fanno soprattutto perché con noi la sostenibilità diventa operativa, non solo dichiarata. Noi non siamo una società di consulenza, che arriva a set iniziato, dà consigli e se ne va: facciamo accadere le cose. Ci occupiamo della burocrazia, della logistica, della rendicontazione, degli audit sul set. Ormai veniamo coinvolti in uno stadio davvero iniziale della produzione, già dai sopralluoghi tecnici, insieme agli aiutoregisti, ad esempio. Questo approccio riduce errori, tempi e costi. Spesso, chi all’inizio è scettico poi scopre che la sostenibilità fa anche risparmiare.

Come funziona il percorso di certificazione per una produzione che vuole iniziare?

Il primo passo è la licenza d’uso gratuita dello standard EcoMuvi: ogni produzione la richiede per il singolo progetto. Con quella licenza in mano, la produzione può rivolgersi a un organismo di certificazione accreditato − oggi Italcert è l’unico − per avviare il processo. Parallelamente, può scegliere di attivare il servizio integrato EcoMuvi, che accompagna la produzione in ogni fase, dalla preproduzione alla rendicontazione finale. In questo modo, la sostenibilità non è un carico burocratico, ma una pratica di produzione strutturata e verificabile. Ci occupiamo di ogni fase della realizzazione del prodotto audiovisivo, dall’approvvigionamento dell’energia al catering, dallo smaltimento dei rifiuti a quello delle scenografie, al riciclo dei materiali, al trasporto, alle risorse idriche.

E a livello europeo, come si colloca EcoMuvi rispetto agli altri paesi?

La situazione europea è molto frammentata. In alcuni paesi, come Germania o Francia, esistono linee guida ambientali o consorzi − penso a Ecoprod − ma non standard accreditati. Il modello EcoMuvi è unico in Europa perché unisce rigore tecnico, riconoscimento legale e applicazione operativa. Stiamo lavorando con Creative Europe e altre realtà europee per condividere buone pratiche e per la formazione attraverso Step Up, una piattaforma di e-learning sul green cinema. L’obiettivo è armonizzare i criteri e far sì che la sostenibilità non resti solo un requisito formale, ma un linguaggio comune dell’audiovisivo europeo.

Qual è la sfida più grande che incontri nel tuo lavoro quotidiano?

La resistenza al cambiamento. Spesso è una questione di conoscenza: chi lavora nel settore non ha gli strumenti per capire quanto la sostenibilità sia trasversale e interdipendente. Ogni settore non comunica con gli altri, e chi legifera, ad esempio, i set non li ha mai visti, così chi sta sul set non sa come funziona la distribuzione. Si teme l’impennata dei costi, si è restii al cambiamento per mille motivi come questo. La mia figura professionale è per definizione interdisciplinare: parlo con produttori, troupe, fondi, istituzioni, distributori, fornitori. Il nostro non è un ruolo di censore ma accompagniamo le produzioni verso il cambiamento, consigliando e ascoltando le esigenze che possono essere molto, molto diverse da produzione a produzione. Il vero nodo è che ciascuno di questi mondi non conosce davvero gli altri. Eppure la sostenibilità, per sua natura, richiede una visione sistemica. Mettere insieme questi pezzi è il mio lavoro quotidiano e la sfida più grande, ma anche la più affascinante.

Il mondo del cinema si fida del vostro ruolo?

È un rapporto di fiducia che va conquistato. In un primo momento pensano a noi come a un ispettore che arriva sul set e valuta cosa risponde ai criteri di sostenibilità e cosa no. Invece poi imparano che noi facciamo parte della squadra, ci poniamo al loro fianco e lavoriamo insieme per raggiungere quegli obiettivi.

Tra tutti i settori sui quali bisogna intervenire per rendere la produzione sostenibile, viene da pensare che l’approvvigionamento energetico sia quello più complesso da trasformare.

In realtà non direi. Poiché il nostro settore è sempre un cantiere in viaggio, il modo tradizionale − che ormai fa sempre più parte del passato − con cui ci si procura l’energia è un generatore, spesso sovradimensionato. Ti porti 50 KW per usarne 18-20. Ma sarebbe sbagliato pensare che la transizione significa passare semplicemente a una fonte green mantenendo gli stessi standard produttivi. Ancora prima di fare uno switch alla pari il vero tema è riprogettare, dimensionare in base alle reali esigenze, diversificare le fonti, in modo da avere un sistema misto, più affidabile e anche più agile. Considera che ormai facciamo allacci alla rete elettrica anche in pochi giorni lavorativi, anche in 48 ore, a volte, se c’è la predisposizione nel luogo, e poi esistono pacchi batteria, le luci si stanno efficientando nei consumi, quindi va considerato tutto. E così facciamo risparmiare tanti soldi proprio nei costi energetici. 

Che cosa immagini per il futuro del cinema sostenibile?

Siamo già in una fase matura, ma serve consolidare. Stiamo lavorando molto anche con i fornitori, e in molti casi stanno investendo molto per la transizione. E devo dire che non stiamo incontrando tanta resistenza: magari inconsapevolezza, ma non resistenza. Nei prossimi anni vedremo crescere la domanda di figure professionali formate − come i sustainability manager o i green auditor − e un maggiore allineamento europeo. EcoMuvi fa tantissima formazione, tanto che vogliamo approfondire le iniziative dedicate all’approfondimento e alla formazione. L’idea è creare una academy di formazione. Abbiamo iniziato già con dei webinar online, vorremmo farli anche in presenza, sicuramente lavorare di più o continuare ad avere delle buone sinergie con le istituzioni, e generare noi una serie di servizi o strumenti utili alle produzioni. Credo anche che cambierà la narrazione stessa: le storie che raccontiamo, i personaggi, le estetiche rifletteranno una nuova consapevolezza ecologica. Il cinema, in fondo, è sempre stato una forma di anticipazione culturale: oggi lo è anche per la sostenibilità.

 

In copertina: Ludovica Chiarini