Il problema del solare non è mai stato produrre elettricità ma usarla quando serve. Per anni il fotovoltaico ha concentrato l’offerta nelle ore di luce, lasciando scoperti i picchi serali. Oggi questo schema comincia a cambiare: le batterie entrano stabilmente nel sistema elettrico non come complemento ma come leva operativa.

Una nuova analisi del think tank energetico Ember misura quanto costa oggi usare l’accumulo per estendere l’utilizzo del solare oltre le ore centrali della giornata. Il risultato è che una parte significativa dell’energia prodotta può già essere spostata verso la sera e la notte a costi che in molti mercati risultano compatibili con i prezzi dell’elettricità.

A spiegare il punto di partenza del report è Kostantsa Rangelova, Global Electricity Analyst di Ember, che Materia Rinnovabile ha intervistato: “Il report guarda a dove siamo oggi, ai costi attuali delle batterie, sulla base dei dati disponibili a fine 2025. Negli ultimi due anni i prezzi sono scesi in modo molto significativo e oggi ci troviamo in una situazione completamente diversa rispetto a pochi anni fa in termini di economia del solare e dell’accumulo”. Non si tratta di eliminare l’intermittenza del fotovoltaico, ma di ridurne l’effetto sui momenti di maggiore domanda e di rendere la produzione rinnovabile più allineata ai consumi reali.

Dal prezzo delle celle al costo del progetto

La riduzione dei costi non è solo una storia di hardware più economico. Ember mette in evidenza il passaggio da una logica concentrata sul prezzo delle celle a una valutazione del costo complessivo di progetto: durata degli impianti, efficienza, rischio finanziario, modelli di remunerazione. Oggi i grandi sistemi di accumulo vengono progettati per una vita operativa di circa vent’anni, con efficienze di ciclo intorno al 90%. Questo significa che la stessa batteria può compiere un numero molto più alto di cicli rispetto al passato, diluendo il costo di investimento su un periodo più lungo.

Il rischio percepito dagli investitori si riduce e, di conseguenza, scende anche il costo del capitale. “Se una batteria dura vent’anni invece che dieci, il rischio del progetto si riduce in modo significativo e il capitale costa meno. Questo ha un impatto diretto sul prezzo finale dell’energia immagazzinata ed è un elemento importante quanto il costo della tecnologia stessa”, spiega Rangelova.

In parallelo, gli schemi regolatori e contrattuali − aste di lungo periodo, contratti per differenza, meccanismi di capacità − contribuiscono a stabilizzare i flussi di ricavi, rendendo più bancabili i progetti. È questo insieme di fattori che, nella lettura di Ember, spiega perché oggi il costo effettivo dello storage sia molto più basso rispetto a qualche anno fa.

La transizione verso le LFP e la standardizzazione industriale

Un elemento centrale del report è il ruolo delle batterie LFP, basate su litio, ferro e fosfato. Rispetto alle tecnologie precedenti, riducono il ricorso a nichel e cobalto e offrono una maggiore stabilità dal punto di vista termico e operativo. Per Rangelova, la differenza è netta: “Le batterie LFP sono più economiche, più durature e utilizzano meno materie prime critiche rispetto alle tecnologie precedenti. Questo ha contribuito in modo decisivo alla riduzione dei costi dell’accumulo e alla stabilità delle filiere”.

I sistemi di accumulo oggi non sono più soluzioni costruite su misura per ogni sito, bensì prodotti sempre più standardizzati. “Le celle LFP oggi sono integrate in container standardizzati da venti piedi [poco più di 6 metri, ndr]. Questo rende i progetti molto più semplici da realizzare e riduce i costi anche nella fase di installazione e di connessione”, osserva l’analista di Ember. E aggiunge: “Questo processo di standardizzazione sta rendendo le batterie sempre più simili a un prodotto industriale standard, piuttosto che a una tecnologia speciale per pochi progetti”. La standardizzazione riduce tempi e complessità dei cantieri, permette economie di scala e facilita la replicazione di soluzioni simili in contesti regolatori diversi, riflettendosi sulla curva dei costi.

L’effetto Cina sulla curva dei prezzi

Il report lega in modo esplicito la dinamica dei prezzi al ruolo della Cina. Negli ultimi anni la capacità produttiva cinese di celle e sistemi di accumulo è cresciuta fino a superare di circa tre volte la domanda interna. Questo eccesso di offerta si riflette direttamente sui mercati internazionali.

Secondo i dati raccolti da Ember, importare l’hardware dalla Cina costa oggi intorno ai 70-75 dollari per chilowattora. A questi si aggiungono in media altri 50 dollari per l’installazione, le opere civili e la connessione alla rete. Una parte significativa del valore economico, quindi, resta nei paesi in cui gli impianti vengono realizzati, soprattutto nella fase di integrazione nel sistema elettrico.

Rangelova riassume così questo passaggio: “La capacità produttiva in Cina è oggi molto superiore alla domanda interna e questo sta avendo un impatto diretto sui prezzi delle batterie a livello globale. L’eccesso di offerta si riflette in modo evidente sui mercati internazionali”. La domanda aperta, sul piano politico, è come conciliare questo vantaggio di costo con gli obiettivi di sviluppo industriale domestico che molte economie, Europa compresa, stanno provando a costruire sul fronte delle tecnologie pulite.

Ember dedica parte dell’analisi anche alla dinamica delle materie prime. “Dopo il picco del 2022, il prezzo del litio è sceso drasticamente e questo ha inciso direttamente sui costi delle batterie”, facendoli calare, ricorda Rangelova. “Allo stesso tempo continuiamo a vedere lo sviluppo di tecnologie alternative, come le batterie al sodio-ferro, che utilizzano materiali più abbondanti”.

Italia, un banco di prova per i prezzi

Nel sistema di stoccaggio, l’Italia gioca un ruolo rilevante. Non perché concentri la manifattura, ma perché nel 2025 ha messo a gara volumi significativi di capacità di accumulo attraverso aste che remunerano i servizi di flessibilità e le tariffe su orizzonti pluriennali. Per Ember i risultati italiani sono particolarmente interessanti perché non si limitano a indicare il costo della tecnologia, ma mostrano quanto il mercato è disposto a pagare per l’energia immagazzinata.

“In Italia non si comprano batterie come prodotto, ma si assegnano contratti su tariffe di lungo periodo. Questo significa che non stiamo guardando il costo teorico della tecnologia, ma quanto il mercato è disposto a pagare oggi per l’energia accumulata”, evidenzia Rangelova. Il fatto che i prezzi emersi dalle aste italiane convergano con quelli osservati in paesi molto diversi tra loro, come India e Arabia Saudita, è interpretato da Ember come un segnale di maturità del settore. In altre parole, non siamo di fronte a casi isolati, ma a una tendenza che riguarda mercati con condizioni regolatorie e di costo differenti.

 

In copertina: immagine Envato