“Back to work. And we won’t waste a minute”. Si torna subito al lavoro, senza perdere tempo. Così lunedì 5 maggio il laburista Anthony Albanese, appena rieletto primo ministro in Australia, ha celebrato su X una vittoria a dir poco schiacciante.
Non solo erano più di vent’anni che un primo ministro australiano non veniva rieletto per un secondo mandato, ma il distacco dal concorrente, il liberal Peter Dutton (centro-destra), è stato così netto da essere definito dai media una vera e propria “valanga”, che ha fatto perdere a Dutton persino il seggio in parlamento.

Dopo la vittoria della sinistra in Canada, l’”effetto Trump” sembra dunque aver funzionato anche in Australia. Se i laburisti si aspettavano di dover battagliare fino alla fine o di essere costretti a stringere alleanze di comodo per riuscire a governare con una maggioranza risicata, il trumpismo ostentato da Dutton in campagna elettorale ha invece consegnato il trionfo su un piatto d’argento ad Albanese.

Leader progressista e difensore delle minoranze (era una sua idea il referendum, purtroppo fallito, per i diritti degli aborigeni), Anthony Albanese ha oggi in agenda un altro punto molto importante: le politiche climatiche e per l’ambiente. Con l’obiettivo a lungo termine di raggiungere il net zero nel 2050, e con quello a brevissimo termine di portare in Australia, l’anno prossimo, la COP31.

Un voto per il clima

Se si guarda alle emissioni pro capite (che è poi l’unico modo equo per fare un confronto), l’Australia è fra i paesi peggiori al mondo. Con le sue 21,75 tonnellate di CO₂ a cranio, è il maggiore emettitore fra i paesi OCSE, superando persino gli Stati Uniti, mentre nel G20 è seconda solo all’Arabia Saudita. Un poco invidiabile primato che si accompagna alle ingenti esportazioni di combustibili fossili, soprattutto verso l’Asia: seconda nell’export globale di carbone, subito dopo l’Indonesia, e seconda nell’export di gas naturale, appena sotto gli Stati Uniti.

Insomma, sul fronte del clima, c’è molto che la politica australiana potrebbe fare. E proprio per questo, come ha ricordato il New York Times alla vigilia delle elezioni, “pochi elettori al mondo hanno lo stesso potere di un cittadino australiano sul cambiamento climatico”.

Sebbene di clima, durante la breve campagna elettorale, non si sia parlato molto, quello del 3 maggio potrebbe così essere il voto più forte espresso dall’Australia per l’azione climatica, come ha osservato il corrispondente del Guardian Adam Morton. Di sicuro è un voto di dissenso nei confronti del negazionismo esibito dai liberali della Liberal-National Coalition che, a parte i veri e propri scivoloni anti-scientifici in diretta tv del leader Dutton, avevano in programma di rallentare le rinnovabili investendo in fossili e di smantellare buona parte delle politiche climatiche dei laburisti.

Il Partito Laburista aveva, infatti, cominciato a lavorare prima delle elezioni a piani di decarbonizzazione per i sei comparti principali dell’economia: energia, trasporti, industria, agricoltura, risorse, edilizia. I piani sono da inquadrare in un più vasto programma di investimenti per traghettare l’economia australiana verso il net zero, battezzato Future Made in Australia, che ha l’obiettivo di riposizionare il paese come grande esportatore di beni low carbon prodotti con energie rinnovabili.

Ora, però, Albanese dovrà prima di tutto dimostrare di mantenere l’ambizione presentando i prossimi target di riduzione delle emissioni.

L’Australia verso la COP31

Entro settembre di quest’anno, tutti i paesi firmatari dell’Accordo di Parigi dovranno presentare i propri target di riduzione delle emissioni al 2035. E sui target dell’Australia sono puntati i riflettori di tutto il mondo, visto che la nazione è candidata a ospitare la Conferenza sul clima del 2026 insieme alle isole del Pacifico.

Se l’obiettivo finale per il net zero è il 2050, per il prossimo decennio l’Autorità australiana per il Climate Change ha dato indicazioni per un target di riduzione compreso fra il 65 e il 75% rispetto ai livelli del 2005. Il target sarebbe in linea con quelli sulla transizione energetica già stabiliti dal primo governo Albanese: entro il 2030 l’elettricità australiana dovrà essere generata per l’82% da fonti rinnovabili (solare, eolico, idroelettrico).

Si tratta di obiettivi ambiziosi, ma l’Australia ha in ogni caso bisogno di politiche energetiche piuttosto risolute, visto che il suo approvvigionamento di elettricità è oggi basato in gran parte su centrali a carbone ormai obsolete, la domanda di energia è in aumento e i costi stanno diventando un problema per le famiglie. La soluzione proposta dai conservatori (in linea con le destre di molti paesi occidentali) sarebbe stata quella del nucleare. Ma le centrali nucleari richiederebbero diversi anni per entrare in funzione, e intanto si dovrebbe continuare a bruciare carbone, con buona pace dei target climatici. Le rinnovabili sono invece bell’e pronte, e, con tutto il deserto che c’è in Australia, il solare potrebbe dare una spinta consistente alla produzione.

Il problema maggiore, a questo punto, sarà migliorare la rete elettrica, la cui estensione, secondo vari studi, dovrebbe almeno raddoppiare per far fronte alla domanda, abbassare i costi e integrare le rinnovabili. Intanto, in campagna elettorale Albanese ha promesso un programma di sussidi per le batterie domestiche, che oltre al clima dovrebbero far bene anche alle tasche degli australiani.

Insomma, le aspettative sono alte, e se l’Australia riuscirà a spuntarla diventando il paese ospitante della COP31 avrà modo di mostrare al mondo i suoi progressi. La sede giusta, intanto, è già stata individuata: la città di Adelaide, che con il suo 70% di energia prodotta da fonti rinnovabili è il fiore all’occhiello della transizione australiana.

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In copertina: Anthony Albanese fotografato da Alexandre Durão al G20 di Rio de Janeiro nel novembre 2024, via Flickr