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Un tempo simbolo di fatica e tradizione, la pesca sta cambiando volto. Oggi il pesce che arriva sulle nostre tavole proviene in larga parte dagli allevamenti, non più dalle imbarcazioni che all’alba calano le reti in mare.
Secondo il report The State of World Fisheries and Aquaculture (SOFIA) il sorpasso dell’acquacoltura sulla pesca tradizionale è avvenuto nel 2022, quando la produzione mondiale ha toccato il record di 130,9 milioni di tonnellate, ben 8,1 milioni in più rispetto al 2020. Un incremento che si riflette anche sul valore economico: 312,8 miliardi di dollari nel 2022, il 12% in più rispetto a due anni prima.
Tra le specie più richieste c’è il salmone, in particolare quello dell’Atlantico (Salmo salar), presente ovunque, dai supermercati ai ristoranti di sushi − un paradosso, se si considera che nella cucina giapponese tradizionale il salmone crudo non è previsto −, il cui allevamento è oggi il sistema di produzione alimentare in più rapida crescita al mondo.
Ma se da un lato l’acquacoltura è diventata importante per rispondere alla domanda di proteine di una popolazione globale in aumento, dall’altro solleva serie criticità ambientali, economiche e legate al benessere animale, in particolare quando i salmoni vengono allevati in reti aperte nel mare.
Problemi e impatti degli allevamenti di salmoni
Acque di scarico non trattate, pesticidi e microplastiche vengono riversati negli ecosistemi circostanti. I salmoni allevati che riescono a fuggire si mescolano con le popolazioni selvatiche, alterandone l’equilibrio attraverso contaminazione genetica e competizione per le risorse. Nel 2023, il Guardian ha pubblicato alcune immagini scattate in un allevamento a rete aperta nella regione dei Vestfirðir, che mostrano salmoni gravemente infestati dai pidocchi di mare (Lepeophtheirus salmonis), piccoli crostacei che si nutrono della loro pelle e costringono all’abbattimento anticipato di un numero enorme di esemplari.
E come spiega a Materia Rinnovabile Jon Kaldal, portavoce dell'Icelandic Wildlife Fund, “il tasso di mortalità è molto alto e continua a crescere di anno in anno, complice il riscaldamento dell’oceano. I pidocchi del salmone stanno diventando resistenti ai pesticidi e ai farmaci, e oggi in Islanda oltre il 40% dei salmoni allevati in gabbia muore prima di arrivare al macello. Muoiono per le temperature invernali e per le ferite causate da questi parassiti. Nessun allevatore potrebbe operare in modo simile sulla terraferma”.
“Questa non è un'industria sostenibile nel puro e incontaminato Nord Atlantico”, spiega Kaldal. “Stanno inquinando l’ambiente, contaminando i pesci selvatici e trattando gli animali in modo terribile e tutto ciò si sta verificando ovunque nel mondo. Se parliamo dell'Islanda, vediamo esattamente le stesse problematiche, ma su scala ancora più ampia.”
I problemi che riguardano l’aspetto ambientale sono diversi, a partire dai rifiuti prodotti dall’allevamento industriale dei salmoni. “In tutti quei posti scaricano enormi quantità di liquami direttamente in mare. Non viene filtrato nulla: escrementi di pesce, mangime avanzato, pesticidi, farmaci e una quantità incredibile di microplastiche. Tutto in quest’industria è fatto di plastica, a partire dalle reti di nylon, i tubi e gli anelli galleggianti. E poi c’è la vernice antivegetativa sulle reti, piena di materiali tossici come l’ossido di rame, che si deposita sul fondo dei fiordi, avvelenando la fauna marina.”
Salmoni in fuga e danni alla biodiversità
C’è poi il tema della biodiversità e della difesa dello stock di salmone selvatico, custodi di un patrimonio genetico forgiato dalla natura in più di 10.000 anni e oggi messo a rischio dalle fughe dagli allevamenti intensivi. “In posti come Norvegia, Islanda e Scozia, i salmoni d’allevamento scappano e si mescolano con i salmoni selvatici dell’Atlantico, rendendo i pesci selvatici meno resistenti e compromettendo persino la loro capacità di ritrovare il fiume dove sono nati”.
Uno degli episodi più recenti ha coinvolto l’azienda norvegese Mowi, leader mondiale del settore, che ha registrato la fuga di 27.000 esemplari da una rete posizionata nelle acque al largo della città di Troms, nel nord del paese. Una possibile alternativa è rappresentata dall’acquacoltura a terra o in sistemi chiusi in mare.
Come sottolinea Kaldal, “pur restando una forma di allevamento intensivo, questi sistemi registrano tassi di mortalità più bassi e offrono condizioni migliori per il benessere animale. L’ambiente è più controllabile: è possibile filtrare l’acqua per prevenire i parassiti, si evitano danni dovuti al freddo e tutti gli scarichi devono essere trattati, riducendo così l’inquinamento marino. Tuttavia, è anche un sistema ad alto consumo energetico e idrico, e il nodo del mangime rimane ancora senza soluzione”.
L’impatto del cibo dei salmoni e dei salmoni come cibo
Non lasciatevi ingannare dal colore dei filetti di salmone allevato che trovate al supermercato. In natura, infatti, i salmoni devono il loro caratteristico tono rosato alla dieta di piccoli pesci e crostacei. Negli allevamenti, invece, il colore rosato del salmone è ottenuto artificialmente aggiungendo astaxantina al mangime, a base di farina e oli di pesce e soia, altrimenti la sua carne sarebbe di una tonalità di grigio.
Inoltre, il pesce selvatico utilizzato per nutrire i salmoni, composto per circa il 90% da acciughe, sgombri e sardine, potrebbe essere consumato direttamente sulle nostre tavole, visto che sono specie con un alto valore nutrizionale. Come riporta lo studio A review of the global use of fishmeal and fish oil and the Fish In: Fish Out metric, pubblicato su Science Advanced, nel corso del 2020 sono stati prodotti circa 2,7 milioni di tonnellate di salmonidi d’allevamento, con il solo salmone atlantico che ha rappresentato poco più del 30% della produzione di pesce marino in acquacoltura e circa il 60% dell’utilizzo di olio di pesce.
Secondo l’Icelandic Wildlife Fund, per poter consumare un solo pasto a base di salmone d’allevamento è necessario usare una quantità di proteine e nutrienti che potrebbe bastare per tre o quattro pasti. L’attuale modello produttivo sottrae quindi risorse ittiche che potrebbero alimentare direttamente le persone, penalizzando in particolare le comunità costiere che dipendono dai piccoli pelagici per la sicurezza alimentare e l’economia locale.
L’acquacoltura in Islanda
In Islanda l’allevamento intensivo di salmone in reti aperte è cresciuto di ben diciotto volte dall’inizio del secolo. Nonostante l’espansione rapida del settore, l’opinione pubblica sembra muoversi in direzione opposta: secondo un recente sondaggio di Gallup, commissionato dall’Iceland Nature Conservation Association, due islandesi su tre si dichiarano contrari alla pratica delle reti aperte.
Una delle ragioni alla base di questa opposizione, oltre ai problemi ambientali, potrebbe essere il limitato impatto occupazionale del settore. Nel 2023, l’allevamento di salmone in Islanda impiegava appena lo 0,2% della forza lavoro nazionale, mentre quasi tutto il salmone prodotto in reti aperte viene destinato all’esportazione.
A pesare sull’opinione pubblica c’è anche la questione della proprietà estera. Come sottolineato nel libro The New Fish di Simen Sætre e Kjetil Østli, pubblicato da Patagonia, “il 90% delle aziende di acquacultura in Islanda è proprietà di stranieri, e i report annuali mostrano che trasferiscono i loro profitti dove le tasse sono basse”.
Inoltre, la polizia islandese ha da poco aperto un’indagine dopo la morte di quasi 1,2 milioni di salmoni nell’allevamento di Kaldvík, causata da negligenze e cattive condizioni ambientali. In risposta, i proprietari dei fiumi islandesi hanno avviato una causa contro l'azienda Arctic Sea Farm e le autorità, chiedendo la revoca delle concessioni agli allevamenti in reti aperte nei fiordi di Patreksfjörður e Tálknafjörður. L’azione legale, sostenuta dall’Icelandic Wildlife Fund e co-finanziata dall’artista Björk, punta a proteggere l’ambiente e il salmone selvatico islandese.
Ma nonostante le attuali problematiche, il futuro del settore potrebbe essere migliore. Come racconta Jon Kaldal, questo autunno il Parlamento islandese discuterà le nuove leggi sull'acquacoltura. “Quello che vogliamo vedere è che vengano introdotti dei principi fondamentali nella legge, per garantire che sia davvero un’industria sostenibile. Innanzitutto, se qualcuno volesse allevare salmoni in mare, non dovrebbe essere autorizzato a scaricare direttamente liquami che sono vietati sulla terra. Le regole dovrebbero essere le stesse che valgono per le altre aziende, visto che spesso si trovano a soli 50 metri dalla costa. L’obiettivo numero due è garantire che nemmeno un salmone possa fuggire, perché sappiamo con certezza che questo danneggia le specie selvatiche. Il numero tre è che non dovrebbero essere rilasciati in mare parassiti o batteri in grandi quantità, come avviene attualmente, perché danneggiano gli ecosistemi dei fiordi e dell’oceano. E infine, deve esserci molto più rigore sul benessere animale”.
In copertina: foto di Celine Haeberly, Unsplash