Il nuovo monografico, appena uscito, di Materia Rinnovabile (MR54 -Materiali) si apre con un numero: 160 miliardi di tonnellate. È la stima delle materie prime che si estrarranno ogni anno globalmente nel 2060.
La fame di materia del mondo non fa che crescere, ed è, accanto allo sviluppo dell’ambiente costruito, lo stesso progresso tecnologico ad alimentarla. Ma il pianeta ha dei limiti, e i materiali, critici o no, non sono infiniti.
Di questo si è ragionato il 21 gennaio, in occasione del convegno Un pianeta in esaurimento, organizzato dalla piattaforma Prometeo Tech Cultures del Politecnico di Torino e dall'Associazione CAReGIVER, gruppo di tecnici e ricercatori del settore automotive piemontese, e moderato da Raffaello Porro.
Fra transizione energetica, elettrificazione dei trasporti e rivoluzione digitale, alcuni materiali critici cominciano a diventare scarsi o problematici dal punto di vista delle catene di approvvigionamento. Servono dunque soluzioni che provengano dalla politica, dalla ricerca e dall’innovazione, e naturalmente, dall’economia circolare. Durante il convegno di Torino ne sono state messe sul tavolo alcune.
Transizione energetica e materie prime critiche
La giornata di conferenze di Torino si è aperta con lo stesso numero del nostro monografico: 160 miliardi di tonnellate. Così Giovanni De Santi, direttore del Foresight e Strategic Planning Office al Politecnico di Torino, nonché docente di Sostenibilità ed Economia Circolare presso l'Università di Pisa, ha presentato il tema dei Critical Raw Materials, elencando i tanti e fondamentali settori in cui queste materie prime sono indispensabili: dispositivi elettrici ed elettronici, batterie, EV, pale eoliche, fotovoltaico, robotica.
A introdurre il capitolo transizione energetica è stato invece Guido Saracco, ex rettore del Politecnico torinese e oggi curatore di Prometeo Tech Cultures. Saracco ha fatto una panoramica sulle nuove tecnologie energetiche nel quadro della crisi climatica, spezzando una lancia per il power-to-gas: la conversione, cioè, dell’energia prodotta da fonti rinnovabili e non immediatamente utilizzata in produzione di gas, nella fattispecie idrogeno verde. Si è poi soffermato sulle “ragioni del nucleare” come backup per le rinnovabili, e soprattutto ha lanciato un appello per la bioeconomia, settore già preziosissimo per l’Italia e che potrebbe diventarlo anche dal punto di vista della produzione energetica, consentendo una maggiore indipendenza energetica al paese.
Geopolitica dell’energia
Il problema principale dell’Italia, come è stato sottolineato più volte durante il convegno, è infatti il suo alto grado di dipendenza dall’importazione di fonti energetiche dall’estero.
A questo proposito, Massimo Deandreis, direttore del centro studi SRM sull’area mediterranea, ha mostrato una illuminante mappa delle dipendenze energetiche globali. L’Unione Europea ha un grado di dipendenza del 58%, e, fra i paesi UE, l’Italia è quello con la situazione più preoccupante, con una dipendenza del 74,8% . Ma, ha precisato Deandreis, “il nostro è un Paese manifatturiero, e gran parte dell’energia serve all’industria del Made in Italy”. Completamente autosufficienti dal punto di vista dell’approvvigionamento energetico sono invece gli Stati Uniti, mentre la Cina ha un grado di dipendenza dall’estero del 20%.
“Con la guerra in Ucraina – ha spiegato Deandreis – la mappa geopolitica delle dipendenze si è modificata: se prima l’Europa importava buona parte del gas dalla Russia, ora è tornata ad essere centrale l’area del mediterraneo, e il gas russo è stato sostituito da quello algerino”.
“Non possiamo però, noi europei, continuare a guardare alla regione mediterraneo solo per l’approvvigionamento di fonti fossili – ha aggiunto – Dobbiamo cominciare a includere nel dialogo energetico del Mediterraneo anche la produzione di energia da rinnovabili, costruendo partnership con paesi del Nord Africa dove si possono sviluppare significative produzioni da eolico e fotovoltaico, ma anche, in una logica power-to-gas, di idrogeno verde”.
Anche dal punto di vista della cooperazione allo sviluppo, le rinnovabili sarebbero meglio del mero acquisto di gas e petrolio da paesi terzi: se i soldi delle fossili hanno infatti buone probabilità di finire nelle mani di oligarchi o signori della guerra, costruire infrastrutture per le energie rinnovabili porta invece lavoro, tecnologia, formazione nei paesi destinatari.
Inoltre, aggiunge Deandreis, sarebbe un vantaggio per l’Europa. “È infatti improbabile che l’UE raggiunga gli obiettivi di decarbonizzazione solo con la propria capacità rinnovabile interna, e avrà quindi bisogno di importare FER dal Nord Africa”. In quest’area c’è un grande potenziale non ancora sfruttato: se si guarda alla capacità rinnovabile della regione mediterranea, infatti, solo il 2,8% del fotovoltaico e solo il 4,25 dell’eolico è installato sulla sua costa meridionale del Mediterraneo.
Supply chain rischiose
Rimane però il grande problema della supply chain dei Critical Raw Materials. “L’Europa – avverte Deandreis – corre il rischio di sostituire la dipendenza da petrolio e gas esteri, con quella dalle materie prime critiche per costruire le tecnologie per la transizione”.
A differenza delle filiere di petrolio e gas, quelle dei CRM sono molto concentrate e in paesi problematici dal punto di vista geopolitico. L’esempio più classico è quello del cobalto: il 70% della produzione globale di questo materiale avviene in Congo, un paese che nel ranking di stabilità geopolitica della World Bank (Worldwide Governance Indicator) ha un punteggio che definire basso è un eufemismo (6,7 su 100). La Cina dal canto suo detiene il quasi monopolio della grafite, mentre in Cile e in Australia si estrae oggi buona parte del litio utilizzato globalmente.
Ma le catene di fornitura globali sono tutt’altro che lineari e non si esauriscono in una semplice freccia che va dal produttore primario all’utilizzatore finale. Così, oggi, chi è in posizione di vantaggio per praticamente tutti i materiali critici è la Cina, che anche per quelli di cui non ha risorse interne è riuscita a controllare la lavorazione e produzione, di fatto dominando il mercato globale di rame, cobalto, litio, grafite e terre rare. Ad esempio, per il cobalto, se il 70% dell’estrazione avviene in Congo, il 65% della lavorazione è in Cina; per le terre rare, la Cina ha sul suo territorio solo il 37% delle risorse conosciute, ma produce il 93% dell’output globale.
Con queste concentrazione, conclude Masssimo Deandreis, c’è quindi un forte rischio di interruzione delle forniture per vari materiali critici, fondamentali per la produzione energetica, ma non solo.
Automotive e materiali critici
Di tutti questi materiali critici, una fetta consistente la usa il settore automotive. Ad esempio, circa il 95% del litio e del terbio (una terra rara) e il 65% del cobalto prodotti globalmente vanno a finire nell’industria delle automobili.
Come ha ricordato Stefano Re Fiorentin, ex direttore del Centro Ricerche FIAT e oggi responsabile della direzione tecnica di CAReGIVER, delle 34 materie prime critiche presenti nella lista ufficiale dell’UE (in cui è incluso anche il rame), ben 21 sono quelle utilizzate nell’automotive. E con la crescita del mercato degli EV, crescerà anche la domanda per questi materiali: uno su tutti, il litio per le batterie, vedrà aumentare di 9 volte la domanda da qui al 2040.
Fame di litio
Il litio, come spiega Mario Petronio, ex responsabile della progettazione di motori FIAT, Lancia e Alfa Romeo, è al momento un elemento insostituibile per le batterie, vista la sua leggerezza (è l’elemento più leggero in natura dopo idrogeno ed elio) e la sua elevata densità energetica. Ma la sua disponibilità è relativamente scarsa: 20 grammi per ogni tonnellata di crosta terrestre (che è comunque più di stagno, piombo, oro e argento).
Le risorse potenziali di litio ammontano a 97 milioni di tonnellate, ma le riserve conosciute e sfruttate sono solo 26 milioni di tonnellate. Il problema principale è che le riserve sono concentrate in pochi paesi, nell’ordine: Cile (più di 9,3 milioni di tonnellate), Australia (6,2), Argentina (2,7), Cina (2), Stati Uniti (1). Poi c’è il caso della Bolivia, dove potenzialmente esistono risorse di litio per circa 26 milioni di tonnellate, ma non si estrae nulla, perché il governo locale si è finora opposto (con ragioni e timori del tutto condivisibili) allo sfruttamento.
L’estrazione del lito comporta infatti una serie di problematiche ambientali non trascurabili. Nei salar cileni (come il Salar de Atacama, il più noto) e argentini, il litio viene pompato fuori dalla salamoia depositata nel corso di milioni di anni sotto lo strato di sale del deserto e fatto evaporare in grandi vasche, con grande consumo di acqua, un paradosso inaccettabile per la popolazione locale che combatte contro la siccità. In Australia e in misura minore in Cina, il litio si estrae invece da un minerale, lo Spodumene, con l’utilizzo di agenti chimici e gli impatti tipici della maggior parte delle miniere.
C’è però, spiega Petronio, un metodo alternativo di estrazione del litio potenzialmente più sostenibile: l’estrazione da brine geotermiche. Come avevamo già spiegato su MR, l’estrazione di litio geotermico si abbinerebbe alla produzione energetica tramite geotermia, abbattendo così il consumo di acqua e riducendo al minimo anche il consumo di suolo. È una soluzione allo studio in diversi paesi europei, compresa l’Italia, e che promette risultati interessanti: ad esempio la Germania, secondo alcune stime, vorrebbe ricavarne litio sufficiente per un 1 milione di batterie l’anno.
Soluzione circolare
Se sul litio si cercano fonti di approvvigionamento alternative, e il cobalto sta via via venendo rimpiazzato da altri materiali nelle batterie di nuova generazione, l’estrazione di molte altre materie prime critiche continuerà ad aumentare nei prossimi anni, ponendo per alcune un vero e proprio problema di scarsità. Andando avanti di questo passo, ad esempio, secondo alcune proiezioni arriveremo nel 2050 praticamente a esaurire le riserve di nichel.
Inoltre, lo sfruttamento delle risorse conosciute pone problemi di sostenibilità sia ambientale che sociale (come in Congo, dove nelle miniere lavorano, secondo Unicef, oltre 40.000 bambini).
Servono dunque soluzioni per rendere più sicure e resilienti le catene di approvvigionamento, e più sostenibile sotto tutti i punti di vista lo sfruttamento delle risorse.
Tutti i relatori del convegno di Torino si sono dunque trovati d’accordo su un punto: oltre all’implementazione di ormai imprescindibili politiche di sostenibilità per il mining, è ora necessario che entri in campo l’economia circolare. Dal riciclo funzionale dei CRM, al riuso dei componenti e delle batterie, fino all’ecodesign per progettare batterie, autovetture e pannelli fotovoltaici più facilmente disassemblabili, l’approccio circolare è ormai visto come l’unico in grado di garantire sicurezza e sostenibilità al futuro della transizione energetica e digitale.
In copertina: immagine Envato