Il vertice intergovernativo Italia-Turchia del 29 aprile non si è chiuso soltanto con una prevedibile sfilza di intese su armamenti, impegni per la pace e scambi di cortesie tra il presidente Recep Tayyip Erdoğan e la premier Giorgia Meloni. A colpire, oltre al silenzio imposto ai giornalisti, è la presenza nella dichiarazione congiunta diffusa a fine lavori di vari dossier legati a “energia e ambiente”.
La rinnovata intesa tra i due paesi, che mira a far salire l’interscambio commerciale da 32 a 40 miliardi di dollari, cita infatti gasdotti strategici come il Southern Gas Corridor, approvvigionamento di materie prime critiche, rinnovabili, partenariati Oil&Gas anche in paesi terzi, e zero waste. Si tratta di dossier cruciali, sia chiaro. Soprattutto considerando il ruolo di Ankara − secondo esercito della NATO − nello scacchiere ucraino, in Asia Occidentale e in Nord Africa.
Resta però un interrogativo: l’Italia avrà fatto un buon affare? La domanda s'impone alla luce della risoluzione non legislativa approvata il 7 maggio dal Parlamento europeo, che da un lato riconosce il peso geopolitico della Turchia, ma dall’altro congela il suo percorso di adesione all’UE, condannando l’arresto del leader dell’opposizione Ekrem İmamoğlu.
Una chiave di lettura dell’asse “green” Roma-Ankara potrebbe risiedere nelle politiche ambientali portate avanti dal governo Erdoğan. Un potere esercitato ininterrottamente da oltre vent’anni — più dello stesso Atatürk, padre della Turchia moderna — in un sistema che, pur formalmente laico, si mostra sempre più centralizzato, autoritario e intollerante al dissenso.
Cosa prevede l’accordo Italia-Turchia
"La dichiarazione tra Italia e Turchia enfatizza come al centro delle relazioni bilaterali vi sia sempre di più l'energia e il ruolo delle tecnologie alternative”, spiega a Materia Rinnovabile Alberto Prina Cerai, analista dell'Osservatorio Geoeconomia ISPI. “Il potenziamento della sponda sud-est per l'approvvigionamento di gas naturale dall'Azerbaijan vede la Turchia paese di transito e l'Italia terminale di riferimento, nel nuovo hub che si costruisce intorno al Southern Gas Corridor, che include il TAP.”
Il progetto riveste un'importanza strategica per il raggiungimento degli obiettivi di diversificazione energetica dell'Unione Europea fissati al 2030. Questa centralità è stata ribadita anche durante l'ultimo vertice ministeriale tenutosi ad aprile a Baku, dove è stato confermato l’impegno ad aumentare le forniture di gas azero verso l’Europa di ulteriori 10 miliardi di metri cubi annui entro il 2027.
“L'anno scorso, il 51% del gas dei depositi azeri è fluito direttamente in Europa”, continua Prina Cerai, aggiungendo anche l’idrogeno e critical raw materials tra i settori chiave del memorandum. “Con il progetto HYSouthMarmara la Turchia punta a produrre e trasportare idrogeno verde. La Turchia è già il principale esportatore in UE di boro, materiale critico. Partner della Mineral Security Partnership come l'Italia, il paese necessiterà tuttavia di cooperazione per le esplorazioni minerarie e di investimenti esteri per sfruttare il suo potenziale geologico latente.”
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Le politiche ambientali di Erdogan tra deforestazione, incendi e cambiamenti climatici
Nel 2013 fu una manciata di alberi a Gezi Park, vicino piazza Taksim a Istanbul, ad accendere una protesta di massa contro cementificazione, autoritarismo e devastazione ambientale. Dieci anni dopo, lontano dai riflettori delle metropoli, la scena si ripete nella foresta di Akbelen: 740 ettari di verde a rischio abbattimento per espandere una miniera di lignite. A guidare la resistenza gli abitanti dei villaggi circostanti, molti dei quali nel frattempo espropriati, decisi a difendere il proprio territorio dai piani dei colossi delle costruzioni e dell’energia vicini al governo.
Cambiava il contesto, non il meccanismo, come riassunto in un’analisi del Dipartimento di studi sui media dell’Università di Stoccolma. In quell’occasione si ripropose non solo l’egemonia della privatizzazione e della deregolamentazione neoliberale − iniziata nel paese dopo la crisi finanziaria del 2001 − ma anche “la logica dominante dell’estrattivismo, il disprezzo per le preoccupazioni ambientali, il controllo aziendale della terra e dello spazio (precedentemente) pubblico, la mancanza di trasparenza e l’autoritarismo politico”.
Continuando l’adagio si può arrivare al clima. A novembre 2024, secondo l’European Forest Fire Information System, la Turchia aveva già perso quasi 120.000 ettari a causa di incendi boschivi: oltre quattro volte la superficie bruciata l’anno precedente, anche se ancora lontana dal disastro del 2021, quando i roghi ne distrussero più di 200.000. Eventi estremi ampiamente annunciati in un Mediterraneo che si riscalda del 20% più rapidamente della media globale. Eppure, nel 2021 Ankara stanziava solo 200 milioni di lire turche per la lotta agli incendi (circa 24 milioni di dollari: per un confronto, il più piccolo Portogallo ne allocava 265), spendendone però meno del 2% per la prevenzione.
Il dato non stupisce, se si pensa che la Turchia ha ratificato l’Accordo di Parigi solo nel settembre 2021, ultima tra i paesi del G20, impegnandosi a raggiungere emissioni nette zero entro il 2053. Ma al di là delle promesse, come riporta Climate Action Tracker, le emissioni continuano a salire (+138% solo tra il 1990 e il 2020). La stessa fonte giudica come “gravemente insufficienti” le politiche turche.
Dalle fonti fossili al Carbon Border Adjustment Mechanism (CBAM)
Nel 2022, anche il report di Climate Transparency ribadiva come l’85% del mix energetico turco è ancora dominato dai combustibili fossili, ben al di sopra della media G20 (81%). Carbone, petrolio e gas si dividono quasi equamente la torta, mentre le rinnovabili almeno nel 2021 arretravano dal 16% del 2019 al 14%.
Nel 2021, stando ai dati OCSE, in dodici grandi regioni turche erano previsti o già in fase di costruzione nuovi impianti a carbone. Alla fine del primo quarto 2024 la Turchia superava così in generazione la stessa Germania, non senza conseguenze sul lato sanitario. Come i vicini Balcani, la combustione di carbone è causa di inquinamento atmosferico: nel suo Dark report 2024 la Piattaforma per il diritto all'aria pulita (THHP) riferiva come oltre il 92% della popolazione turca respiri quotidianamente aria inquinata. Compromesso evidentemente necessario, considerato che la Turchia è il paese OCSE in cui la domanda di energia è cresciuta più rapidamente negli ultimi vent’anni.
Ne consegue la necessità di diversificazione delle fonti, che aggiunge ragioni alla corsa di Ankara sul fronte energia pulita. Erdogan vuole raggiungere l'“obiettivo di 120.000 megawatt di capacità di energia solare ed eolica entro il 2035”, come annunciato il 7 maggio intervenendo a una cerimonia di apertura sugli investimenti nelle energie rinnovabili. Alla platea, nel ricordare come il paese sia al quinto posto in Europa e all’undicesimo nel mondo in termini di capacità installata, il presidente ha ribadito l’intenzione di ridurre i tempi di autorizzazione per i progetti di energia eolica e solare da 48 a 18 mesi.
Va ricordato infine che il 23 maggio 2024 il governo turco ha inoltre pubblicato la versione inglese del suo Climate Change Mitigation Strategy and Action Plan (CCMSAP), un documento che punta ad allineare il sistema di scambio di emissioni nazionale (ETS) a quello dell’Unione Europea (EU ETS) con fase pilota a partire dal 2026, nonché al meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), una misura che certo “ostacola” le imprese turche nelle esportazioni verso l’UE.
Il governo turco punta, inoltre, ad aggiungere l'energia nucleare alla propria dieta energetica, per “ridurre la dipendenza dalle importazioni di energia, massimizzare l'uso delle risorse interne e combattere il cambiamento climatico”. Dal progetto di Akkuyu a quello di Sinop, il nucleare turco si costruisce però grazie a un consorzio con i russi di Rosatom, nonostante la questione ucraina, che vede la Turchia garante dell’attuazione della Convenzione di Montreux, che regola il passaggio nel Mar Nero attraverso il Bosforo.
“La Turchia ha sempre mantenuto attivi i voli e i canali di comunicazione con Mosca. Alcuni interpretano questa posizione come un atteggiamento ipocrita”, dice a Materia Rinnovabile Valeria Giannotta, direttrice scientifica dell'Osservatorio Turchia del CeSPI. “Tuttavia, a mio avviso, si sta rivelando un approccio davvero equilibrato e consapevole. Negli ultimi giorni, tutti i giornali parlano delle telefonate tra Trump ed Erdoğan, e delle dichiarazioni di quest’ultimo che mette in guardia sul rischio di un conflitto globale, citando situazioni tese tra Siria, India e Pakistan. In un certo senso, si sta riconoscendo a Erdoğan questo ruolo di leader, discutibilissimo, ma capace di visione.”
Il nesso acqua-energia-cibo-guerra
L’acqua e la sua gestione, in Turchia, meritano un capitolo a parte. Secondo la Banca Mondiale, il paese è già oggi in crisi idrica: 25 bacini fluviali su 25 si stanno prosciugando, con la prospettiva concreta di una scarsità cronica entro il 2030. In gioco non c’è solo la sopravvivenza degli ecosistemi, ma l’intera filiera agricola, la sicurezza alimentare e la stabilità sociale nelle aree rurali.
Ci sono progetti: come il Türkiye Irrigation Modernization Project, che promette di portare entro il 2026 una rete idrica sotterranea resistente a sismi e alluvioni a 15.000 agricoltori nella fertile pianura di Konya, o l’iniziativa TULIP, che mira a proteggere 90.000 persone da disastri idrogeologici in due grandi bacini fluviali.
A monte resta però il paradosso di un sistema che, mentre investe nella resilienza climatica, continua a perseguire una logica estrattivista e megaprogettuale. Il Grande progetto anatolico (GAP), per esempio, ha modificato drasticamente il corso dei fiumi Tigri ed Eufrate, riducendo il flusso verso Siria e Iraq e alimentando tensioni regionali.
E dietro le ambizioni infrastrutturali del presidente Erdoğan — come il discusso Kanal Istanbul, un canale parallelo al Bosforo la cui costruzione resta sospesa tra crisi economica e impatto ambientale o il caso del terzo aeroporto di Istanbul — si intravede il volto di uno "sviluppo" che consuma più di quanto protegga. Un modello che, nel frattempo, ha avuto anche un risvolto bellico: tra ottobre 2019 e gennaio 2024, Ankara ha colpito oltre 100 infrastrutture energetiche nel nord-est della Siria, controllato dalle forze curde, privando dell’accesso ad acqua ed energia 1 milione di abitanti, secondo dati forniti dalla BBC.
Rifiuti e zero waste, un affare da first lady
Nel panorama ambientale turco, il tema dei rifiuti è diventato, negli ultimi anni, un affare da first lady. Emine Erdoğan ha fatto della campagna Zero Waste il proprio cavallo di battaglia, trasformandola in uno strumento politico, diplomatico e simbolico, come ricostruito di recente da The Guardian. “La Turchia è una nazione che si approccia al mondo con una prospettiva guidata dalla coscienza”, ha dichiarato su X la first lady il 30 marzo 2025 in occasione della Giornata internazionale dei rifiuti zero, tre giorni dopo aver tenuto un discorso alle Nazione Unite.
Lanciato nell’estate del 2017, il progetto punta a ripulire il paese partendo dalle case degli 85 milioni di cittadini turchi. “Zero Waste non è solo una campagna, è un’emozione”, titolava un giornale a Istanbul, come ricorda la testata britannica. Il problema, d’altronde, è evidente: con 35 miliardi di buste di plastica gettate ogni anno entro il 2010, e oltre il 90% dei rifiuti plastici finiti in discarica, nei fiumi o nel mare, la situazione turca era disastrosa.
Dietro la patina istituzionale, resta però invisibile l’esercito precario dei çekçekçi, circa mezzo milione di raccoglitori informali di rifiuti, spesso migranti, che assicurano l’80% del riciclo nazionale. L’identikit lo fornisce un’inchiesta di The Conversation. Senza contratto, senza accesso a sanità o tutele sociali, questi lavoratori sono indispensabili in un sistema dove la differenziata è ancora quasi inesistente. Eppure, la loro esistenza è messa a rischio proprio dagli sforzi di formalizzazione del sistema voluti dal governo.
In un clima di crescente nazionalismo alimentato dall’immigrazione afghana e siriana, i çekçekçi sarebbero sempre più bersaglio di stigma e criminalizzazione. Il paradosso è presto servito: mentre il progetto Zero Waste ottiene premi e visibilità internazionale, chi regge sulle spalle l’intero sistema continua a vivere ai margini, invisibile e indesiderato.
La tensione ideale verso l’Unione Europea
L’iter di adesione all’Unione Europea continua a rappresentare un paradosso nella politica ambientale turca. Come ricostruisce Seven Erdoğan, docente all’Università Recep Tayyip Erdoğan e visiting fellow a Graz, il disimpegno dell’UE ha privato Ankara di un impulso riformatore esterno, contribuendo allo “stallo” delle politiche climatiche proprio mentre aumentavano i disastri ambientali nel Mediterraneo. La Turchia ha ritardato per sei anni la ratifica dell’Accordo di Parigi, resta fortemente dipendente dai combustibili fossili e poco aperta alle istanze della società civile.
Un quadro confermato anche dalla relazione 2025 della commissione AFET del Parlamento sulle relazioni Turchia-UE, approvata il 9 aprile e base del voto che ha portato alla risoluzione non legislativa del 7 maggio. Nel documento si annuncia il divario tra dichiarazioni ufficiali e assenza di riforme concrete in materia di diritti e sostenibilità. Nonostante le ambizioni espresse — l’adesione all’UE come “obiettivo strategico” — la Turchia è oggi classificata da Freedom House come “paese non libero”. Ma quello dello stato di diritto non è l’unico nodo su cui si gioca, per il momento, l’allargamento europeo in Anatolia.
“Nulla di nuovo sotto il sole occidentale: da anni, ormai, il Parlamento europeo emette periodicamente dichiarazioni di questo tipo, in particolare a partire dal 2016. Il vero punto di svolta è stato il tentato colpo di stato del 15 luglio, dopo il quale il Parlamento europeo ha preso una posizione sempre più netta”, commenta Giannotta. “Di fatto, però, si tratta di dichiarazioni cosmetiche. Il processo di adesione della Turchia all’Unione Europea, iniziato ufficialmente nel 2005, è ancora formalmente aperto, ma è fermo da tempo, e non per motivi esclusivamente legati ai diritti umani. Quando il negoziato fu avviato, Erdoğan era primo ministro e godeva di un’immagine internazionale positiva, tanto da conquistare le copertine di importanti testate globali come ‘uomo dell’anno’. Tuttavia, già allora il percorso era segnato da un nodo irrisolto: la questione di Cipro. Nel 2004, l’intera isola è entrata a far parte dell’Unione Europea, ma di fatto solo la parte greco-cipriota rappresenta legalmente l’isola all’interno delle istituzioni comunitarie. Questo conferisce a Nicosia il potere di veto nei confronti del processo di adesione della Turchia. Persino se la Turchia fosse oggi guidata dal leader più democratico del pianeta — cosa che chiaramente non è — la situazione non cambierebbe.”
Si chiarisce così il significato della frase “l’Italia è ben consapevole del contributo della Turchia alla stabilità del Mediterraneo”, cioè quanto dichiarato dal presidente Erdoğan a Roma il 29 aprile scorso, lodando “l’approccio coraggioso” della premier Meloni. Un connotato che ora, nel dare attuazione agli accordi, indubbiamente servirà all’Italia per non cedere alle ombre e mantenere fede al blocco europeo.
In copertina: Ursula von der Leyen e Recep Tayyip Erdoğan durante l’incontro di dicembre 2024 al Palazzo presidenziale turco fotografati da Christophe Licoppe © European Union, 2024