L’intelligenza artificiale è diventata la protagonista indiscussa del decennio e lo sarà sempre di più nel futuro. Una tecnologia capace di rivoluzionare interi settori: dalla sanità alla finanza, dal manifatturiero all'agricoltura. Ma dietro l’apparente immaterialità di algoritmi e chatbot si nasconde un’infrastruttura fisica mastodontica, che richiede energia, acqua, suolo e materie prime in quantità tutt’altro che trascurabili. Un costo ambientale che, se non governato, rischia di contraddire gli obiettivi della transizione ecologica.
Ogni richiesta a un sistema di IA generativa, ogni immagine creata da un modello, è il risultato di calcoli complessi eseguiti in server farm distribuite in tutto il mondo. Questi data center, cuore pulsante del nuovo ecosistema digitale, sono vere e proprie fabbriche dell’era informatica: enormi capannoni che ospitano migliaia di processori, raffreddati senza sosta per evitare il surriscaldamento.
Il consumo energetico è solo la punta dell’iceberg. Perché, oltre all’elettricità, l’intelligenza artificiale richiede enormi quantità di acqua per i sistemi di raffreddamento, sottraendola a bacini idrici e falde già sotto stress a causa delle siccità prolungate e sempre più intense dovute al cambiamento climatico. E poi c'è l’impatto sul suolo per la costruzione delle infrastrutture, che sottrae terra alla produzione agricola già messa a dura prova dagli effetti del global warming. A ciò si aggiunge la gestione dell’enorme quantità di rifiuti elettrici ed elettronici, nonché la dipendenza da risorse minerarie rare – come litio, cobalto e terre rare – indispensabili per realizzare chip e batterie, la cui estrazione ha conseguenze pesanti sugli ecosistemi e sulle comunità locali.
Secondo stime di ricercatori indipendenti, l’addestramento di un singolo modello linguistico di grandi dimensioni può emettere quantità di CO₂ paragonabili a quelle di centinaia di voli transcontinentali. E non si tratta solo di emissioni: dietro ogni “nuvola digitale” si nasconde una filiera materiale che consuma risorse preziose, con un impatto che non può più essere considerato marginale.
Il problema non è solo quanta elettricità consuma l’IA, ma quante risorse nascoste brucia per far funzionare la macchina. Se il consumo diretto di energia e acqua da parte dei data center è ormai documentato e in qualche modo riconosciuto anche dai diversi rapporti di parte, molto meno chiaro è il quadro complessivo. I giganti digitali, da Google a Meta, fino a Microsoft, pubblicano report di sostenibilità che parlano di transizione green e obiettivi “water positive” entro il 2030. Ma cosa si nasconde dietro queste dichiarazioni? La risposta è che i dati raccontano solo una parte della verità.
Google, nel 2023, ha consumato circa 24 miliardi di litri d’acqua per raffreddare i propri data center: l’equivalente del fabbisogno idrico giornaliero di 110 milioni di persone (considerando il consumo medio pro capite italiano che si attesta intorno ai 220 litri), quasi due volte l’intera popolazione italiana. Un solo impianto in Iowa ha prelevato 3,8 miliardi di litri, quanto servirebbe per un mese a tutti gli abitanti di Milano.
Meta, pur con numeri inferiori, non è molto da meno: nel 2023 ha utilizzato 3,1 miliardi di litri, pari a ciò che 20 milioni di persone consumano in un giorno, mentre Microsoft nel 2022 ha toccato i 6,4 miliardi di litri, equivalenti al fabbisogno giornaliero di oltre 30 milioni di individui. Ma il punto cieco riguarda il consumo indiretto di risorse, quello che non compare nei bilanci ufficiali: l’acqua utilizzata non solo per il raffreddamento dei server, ma anche per produrre l’energia che li alimenta. Centrali a gas, carbone o nucleare – tuttora dominanti in molte aree del pianeta – sono tra le infrastrutture più idrovore del sistema energetico globale. Ogni kilowattora generato porta con sé un’impronta idrica significativa, che spesso non viene contabilizzata.
E se l’impatto nascosto è enorme, quello visibile lo è altrettanto. Dietro la corsa all’intelligenza artificiale non ci sono solo algoritmi, ma, come accetto in precedenza, una gigantesca infrastruttura fisica che lascia segni tangibili sul territorio. Ogni data center è una cittadella tecnologica che richiede ettari di suolo, linee elettriche dedicate e spesso interi bacini artificiali di acqua per il raffreddamento. Negli Stati Uniti, i nuovi poli digitali stanno trasformando paesaggi rurali in distese di capannoni metallici: in Iowa, per esempio, Google ha costruito campus da oltre mille ettari, con impatti sulla biodiversità e sull’uso agricolo delle terre.
Il problema non si ferma alla cementificazione. Ogni generazione di server dura in media tre o quattro anni, dopodiché deve essere sostituita per reggere la potenza di calcolo richiesta dai nuovi modelli. Il risultato è una montagna crescente di rifiuti elettronici, tra le tipologie più complesse da smaltire per la presenza di metalli pesanti e terre rare. Secondo il Global E-Waste Monitor 2024, nel 2023 il mondo ha prodotto 62 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, e il contributo del settore dei data center è in forte aumento. Una quantità che potrebbe raggiungere i 75 milioni di tonnellate entro il 2030, con tassi di riciclo ancora sotto il 20%.
Ed è proprio la presenza di terre rare, fondamentali per la produzione di chip e componenti elettroniche, a proiettare il fenomeno in una dimensione geopolitica. Neodimio, litio, cobalto: materie prime strategiche, difficili da estrarre e concentrate in poche aree del pianeta. La domanda esplosa con la transizione digitale, insieme a quella per la mobilità elettrica, sta alimentando una nuova “corsa all’oro” che ridisegna equilibri economici e politici.
Molti analisti definiscono le terre rare il “nuovo petrolio”. Perché chi controlla i giacimenti controlla il futuro dell’innovazione. La Cina oggi domina la catena di fornitura: estrae e raffina oltre il 60% delle terre rare mondiali e detiene un vantaggio strategico difficilmente colmabile. In Africa, Pechino ha rafforzato la propria influenza con investimenti miliardari nelle miniere di cobalto congolesi; in Sud America, la Bolivia è diventata il nuovo Eldorado del litio, al centro di contese commerciali e pressioni geopolitiche.
Gli equilibri globali si stanno spostando anche in Europa orientale: il Donbass, regione cruciale per la guerra in Ucraina, è ricco di minerali strategici. Per alcuni osservatori, le contese non riguarderanno solo confini e identità culturali e religiose, ma anche risorse indispensabili per le tecnologie del futuro. “Le guerre del Ventunesimo secolo potrebbero non essere combattute per il petrolio, ma per le terre rare», avverte un report dell’International Energy Agency.
Ma se l’impatto ambientale e geopolitico dell’IA solleva interrogativi sempre più urgenti, non si può ignorare l’altra faccia della medaglia: le stesse tecnologie che oggi divorano energia e risorse possono diventare strumenti chiave per ridurre sprechi e ottimizzare consumi. In agricoltura, per esempio, l’intelligenza artificiale è già utilizzata per l’irrigazione di precisione, capace di ridurre fino al 50% il consumo di acqua rispetto ai sistemi tradizionali. Nelle reti elettriche, gli algoritmi predittivi consentono di bilanciare domanda e offerta in tempo reale, integrando meglio le fonti rinnovabili e limitando le dispersioni. Anche nell’industria manifatturiera e nella logistica, l’IA promette di abbattere costi energetici e impronta di carbonio, se applicata con criteri di efficienza.
Ed è qui che si gioca la vera sfida: non una guerra ideologica tra sostenibilità e innovazione, ma una valutazione equilibrata dei costi e dei benefici, che consideri ogni dimensione, ambientale, sociale ed economica, senza pregiudizi. “Il principio guida deve essere la neutralità tecnologica”, sottolineano molti analisti. Significa misurare l’impatto reale di ogni soluzione e governarne gli effetti, senza cedere alla retorica o a innamoramenti ideologici. Perché, se è vero che la transizione digitale è ormai irreversibile, è altrettanto vero che non potrà essere sostenibile senza una reale integrazione con la transizione ecologica.
In copertina: immagine Envato
