Per risolvere un problema, bisogna prima di tutto essere in grado di quantificarlo. Alla regola non fanno eccezione le microplastiche, frammenti di plastica di dimensioni comprese tra i 330 micrometri e i 5 millimetri che finora sono state trovate ovunque: dal cuore umano fino alla cima delle montagne più alte del mondo.

Più le microplastiche sono piccole, più facilmente penetrano nei tessuti umani, nel sangue e successivamente nelle cellule. Inoltre, se vengono contaminate o contengono in origine una formulazione di composti dannosi per la salute, possono diventare agenti potenzialmente molto pericolosi per l’organismo umano. Ma come identificare in maniera univoca la dispersione in ambiente di questi microscopici frammenti di plastiche? D’ora in poi si potrà fare con la norma ISO 4484-2:2023.

Cos’è la norma ISO 4484-2 sulle microplastiche

Ribattezzata come la prima unità di misura per microplastic footprint a livello globale, la norma è un nuovo standard internazionale per misurare in maniera precisa e univoca le microplastiche rilasciate dal settore tessile, uno dei comparti più impattanti a livello globale. La maggior parte dei tessuti in commercio è infatti composta da plastica, ossia da fibre sintetiche quali poliestere, nylon, acrilico.

Pensata da Aquafil per offrire ai designer e stilisti la possibilità di creare in modo più circolare i propri abiti, la metodologia è frutto di un intenso lavoro di 5 anni che ha coinvolto il CNR di Biella STIIMA e la commissione tecnica tessile di UNI CT 046.

“Grazie a questa norma tecnica sarà finalmente possibile correlare in maniera sistematica gli effetti, cioè il rilascio di microplastiche, con le cause, come il processo produttivo o il tipo di tessuto – spiega a Materia Rinnovabile Tiziano Battistini, project leader di Aquafil – saranno raccomandati quindi quei materiali meno fragili e più tenaci, e processi meno stressanti”. Un esempio sono i trattamenti meccanici, termici e chimici che possono in qualche modo degradare le caratteristiche meccaniche dei tessuti e delle fibre rendendoli più fragili e quindi più frammentabili.

 

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L’ecodesign prima di tutto

Nel settore tessile sono diversi i fattori e i momenti che possono determinare la dispersione di microplastiche nell’ambiente: fase di produzione dei tessuti, utilizzo degli indumenti (da cui il rilascio per usura/abrasione), lavaggio e asciugatura, e il fine vita, quando i prodotti vengono abbandonati o destinati alle discariche frammentandosi.

Tuttavia prevenire e limitare la dispersione si può, soprattutto attraverso un’accurata progettazione dei vestiti. Secondo Aquafil le fibre sintetiche continue, per esempio, saranno meno propense al rilascio rispetto agli abiti a fibre corte. Causa usura e lavaggio, per esempio, i pile sono considerati tra i prodotti più impattanti perché sono prevalentemente fatti di fibre corte, microplastiche di forma fibrosa con dimensioni di lunghezza inferiore ai 15 millimetri.

“Certamente sarà necessario utilizzare sistemi di filtrazione nelle lavatrici oltre che nei depuratori delle acque reflue – aggiunge Battistini ‒ ma se si vuole davvero risolvere il problema serve agire a monte minimizzando il rilascio, cioè attraverso un corretto ecodesign dei capi, dei tessuti, dei processi di lavorazione e anche delle apparecchiature per lavaggio e manutenzione dei capi.”

Sul mercato esistono già diversi sistemi di filtrazione che promettono di intercettare più del 90% delle microplastiche dal lavaggio degli indumenti. Nonostante questo non è ancora chiaro come possano essere smaltiti i filtri senza provocare ulteriori fuoriuscite.

 

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Le potenzialità legislative

Oltre che uno standard di sostenibilità, la norma ISO 4484-2 può diventare anche un potente strumento legislativo. Per limitare il rilascio delle microplastiche, finora la Commissione europea poteva optare solo per specifici divieti a prodotti di consumo. Recenti sono le restrizioni sull’uso e la vendita di prodotti come il glitter, cosmetici e quei pezzetti di plastica che popolano i campi di calcetto sintetici.

Tuttavia per raggiungere l’obiettivo di riduzione dell’inquinamento da microplastiche del 30% entro il 2030, i divieti non bastano, oppure – come nel caso della moda – non sono percorribili. C’era tanta attesa per uno standard che fornisse da una parte a tutti i player del settore un’oggettiva e quantitativa valutazione ambientale e dall’altra a Bruxelles una sorta di “microplasticometro” che in futuro faciliti la legiferazione di limiti e regole per tutta la catena del valore tessile.

I Paesi ostili

Limitazioni che, viste le numerose parti coinvolte, non farebbero contenta la filiera. “Questa nuova metodologia andrà a toccare diversi interessi e mercati che dovranno riprogettare parte dei propri prodotti e processi – spiega Battistini – Sono stati diversi i Paesi contrari allo standard e ostili durante la validazione e approvazione della metodica.”

Tra le diverse motivazioni rientra anche “una corretta definizione” di microplastiche che, nel caso della norma ISO, risulta essere quella adottata dalla European Chemical Agency ma che secondo i Paesi contrari alla norma avrebbe dovuto essere meno estesa, “salvaguardando” determinati processi e prodotti da probabili limitazioni.

 

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Immagine: Envato