"Una cosa è giusta quando tende a preservare l'integrità, la stabilità e la bellezza della comunità biotica. È sbagliata se fa l'opposto", scriveva Aldo Leopold. Il pensatore statunitense, tra i padri dell'ambientalismo scientifico e insieme appassionato cacciatore, non aveva dubbi: a volte, quella cosa giusta può essere la caccia. 

Una riflessione che torna oggi con una proposta che prova a unire due mondi percepiti da parte dell’opinione pubblica come spesso in contrasto: caccia e conservazione. La Fondazione UNA (Uomo, Natura, Ambiente), ente del terzo settore che promuove la sostenibilità unendo mondi distanti come ambientalismo, agricoltura e caccia, propone di includere le aziende faunistico-venatorie tra le aree utili a raggiungere il traguardo “30x30” delle Nazioni Unite e della Strategia europea per la biodiversità, che mira a proteggere almeno il 30% delle terre e dei mari entro il 2030.

In quattro anni, per restare nei tempi, l’Italia dovrebbe estendere la tutela a 24.000 chilometri quadrati, l’8% del territorio: un’impresa impossibile senza coinvolgere aree che, pur non nate direttamente per la conservazione, custodiscono di fatto biodiversità: foreste certificate, siti gestiti dai monasteri, poligoni militari. E, forse, anche riserve di caccia.

La proposta di Fondazione UNA: la caccia come alleata della biodiversità

Nel tepore della capanna di caccia tra i boschi della Valtellina, Eugenio Carlini illustra i dati dell'azienda faunistico-venatoria Valbelviso-Barbellino, di cui è direttore scientifico. Fuori, nella nebbia di novembre, si intuisce il paesaggio che sale dai lariceti rossi d’autunno ai laghi glaciali di Torena e ai 3.000 metri del Pizzo Coca, fino alla diga del Barbellino, dove i camosci si arrampicano in cerca di salnitro.

L’azienda, attiva dal 1893, gestisce per lo più terreni comunali senza fini di lucro e ha mantenuto intatto per oltre un secolo un equilibrio ecologico raro. “Siamo l’azienda più grande e più antica d’Italia. Questi territori non sono mai stati sfruttati davvero, proprio grazie alla continuità della gestione”, spiega Carlini. Sui suoi 12.000 ettari ricade anche un sito Natura 2000, gestito dalla stessa azienda con piani di conservazione e monitoraggi costanti.

Qui vivono quasi tutte le specie tipiche delle Alpi, dai camosci ai galli forcelli, fino a stambecchi, aquile reali e lupi, tornati stabilmente dal 2002. Negli anni Settanta, l’azienda contribuì al ritorno del camoscio lombardo, allora presente solo nello Stelvio e qui. Dieci guardacaccia vigilano sul bracconaggio, censiscono la fauna e curano la manutenzione ambientale.

Sono state realtà come la Val Belviso a ispirare la proposta della Fondazione UNA, presentata all'ultimo congresso della IUCN, la più importante organizzazione mondiale sulla conservazione della natura, lo scorso ottobre ad Abu Dhabi insieme a Federparchi e AB-Agrivenatoria Biodiversitalia.

L’iniziativa chiede che le aziende faunistico-venatorie gestite in modo sostenibile siano riconosciute come OECM (Other Effective area-based Conservation Measures): aree non formalmente protette, ma capaci di garantire risultati reali per la biodiversità, ed essenziali per raggiungere il fatidico 30% di aree sottoposte a protezione entro il 2030. “Con questa proposta vogliamo essere pionieri in Italia ed Europa: le aziende faunistiche che hanno programmi di conservazione precisi possono essere riconosciute come oasi di biodiversità”, afferma Pietro Pietrafesa, segretario generale di UNA.

“Il riconoscimento come OECM rappresenta una grande opportunità per il settore venatorio e un contributo concreto agli obiettivi della Strategia europea e nazionale per la biodiversità”, aggiunge Marina Berlinghieri, responsabile delle relazioni istituzionali di Fondazione UNA. Colmare la distanza tra mondo venatorio e tutela ambientale è da sempre al centro delle attività della Fondazione. “Soprattutto nelle aree di montagna, i cacciatori sono paladini del territorio: presidiano luoghi dove non arriva nessuno, esercitando una gestione che diventa anche conservazione, in sinergia con istituzioni e comunità locali.”

La partita aperta delle OECM

In Italia le aree protette coprono circa il 22% del territorio: il 12% ricade in parchi e riserve naturali, mentre il resto − al netto delle sovrapposizioni − appartiene alla Rete Natura 2000, che comprende 2.299 siti di importanza comunitaria (SIC) e 609 zone di protezione speciale (ZPS). Un dato superiore alla media europea, ma ancora lontano dal fatidico 30% da tutelare entro il 2030.

Pensare di colmare il divario solo con nuovi parchi è irrealistico: servirebbero procedure lunghe, vincoli, risorse ingenti e compromessi difficili. Per questo la possibilità di ricorrere alle OECM, le “altre misure efficaci di conservazione basate su area”, è ormai ampiamente riconosciuta. Ma se i requisiti generali sono stati fissati a livello internazionale sin dal 2018, manca ancora una legge che ne definisca criteri e modalità di riconoscimento.

Mentre dal mondo ambientalista arrivano le prime proposte di legge, istituzioni e comunità scientifica lavorano per individuare le aree potenzialmente idonee: dai boschi gestiti da monasteri ai geoparchi, da alcune aree militari alle foreste certificate.

In questo mosaico, anche le aziende faunistico-venatorie potrebbero offrire un contributo inatteso. "Già la legge 157 del 1992 che regolamenta la caccia riconosce e istituisce le aziende faunistico-venatorie in aree di particolare interesse naturalistico. Questo presupposto garantisce − almeno sulla carta, ovviamente serviranno accurate verifiche − che abbiano caratteristiche adatte", spiega Corrado Teofili di Federparchi, che ha presentato l'iniziativa con UNA a Abu Dhabi. “Complessivamente le riserve faunistiche rappresentano un importante tassello per la conservazione della biodiversità, favorendo la connettività ecologica tra aree protette e contribuendo alla vitalità degli ecosistemi locali. Un modello replicabile anche in altri paesi.”

 

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In copertina: foto di Fondazione UNA