Il 4 novembre è entrata in vigore la nuova disciplina sulla qualifica di rifiuto inerte da attività di costruzione e demolizione. Un provvedimento con il quale il Ministero della Transizione Ecologica vorrebbe normare l’articolato e complesso mondo edilizio, introducendo stringenti criteri ambientali su rifiuti come sabbia, ghiaia, conglomerati cementizi, macerie e tanto altro. La norma però rischia di creare un cortocircuito: i requisiti ambientali troppo severi non permettono il riciclo di tanti aggregati.

I rifiuti inerti che rischiano di restare fuori dall’End of Waste

Secondo i dati di ISPRA, il settore del recupero inerti gestisce circa il 48% dei rifiuti speciali prodotti a livello nazionale e nel 2021 ha raggiunto il 78% di recupero della materia, superando il target del 70% fissato dalla Direttiva europea.
Dati sicuramente positivi che però potrebbero essere minacciati dal nuovo regolamento. Doveroso chiedersi
se parametri ambientali e sanitari stringenti possano convivere con i più larghi criteri di riciclabilità voluti dalla filiera del riciclo. Materia complessa, tanto che il Mite ha annunciato un “tagliando”, frutto delle interlocuzioni con il Consiglio di Stato avvenute il 10 maggio, che tenga conto di tutte le complessità. Più che tagliando si tratta di un vero e proprio time-out cestistico: c’è bisogno di tempo per rivedere i criteri.
Un esempio della controversia sono i parametri stabiliti per gli
aggregati inerti da riciclo, in particolare quelli relativi ai limiti di concentrazione per cloruri e solfati, che secondo il parere del Consiglio potrebbero avere un’incidenza negativa sulla filiera del riciclo. L’esito della consulenza è chiaro: Da una parte ci deve essere prudenza nel giudicare i potenziali effetti sulla salute umana di queste sostanze, dall’altra non dimenticare che si tratta di aggregati riciclabili e che mandarli in discarica non sarebbe una soluzione circolare.
Sul banco degli imputati sale quindi la metodologia dei criteri di monitoraggio. Secondo ANPAR, associazione nazionale che produce aggregati riciclati “la norma non tiene conto dei diversi usi a cui gli aggregati sono destinati, in contrasto con le norme di prodotto UNI che ne regolano gli impieghi”.
I limiti di concentrazione di sostanze come il cromo esavalente sono parametrati - senza distinzioni - a quella dei suoli sottoposti a bonifica destinati a zone residenziali o al verde. Ma questi valori non corrispondono all’impiego prevalente degli aggregati riciclati, utilizzati per oltre il 90% in opere infrastrutturali.

Il regolamento End of Waste che disincentiva il riciclo

Un decreto End of Waste che quindi negli ultimi mesi ha sollevato un polverone di dubbi dalle filiere coinvolte. ANPAR, ANEPLA e NADECO hanno firmato insieme un comunicato stampa che lancia un allarme sulle pesanti ricadute gestionali della norma: “circa l’80% dei rifiuti inerti, oggi recuperati, sarà destinato alla discarica (circa 32 milioni di tonnellate di rifiuti inerti non pericolosi), senza contare l’impatto occupazionale, con migliaia di addetti che perderanno il loro impiego, e quello economico, con centinaia di milioni di fatturato persi nella filiera del riciclo”.
Anche il
Laboratorio REF Ricerche ha voluto commentare la situazione: “L’aver scelto di alzare eccessivamente l’asticella del principio di precauzione e della tutela ambientale disincentiva ulteriormente la produzione e l’impiego degli aggregati riciclati. Forse in nessun altro caso come per i rifiuti C&D, le contraddizioni e i paradossi rinnovano il conflitto tra il mondo dei rifiuti e il mondo dei materiali”.
A inizio 2023, i 1800 impianti presenti sul territorio nazionale che ogni anno recuperano come materia più di 40 milioni di tonnellate di rifiuti da costruzione e demolizione, non potendo produrre prodotti conformi alla norma, saranno costretti a cessare la propria attività. Il regolamento che doveva essere End of Waste rischia già di finire in discarica insieme agli aggregati inerti riciclabili.

Immagine: Kerry Rawlinson (Unsplash)