Sono macro temi – dalla finanziarizzazione dell’economia alle ecomafie – su cui è in corso un dibattito articolato che in questo numero di Materia Rinnovabile non è possibile affrontare. Ma il focus sul remanufacturing consente di fare il punto su uno dei principali strumenti che abbiamo a disposizione per contrastare la proliferazione incontrollata dei rifiuti. L’articolo di Guido Viale offre una panoramica sui valori in gioco e sulla necessità di creare meccanismi industriali a sostegno della riprogettazione della vita degli oggetti che ci circondano. Fabio Iraldo, Irene Bruschi e Gianni Silvestrini mettono a fuoco la convenienza del processo di recupero dei beni dal punto di vista del risparmio energetico (fino al 90%), del minor consumo di acqua, dei costi finali (dal 35 al 90% inferiori rispetto alla fabbricazione ex novo), dell’occupazione (alla fine del prossimo decennio in Europa si potrebbero guadagnare 175.000 posti di lavoro), dei prezzi (del 20-50% inferiori rispetto al prodotto non rigenerato). Ed Edo Ronchi, presidente della Fondazione per lo sviluppo sostenibile, parla di “misure che genereranno benefici e opportunità di mercato per le imprese”.

Specchiandoci nei rifiuti osserviamo il profilo della nostra società e possiamo scoprire come migliorarla. Non si tratta soltanto di aumentare la percentuale della raccolta differenziata e neppure quella del riciclo. Il punto essenziale è la natura articolata dell’idea di remanufacturing. Stiamo parlando di un ripensamento del sistema produttivo nel suo complesso che richiede un assieme di interventi: migliorare l’ecodesign dei beni venduti per rendere più semplice la battaglia contro lo spreco; mantenere il contenuto informativo di alcune merci (che è maggiore della somma delle componenti); organizzare un sistema articolato di rialimentazione della catena produttiva che coinvolga l’intera società; rivedere il sistema fiscale in modo da premiare i processi virtuosi applicando l’elementare principio “chi inquina paga” e liberando risorse economiche da investire per favorire il lavoro.

Tutto ciò porterebbe a vantaggi concreti: diminuzione dell’impatto ambientale della produzione anche in termini di riscaldamento climatico; aumento della sicurezza perché si garantisce l’approvvigionamento di materie che per vari motivi (dall’instabilità dei prezzi alle tensioni geopolitiche) potrebbero non essere più disponibili; crescita della consapevolezza collettiva e della coesione sociale; sinergia con i processi di sharing economy. È quello che la presidente di Legambiente Rossella Muroni definisce “rivoluzione copernicana” perché mette in crisi il rapporto monodirezionale tra produttore e consumatore e apre le porte a un processo simile a quello delineato, nel campo dell’energia, dalla generazione distribuita: un modello di sviluppo orizzontale che assicura benefici anche dal punto di vista del riequilibrio sociale.

Ma per raggiungere questi obiettivi serve una cornice normativa che incoraggi il processo. E sotto questo profilo c’è da registrare una fase di appannamento della visione europea che per qualche decennio ha dato al Vecchio Continente la leadership delle politiche ambientali. Il pacchetto sull’economia circolare è stato ripresentato dalla Commissione Juncker in una versione sbiadita rispetto alla proposta della precedente Commissione.

La palla passa ora al Parlamento europeo dove si annuncia battaglia. Registriamo il parere critico di Simona Bonafè, relatrice del pacchetto sull’economia circolare, che parla di mancanza di ambizione, lo stesso termine utilizzato dalla responsabile ambiente del Pd, Chiara Braga. La versione Juncker ha ridotto gli obiettivi di riciclo; ha eliminato gli obblighi anti spreco; ha diminuito il peso delle misure anti discarica; ha indebolito l’obbligo di raccolta separata della frazione organica; non ha previsto norme specifiche per l’eliminazione dai prodotti delle sostanze tossiche che impediscono il riciclo. Il dibattito all’europarlamento è l’occasione giusta per far sentire la voce degli eletti dai cittadini europei e dimostrare che l’Unione non è il notaio delle tasse ma l’anima del continente.