Oltre 1.270 miliardi di euro di valore della produzione e 7 milioni di lavoratori. Sono i numeri della bioeconomia nei cinque maggiori paesi dell’Unione europea (Germania, Francia, Italia, Regno Unito e Spagna), secondo l’indagine “La bioeconomia in Europa” condotta dal Centro Studi di Intesa Sanpaolo, il maggior gruppo bancario in Italia e uno dei maggiori in Europa, in collaborazione con l’Associazione italiana per lo sviluppo delle biotecnologie (Assobiotec). L’analisi, alla sua seconda edizione, è stata presentata lo scorso dicembre a Torino e ci consegna una fotografia del valore della bioeconomia in ciascuno dei cinque paesi presi in esame. Una fotografia che per il settore chimico è in parte reale e in parte solo potenziale: infatti non tutti i composti chimici che potrebbero essere prodotti già oggi da risorse biologiche lo sono effettivamente. 

Come spiegano le due autrici del Rapporto, Stefania Trenti e Serena Fumagalli, “per quanto riguarda agricoltura, silvicoltura, pesca, alimentare e industria del legno e della carta le statistiche ufficiali mettono già a disposizione i principali dati sul valore della produzione e dell’occupazione e sul commercio con l’estero. Più complesso, invece, è stato stimare il contributo fornito dal settore chimico. L’analisi si è avvalsa perciò del supporto fondamentale di un chimico esperto in biotecnologie, a cui abbiamo chiesto di individuare dei prodotti di matrice chimica che possono potenzialmente essere realizzati attraverso l’utilizzo di risorse rinnovabili, sulla base delle tecnologie attualmente esistenti. Ciò ci ha consentito, basandoci sul massimo livello di disaggregazione disponibile, di isolare non tanto quanto è attualmente prodotto con materie prime rinnovabili quanto piuttosto il potenziale producibile, in modo economicamente sostenibile, con la tecnologia attualmente disponibile”.

Nel dettaglio dell’analisi è emerso che la Germania si conferma paese leader nella bioeconomia europea, con un valore della produzione di oltre 343 miliardi di euro e 1,847 milioni di addetti. Alle sue spalle, la Francia con 295 miliardi e 1,51 milioni di occupati, l’Italia con 244 miliardi e 1,54 milioni, la Spagna con 219 miliardi e 1,24 milioni e il Regno Unito con circa 171 miliardi di euro e 888.000 addetti.

“Il nostro studio – sottolineano le autrici – fa emergere la rilevanza della bioeconomia in Spagna, dove raggiunge l’11,9% del valore della produzione nazionale. Un peso significativo che è frutto soprattutto del settore agricolo e alimentare, ma anche della produzione di biochemicals che risulta più elevata rispetto alla media dei cinque paesi Ue. Discorso analogo si può fare per Francia e Italia, dove viene registrato un peso della bioeconomia sulla produzione totale del 7,9%, legato alla filiera agroalimentare. Spagna e Francia risultano, inoltre gli unici paesi a evidenziare un saldo positivo significativo di commercio con l’estero per il complesso dei prodotti della bioeconomia, grazie soprattutto alla dinamica del settore agro-alimentare: 10,6 miliardi il saldo francese, 9,1 miliardi quello spagnolo. In terreno positivo – spinta dai settori manifatturieri – anche la Germania con 853 milioni. Mentre Italia e Regno Unito registrano un saldo negativo, rispettivamente di 13,2 e 35,4 miliardi”.

“Da notare – spiegano le autrici dell’indagine – come il peso della biochimica sul totale della produzione chimica dei diversi paesi vari da un minimo del 29,8% del Regno Unito a un massimo del 40% circa per Francia e Italia. Ma ricordiamo che si tratta non tanto del valore delle produzioni esistenti (ancora limitate e in molti casi ancora allo stato sperimentale) quanto di ciò che potenzialmente si potrebbe produrre a tecnologia già presente ed economicamente sostenibile”.

Inoltre, l’indagine di Intesa Sanpaolo prende in considerazione le statistiche internazionali sul commercio estero di prodotti della bioeconomia, così come classificati dal Centro Studi della banca italiana. Nel 2014 le esportazioni mondiali ammontavano a 2.396 miliardi di dollari, ovvero il 12,6% del commercio globale, una quota in netta espansione rispetto al 9,8% del 2007. I prodotti alimentari, con circa 1.115 miliardi, pesano per il 46,6% circa sul totale delle esportazioni. E la filiera agroalimentare nel suo complesso raggiunge i due terzi del totale, seguita dai biochemicals che pesano per il 14,5% delle esportazioni. 

Tra i principali esportatori – scrivono Trenti e Fumagalli – figurano gli Stati Uniti, stabili al primo posto con una quota del 10,9%, la Germania (7,5%) e l’Olanda (6,6%), in recupero sul 2010. Si posiziona al quarto posto la Cina, con una quota di circa il 6%, superando la Francia scesa al 5% dal 5,5% del 2010. Seguono Brasile, Canada, Belgio, Spagna. L’Italia, risulta il decimo esportatore mondiale con una quota del 3% circa, evidenziando solo un lieve ridimensionamento rispetto al 2010. Seguono poi alcuni paesi emergenti del Far East, come Thailandia e Indonesia, con una quota del 2,3 e 2,2% rispettivamente. Oltre alla Cina, si osserva un incremento delle quote di mercato anche per India e Polonia. 

In sintesi, nel periodo 2010-2014 il quadro dei principali esportatori mondiali nel settore della bioeconomia è rimasto sostanzialmente immutato, con la sola eccezione del balzo della Cina.

Sul fronte import, la Cina è stata nel 2014 il principale importatore mondiale con una quota vicina al 10% delle importazioni complessive, in netta crescita rispetto al dato del 2008. Seguono i paesi più industrializzati con percentuali in calo, salvo Usa e Olanda. Al ridimensionamento delle quote della maggior parte dei paesi maturi si contrappone la crescita di quelli emergenti: oltre alla Cina anche il Messico, la Corea del Sud, Hong Kong e l’India. 

L’indagine considera nello specifico il mercato mondiale dei prodotti chimici originati da risorse biologiche anche solo potenzialmente. In questo comparto Usa e Germania appaiono come gli attori principali, con elevate quote sulle esportazioni mondiali (rispettivamente pari a 13,3 e 11,2%). Per entrambi i paesi emerge un saldo commerciale positivo. In disavanzo, invece, la Cina, che con 55,4 miliardi di dollari di import, si posiziona al primo posto evidenziando un saldo commerciale negativo di 42 miliardi di dollari.

Tra gli esportatori buono il posizionamento di Belgio, Olanda e Francia, mentre l’Italia è dodicesima, con una quota di mercato del 2,7% e un deficit pari a 3,5 miliardi di dollari nel 2014.

 

 

La chimica biobased oggi

Resta da chiarire quanto è reale e quanto è potenziale la chimica biobased. L’Ocse stima che nel 2030 il 35% dei prodotti chimici e dei materiali deriverà da fonti biologiche. Ci troviamo perciò nel mezzo del cammino. Tra i composti chimici già oggi sviluppati grazie all’impiego di biomassa, molti appartengono alla categoria degli acidi. E tra questi, quello che vede più progetti in corso è l’acido succinico, con protagonisti Reverdia (joint venture tra Royal Dsm e Roquette) con uno stabilimento in Italia a Cassano Spinola, Succinity GmbH (joint venture tra Basf e Corbion Purac) con un impianto produttivo a Montmelò in Spagna e BioAmber con uno stabilimento in Canada nella regione della Sarnia. L’acido succinico è stato sempre prodotto dal petrolio o dal gas naturale: viene utilizzato in ambito farmaceutico, alimentare e nella produzione di polimeri a elevate prestazioni, quali resine alchidiche e poliesteri per vernici. Reverdia, il cui acido succinico Biosuccinium è stato certificato negli Stati Uniti come 99% biobased, si sta focalizzando sul suo impiego per ottenere 1,4 butandiolo (Bdo), resine poliuretaniche e biopolimeri come il polibutilene succinato (Pbs), che sono materiali destinati a vernici e coating, plastiche per interni auto e usi tessili.

Nel campo dell’1,4 butandiolo (Bdo) biobased, componente essenziale dei prodotti biodegradabili nel settore del coating, degli adesivi e degli elastomeri (pneumatici), sono attive anche Basf – in partnership con l’americana Genomatica – e Novamont. Attualmente la società chimica tedesca produce 1,4 butandiolo a Ludwigshafen (Germania), Geismar (Louisiana, Usa), Chiba (Giappone), Kuantan (Malesia) e Caojing (Cina), con una capacità produttiva complessiva annua di 650.000 tonnellate. Il bio-butandiolo viene utilizzato da Basf per arrivare a un politetraidrofurano biobased (Poli-THF® 1000) impiegato nel settore tessile per sviluppare fibre sintetiche elastiche utilizzate nell’abbigliamento sportivo, nautico e biancheria intima. E anche come base chimica per produrre poliuretano termoplastico, usato negli scarponi da sci, nelle suole delle scarpe e nell’industria automobilistica. 

Novamont, attraverso la propria controllata Mater Biotech, ha in corso la riconversione di una fabbrica chimica dismessa nel nord-est del paese in un impianto per la produzione di bio-butandiolo.

 

La società che ha il proprio quartier generale a Novara, attraverso Matrìca (joint venture con Eni-Versalis) in Sardegna produce da risorse biologiche acido azelaico e acido pelargonico. Il primo è un costituente base delle plastiche rinnovabili e/o compostabili, oltre che intermedio nella produzione di plastificanti per il Pvc o nella sintesi di esteri complessi utilizzati nel settore della lubrificazione. Il secondo – l’acido pelargonico – viene utilizzato come intermedio nella sintesi di biolubrificanti e di emollienti per il settore cosmetico, ma è anche un’importante materia prima nella produzione di candeggianti e di fragranze per alimenti. Inoltre è un’erbicida di origine naturale e – come tale – utilizzato nella formulazione di fitosanitari.

Secondo il Dipartimento dell’Energia Usa l’acido levulinico è uno dei principali biochemicals del futuro. A sviluppare acido levulinico da biomasse è l’italiana GF Biochemicals, che nel proprio stabilimento di Caserta, nel 2015 ne ha prodotte 2.500 tonnellate e punta a raggiungere nel 2019 una capacità produttiva di 50.000 tonnellate. Se attualmente il costo al chilo dell’acido levulinico da petrolio si aggira intorno ai 4-5 dollari, l’obiettivo dell’azienda italiana è di poter offrire nel giro di pochi anni l’acido levulinico biobased a un dollaro al chilo. Numerose le sue applicazioni: come intermedio chimico è impiegato nei settori della detergenza, della cura personale, della farmaceutica, delle plastiche, del coating, degli aromi e fragranze, dell’alimentare, dove agisce come regolatore del pH per gli ingredienti e inibisce la crescita dei microbi. 

 

Diversi sono anche i polimeri già sviluppati da fonti biologiche. Uno di questi è il polietilene furato (Pef) 100% biobased dell’olandese Avantium, grazie alla propria tecnologia YXY, atteso sul mercato entro il 2020. Il Pef ha grandi opportunità nel mercato odierno, soprattutto per il confezionamento alimentare prestandosi alla realizzazione di vaschette, vassoi e contenitori per carni, frutta, formaggi e yogurt. In questo senso Avantium ha già accordi con colossi del calibro di Coca-Cola e Danone.

 

Secondo Rapporto Intesa Sanpaolo Assobiotec “La bioeconomia in Europa”, dicembre 2015, tinyurl.com/z2l9vaq

  


 

Intervista a Massimiano Tellini, responsabile del progetto per l’Economia circolare di Intesa Sanpaolo

a cura di Mario Bonaccorso

 

Ridisegnare i modelli di business

 

“L’economia circolare – che in sostanza è un nuovo paradigma di sviluppo svincolato dallo sfruttamento delle risorse naturali esauribili – è oggi una nuova frontiera, senza dubbio ambiziosa. Essa pone la sostenibilità al centro delle strategie di crescita del futuro. E dunque richiede, anche alle imprese, di ridisegnare i propri modelli di business. Ecco quindi il ruolo centrale che un Gruppo come il nostro, impegnato nel supporto alle imprese e all’economia reale, sente la responsabilità di giocare a sostegno degli ingenti sforzi finanziari che la transizione verso questo nuovo paradigma richiede. E siamo pronti a fare la nostra parte.” È quanto dichiara Massimiano Tellini, responsabile del progetto per l’Economia circolare di Intesa Sanpaolo, il maggior gruppo bancario italiano e uno dei principali a livello europeo, in questa intervista esclusiva con “Materia Rinnovabile”. Lo scorso dicembre la banca che divide il proprio quartier generale tra Milano e Torino ha reso noto di essere diventata Global Partner della Fondazione Ellen MacArthur. Un ruolo che vedrà Intesa Sanpaolo al fianco della Fondazione per ridefinire le strategie di business in cerca di nuove opportunità e per assicurare investimenti finalizzati a ridisegnare il sistema industriale. 

 

Ma cosa c’entra una banca come Intesa Sanpaolo con l’economia circolare?

“Da sempre il Gruppo Intesa Sanpaolo porta avanti concretamente il proprio impegno di responsabilità sociale e ambientale. Come ha di recente sottolineato il nostro Amministratore delegato, Carlo Messina, dal 2007 al 2014 abbiamo favorito investimenti per l’ambiente e le fonti rinnovabili con oltre 11 miliardi di euro. Intesa Sanpaolo ha inoltre dedicato, nel 2014, oltre il 2,3% del totale delle proprie erogazioni al sostegno di energie rinnovabili e ai settori dell’agricoltura e della tutela ambientale. A conferma del nostro impegno per un’economia sempre più sostenibile.

Da poco più di un anno il Gruppo ha istituito, a diretto riporto dell’Ad, la figura del Chief Innovation Officer (Cio, ndr), impegnata nella diffusione a livello di Gruppo dei trend d’innovazione più rilevanti per il nostro business e per quello dei nostri clienti. Proprio grazie alla leadership del Cio, Maurizio Montagnese, il Gruppo ha deciso di approfondire le implicazioni di business legate all’economia circolare e ha saputo costruire un rapporto privilegiato con uno degli attori più rilevanti su questo tema a livello globale, la Fondazione ideata e presieduta dalla leggendaria velista Ellen MacArthur. Ecco perché una banca come Intesa Sanpaolo è oggi impegnata sul tema della Circular Economy: per noi rappresenta un’indiscutibile opportunità d’innovazione strategica per le imprese e, come tale, abbiamo la responsabilità di monitorarne e facilitarne la diffusione negli ambiti più rilevanti della nostra attività.” 

 

In termini concreti cosa significa essere Global Partner della Ellen McArthur Foundation?

“Essere Financial Services Global Partner ci attribuisce un ruolo esclusivo a livello globale coerente con le nostre ambizioni e dà la cifra della responsabilità che riteniamo opportuno assumerci. Ovvero, essere fra gli attori sistemici in grado di sostenere nel nostro comportamento aziendale (sia verso l’interno sia verso l’esterno) tutti gli sforzi che i nostri stakeholder rilevanti riterranno opportuno mettere in campo per favorire la transizione verso modelli circolari di creazione del valore.

In termini concreti, a livello interno, il Gruppo sta avviando un percorso di analisi delle proprie Procurement Policy teso a identificare le aree che potrebbero essere oggetto di ulteriore evoluzione, grazie a processi di miglioramento dell’efficienza nell’utilizzo delle risorse. Anche se sappiamo di essere già tra i leader a livello internazionale in questi ambiti, come riconosciutoci a Davos nel 2014, e l’unica azienda italiana tra le prime 100 al mondo. 

A livello esterno, nel perseguimento della missione a sostegno dello sviluppo di ecosistemi d’innovazione orientati all’economia circolare, stiamo studiando soluzioni di supporto alle start-up che decidano di operare in questo ambito. Stiamo anche valutando programmi di cooperazione con le amministrazioni pubbliche per verificare obiettivi comuni e definire possibili programmi di intervento che facilitino l’implementazione di soluzioni innovative e condivise. Sono solo due esempi, ma danno l’idea di quanto ampio sia lo spazio di opportunità che una visione nuova e sistemica come quella della Circular Economy apre a tutti gli operatori impegnati a sostegno dello sviluppo condiviso e sostenibile nel lungo periodo.” 

 

Fondazione Ellen MacArthur e McKinsey ci dicono che con l’economia circolare l’Ue potrà avere un beneficio netto di 1.800 miliardi di euro da qui al 2030, veder crescere il reddito medio delle famiglie di 3.000 euro e incrementare il Pil dell’11%, rispetto al 4% delle previsioni attuali. Come sarà possibile tutto ciò?

“Sono numeri importanti che aiutano a comprendere la rilevanza delle opportunità e la dimensione della responsabilità che il mondo del business e della finanza hanno davanti in un contesto storico che si preannuncia irripetibile. Per restare ai numeri, il trilione e 800 miliardi di euro citati sono riferiti al risparmio di costi operativi che le imprese manifatturiere in Europa possono conseguire fino al 2030 grazie a un approccio Circular. Basato, cioè, su tre driver precisi: (a) utilizzo esclusivo di energie rinnovabili; (b) re-design di processi e prodotti con l’introduzione di componenti modulari e smontabili per facilitarne la rigenerazione; (c) ambizione di arrivare gradualmente a zero rifiuti. 

E si badi che sono stime comunque prudenziali, ovvero riferite alle imprese di soli tre settori industriali quali l’alimentare, le costruzioni e l’automotive. La ragione per la quale questi sono i tre settori individuati è che essi cumulano in media circa il 60% della spesa media di un cittadino europeo di oggi. In prospettiva, un orizzonte così delineato lascia intravedere le dinamiche capaci di originare il risparmio di cui godranno anche le famiglie europee, altro dato rilevante per tutti noi cittadini europei. 

Siamo quindi tutti chiamati a partecipare alla costruzione di un nuovo modello di sviluppo che sappia premiare gli imprenditori più innovativi e le famiglie curiose di ripensare i propri modelli di consumo e fruizione di servizi.”  

Le banche europee sono state accusate in questi anni di crisi di non supportare con finanziamenti adeguati il sistema delle imprese. Oggi voi vi presentate come la banca dell’economia circolare. Come avete in mente di finanziare le imprese? 

“Durante gli anni della crisi Intesa Sanpaolo non ha mai fatto mancare il proprio sostegno all’economia reale. Abbiamo continuato a erogare credito a medio e lungo termine a famiglie e imprese: 27 miliardi nel 2014, che sono ulteriormente cresciuti fino a 40 miliardi nel 2015.

Qui credo sia premiante evidenziare, seppure in estrema sintesi, un aspetto che aiuta a comprendere la portata della novità rappresentata dalla Circular Economy. La crisi che dal 2008 ha attraversato tutte le economie industrializzate è, di fatto, una crisi di paradigma. Ha infatti messo in seria discussione le dinamiche alla base dell’attuale modello economico, contribuendo a generare crescente incertezza sui processi di acquisto di materie prime sui mercati mondiali. La variabilità dell’andamento dei prezzi, unita alle tensioni geopolitiche in aree del pianeta considerate strategiche per l’approvvigionamento di intere filiere produttive, ha iniziato a impattare negativamente sui bilanci di imprese di dimensioni rilevanti. E se consideriamo i contestuali danni ambientali generati da uno sviluppo industriale incentrato sulla logica del consumismo, capiamo quanto difficile sia il contesto di riferimento in cui gli operatori economici hanno dovuto lavorare in questi anni. 

Ora, la ripresa economica che sta iniziando a dispiegare i suoi primi effetti positivi rappresenta però allo stesso tempo un’ineguagliabile opportunità. Ed è qui che, a mio avviso, entra in gioco la soluzione offerta dall’economia circolare. Essa consente alle imprese di slegare le proprie attività da rischi di approvvigionamento crescenti e di ‘mettere in sicurezza’ il proprio core business attraverso una ridefinizione degli obiettivi strategici e dei modelli di business conseguenti. E qui il legame con la bioeconomia credo sia centrale.”

 

In sostanza qual è il ruolo della banca? Che tipo di sostegno sarete in grado di dare alle imprese più innovative della bioeconomia?

“Facciamo riferimento all’industria chimica, che in questi anni ha dimostrato di saper guardare oltre la crisi, proprio grazie allo sviluppo di imprese impegnate sulla frontiera della bioeconomia, amiche della natura e legate al territorio, impegnate nell’affermazione di un nuovo modello imprenditoriale di filiera, sostenibile e innovativo. A inizio novembre, la Commissione Ue ha ospitato il summit europeo per il sostegno finanziario al settore, brillantemente documentato dalla vostra rivista. Proprio in quella sede, il Commissario europeo all’agricoltura, Phil Hogan, ha invitato tutti gli operatori della bioeconomia a considerarla come il ‘motore verde della Circular Economy’. 

Credo che questo invito da solo sia sufficiente a comprendere il grande impegno che verrà richiesto alle istituzioni finanziarie. E il nostro Gruppo intende fare la propria parte. Su questo tema, ricordo il supporto che forniamo costantemente alle imprese che puntano sull’innovazione come, tanto per citare un nome, il gruppo Novamont. Con loro siamo al lavoro proprio in questi giorni per l’individuazione di attività congiunte a sostegno della bioeconomia, non solo in Italia.”

 

Sul tema dell’economia circolare, l’Unione europea ha cominciato a muovere i primi passi. Come li giudica?

“In questi mesi la Commissione Ue ha dimostrato una vera leadership sul tema della bioeconomia, culminata con la conferenza di novembre. Ma anche sulla Circular Economy sta dimostrando la stessa determinazione a garantire all’Europa un ruolo di leadership. Personalmente sono propenso a inquadrare in questo contesto anche il recente esito della conferenza Cop21 di Parigi. Non a caso, proprio il Presidente della Banca europea degli investimenti, Werner Hoyer, in vista di Cop21, ha insistito perché l’economia circolare fosse considerata come una delle proposte politiche distintive della Ue al tavolo del negoziato.

Negli stessi giorni e con ancor più convinzione, in occasione dell’emanazione del Circular Economy Package, Frans Timmermans (primo Vicepresidente della Commissione Ue) ha avuto modo di affermare che il modello dell’economia circolare rappresenta per l’Unione europea ‘il solo modello di sviluppo che abbia senso nel medio-lungo periodo’. Se dunque è ancora troppo presto per dire se l’Europa saprà davvero cogliere appieno le opportunità offerte dall’economia circolare, credo sia però indiscutibile la responsabilità che ciascuno di noi ha oggi, nell’ambito di uno sforzo collettivo a livello internazionale, nel costruire una nuova storia di successo.”

 

 

Ellen MacArthur Foundation, www.ellenmacarthurfoundation.org/