È la tecnologia di punta. Quella che abbiamo sempre in mano, divisi tra l’innamoramento per l’innovazione dell’ultima ora e l’ansia per la fragilità temporale di questa effimera straordinarietà, condannata a invecchiare e scomparire nello spazio di poche stagioni. Palmari sempre più multitasking, tablet pronti a trasformarsi in pc, pc che si mimetizzano da tablet, orologi che miniaturizzano il web, medici portatili che misurano i battiti del cuore mentre corri. O anche oggetti con cui il dialogo è meno spinto ma l’attesa di prestazioni ugualmente alta: elettrodomestici di cui studiamo con attenzione le performance energetiche, pronti a sentirci in difetto se non sono abbastanza elevate e ci addossano una quota aggiuntiva della colpa climatica; lampade di cui misuriamo con occhio critico la qualità della luce in continuo raffronto con la bolletta; caldaie che devono mantenere risultati da primato. 

Ebbene – come sappiamo – tutte queste meraviglie restano tali per un tempo sempre più breve. La loro sorte attuale è triste: dopo una breve stagione di gloria si trasformano in vigilati speciali, rifiuti potenzialmente pericolosi, oggetti concupiti dalla criminalità organizzata. Ma non è un destino senza appello. Possono rinascere: subito, attraverso un avanzato intervento di remanufacturing; o in seguito, recuperando i materiali e assemblandoli in nuovo modo.

Il futuro di questa categoria di oggetti chiamati Raee (Rifiuti da apparecchiature elettriche ed elettroniche) è dunque emblematico. Per il loro ritmo di crescita (7-10% l’anno a livello mondiale) e per la strategicità del settore rappresentano un assieme importante che richiede il massimo sforzo organizzativo per il recupero. Ma qual è l’assetto migliore da schierare in campo? Qual è la soluzione organizzativa migliore?

“Le soluzioni possibili sono varie e non è detto che ce ne sia solo una vincente”, risponde Danilo Bonato, direttore generale di Remedia, uno dei principali consorzi di recupero dei Raee. “Si tratta di tenere assieme varie esigenze: stare nel mercato, cioè abbassare il più possibile i costi senza sacrificare la qualità del servizio, ed evitare il rischio di inquinamento, cioè effettuare il recupero anche nei posti in cui non è economicamente conveniente perché i numeri sono troppo ridotti e il trasporto troppo costoso. Per categorie merceologiche come tv, frigoriferi e lampade il costo di uno smaltimento ben fatto è ancora circa tre volte superiore rispetto a quello che si ricava vendendo i materiali ottenuti dal processo di recupero, mentre per l’elettronica di consumo e i grandi elettrodomestici senza il ciclo del freddo c’è un utile”.

Dunque una pluralità di opzioni. Vediamole, nella ricostruzione di Bonato. L’Unione europea si divide in due principali blocchi: da una parte Francia e Irlanda con il modello del conferimento obbligato ai sistemi collettivi dei produttori, dall’altra la maggioranza dei paesi sulla linea detta all actors, cioè con una pluralità di soggetti che in base alle regole della concorrenza si dividono il mercato.

Apparentemente esiste una divisione quasi ideologica tra una visione centralizzata e statalista e una di mercato, ma in realtà ognuno di questi due punti di vista coglie un aspetto del problema: dunque l’obiettivo è tenere assieme le due esigenze nel miglior modo possibile. La concorrenza funziona quando i prezzi sono remunerativi, cioè quando le quantità in gioco permettono di pagare i costi della raccolta, dello smantellamento e della messa in sicurezza dei materiali con un potenziale impatto ambientale consistente. Quando si tratta di andare a recuperare piccole quantità di sostanze pericolose che, se abbandonate, produrrebbero un inquinamento occorre trovare un meccanismo che consenta di effettuare queste operazioni in perdita, trovando altrove la compensazione economica.

“Insomma servono dei paletti per guidare l’azione dei sistemi di raccolta e da questo punto di vista i paesi del Nord Europa sono più avanti, mentre Spagna e Grecia sono un passo dietro a noi”, continua Bonato. “Il problema è che in Italia per poter trattare i Raee basta l’autorizzazione della Provincia e i controlli non sono sufficienti: per questo il Centro di coordinamento Raee propone di aggiungere alle ispezioni dell’Arpa una verifica tecnica condotta da auditors formati dal Centro di coordinamento sulla base degli standard europei”.

Un’Europa che, come abbiamo visto, non segue comunque un indirizzo unico. I tedeschi puntano sul ruolo diretto delle aziende produttrici che hanno la responsabilità ultima del bene (sta a loro organizzare il servizio di recupero): la qualità della raccolta tende al basso. Gli inglesi non hanno vincoli per il numero dei sistemi né coordinamento: ce ne sono 41, decisamente troppi (in Italia sono 17 e si discute sulla maniera migliore per introdurre requisiti di qualità) tanto che sono in corso correttivi per arginare l’aumento dei costi. In Belgio c’è un consorzio unico nato 20 anni fa e rimasto tale. In Olanda, invece, questo consorzio unico dopo 15 anni è stato obbligato ad aprire alla concorrenza.

 

 

“Da queste esperienze io credo che si possa trarre una lezione”, aggiunge Bonato. “La concorrenza aiuta a essere più efficienti e innovativi, ma un numero eccessivo di attori fa implodere il sistema. Si tratta di trovare un giusto equilibrio con regole chiare e facilmente applicabili: i consorzi devono assicurare una quota minima di raccolta, ci vogliono controlli seri, requisiti patrimoniali, finalità no profit. Bisogna eliminare chi si improvvisa, chi lavora in modo speculativo arraffando i materiali quando i prezzi sono alti e scomparendo quando scendono, chi non rispetta il doppio impegno economico ed ecologico”.

Con tutti questi limiti l’Unione europea resta la migliore (tanto che Russia e Turchia la stanno studiando per mettere in campo un loro modello). Ma il percorso è appena iniziato: ora si tratta di accelerare la svolta verso un’economia circolare. Una delle direzioni di marcia – ricorda Bonato – è la possibilità di far pagare alle aziende produttrici contributi differenziati a seconda della qualità dell’ecodesign, come stanno cercando di fare in Francia: chi vende merci con materiali facilmente disaccoppiabili, con plastica riciclata, senza l’uso di ritardanti di fiamma, paga meno. Un’altra strada percorribile è moltiplicare i punti di raccolta in cui, previo procedimenti tecnici certificati, si offrono prodotti a fine vita che possono essere riutilizzati. Un’altra ancora è il remanufacturing.

L’obiettivo della direttiva europea è raggiungere entro il 2019 un livello del 65% di raccolta in peso dei Raee rispetto all’immesso sul mercato, al fine di riutilizzarli o riciclarli. Per l’Italia (230.000 tonnellate annue raccolta dal Centro di coordinamento più un’area grigia al di fuori dei consorzi valutabile attorno alle 300.000 tonnellate) vuol dire aumentare la raccolta del 30-40% in quattro anni. Un target impegnativo ma non impraticabile.

A patto di aver chiara la posta in gioco. In Europa – secondo i dati più recenti – si producono circa 11 milioni di tonnellate di Raee l’anno, nel mondo intorno ai 40 milioni. 

“Dieci anni fa di questo sistema si vedevano solo i costi, oggi è chiaro che il recupero dei materiali può produrre utili: si tratta di superare i limiti attuali, sviluppando un sistema moderno ed efficace, ispirato ai principi dell’economia circolare”, conclude Bonato.