Incontro Nicoletta Ravasio, docente di chimica generale e inorganica presso il dipartimento di Chimica della facoltà di Scienze agrarie e alimentari dell’Università degli Studi di Milano, al termine di una giornata di lavoro. Al centro della nostra conversazione il progetto di ricerca “From waste to resource: an integrated valorization of the rice productive chain residues”, finanziato da Fondazione Cariplo. Un progetto – ormai giunto alle fasi finali – che ha coinvolto una squadra di 20 ricercatori tra cui Claudio Tonin dell’Ismac di Biella (Istituto per lo studio delle macromolecole), Giordano Lesma e Giovanna Speranza (anche loro docenti presso lo stesso dipartimento di Chimica). 

Chiaro l’obiettivo del progetto: mettere a punto l’insieme di processi e tecnologie in grado di valorizzare tutti gli scarti legati alla produzione del riso. Ovvero la paglia (il residuo della pianta dopo che è stata rimossa la spiga), la lolla (il guscio del chicco di riso) e la pula (il suo strato di rivestimento scartato dopo la sbiancatura). 

Partiamo dai dati: produrre una tonnellata di riso bianco genera 1,3 tonnellate di paglia, 200 chili di lolla e 70 di pula. Ma gestire questi scarti presenta alcuni problemi. “Normalmente, infatti, gli agricoltori li portano ai produttori di biogas o comunque a chi li valorizza a fini energetici” racconta Ravasio. “Nel caso del riso, però, occorre pretrattare i residui, a causa dell’elevato contenuto di silice nella pianta che, vetrificando ad alte temperature, danneggerebbe i forni. Dunque, non potendo rivalorizzare questi scarti, gli agricoltori adottano in genere due comportamenti. O bruciano la paglia direttamente nei campi, benché si tratti di una pratica illegale anche considerando che la combustione produce una quantità molto significativa di particolato (Pm10) e ossidi di azoto. Oppure la interrano con il proposito di fertilizzare il terreno; ma, quando la risaia viene nuovamente allagata, la paglia interrata fermenta e, in assenza di ossigeno, produce metano. Secondo dati del Cnr, si calcola che questa pratica nel mondo produca tra il 10 e il 15% delle emissioni di gas climalterante.” 

Due quindi gli scopi principali del progetto: sottrarre la paglia a queste pratiche inquinanti e al contempo assicurare un profitto ai risicoltori italiani, minacciati dalla concorrenza dalle importazioni di riso senza dazio provenienti dal Sudest asiatico (Myanmar, Cambogia), andando a recuperare dagli scarti della coltivazione del riso tutti gli elementi che possono essere valorizzati in nuove produzioni. Perché nel riso vi è un vero e proprio capitale naturale. 

Partiamo dalla pula. Da questa sottile pellicola che ricopre il chicco di riso si può estrarre un olio, che rappresenta in percentuale tra il 18 e il 20% del suo peso: proiettando questi dati su scala mondiale, si avrebbero 6 milioni di tonnellate di olio di pula di riso all’anno, che potrebbe essere venduto – così come l’olio di cotone, per esempio – come commodity. Gli oli vegetali, infatti, sono beni pregiati per l’industria. In particolare l’olio di riso ha alcune particolari caratteristiche: se, da un lato, contiene l’enzima della lipasi che lo rende difficile da conservare con tendenza ad acidificarsi rapidamente e quindi poco adatto all’alimentazione, dall’altro possiede il gamma orizanolo, cioè una miscela di esteri di acidi steroli che, separati dall’olio e uniti a un prodotto a base di latte (tipicamente lo yogurt) agiscono sull’organismo abbassando il livello di colesterolo nel sangue. Non solo. Recenti ricerche hanno provato che alcune molecole presenti negli steroli esteri hanno un’azione multidrug resistance, ossia sono in grado di rinforzare le cellule sottoposte a terapie antitumorali perché continuino ad assimilare correttamente i farmaci somministrati (Nabekura, 2010). E infine, gli steroli esteri contenuti nell’olio di riso possono essere utilizzati in cosmetica, per esempio sostituendo i filtri Uv di sintesi.

Ma il team di ricercatori ha anche messo a punto un metodo per estrarre dall’olio di riso monogliceridi che potrebbero sostituire come emulsionanti gli acidi grassi trans presenti in molti alimenti confezionati, in cosmetica e in farmaceutica. “Attualmente – prosegue Nicoletta Ravasio – i monogliceridi vengono rappresentati in etichetta dalla dicitura E471, che tuttavia non specifica quale sia la loro origine. Nella maggioranza dei casi si tratta di sottoprodotti estratti da scarti animali che quindi escludono alcune categorie di consumatori (si pensi a vegetariani, vegani e chi segue un regime alimentare kosher o halal). In tal senso, l’utilizzo da parte delle aziende di monogliceridi di origine vegetale potrebbe ampliare il mercato e quindi l’indotto.” Inoltre nell’olio di riso sono presenti cere utilizzabili per produrre oleogel (le margarine), in grado di sostituire gli acidi grassi trans come addensanti e fornire la consistenza “spalmabile” ai prodotti. E infine, l’olio di riso può essere usato per realizzare dei dimeri grassi per realizzare adesivi biodegradabili ed essere introdotto, quindi, anche nell’industria del packaging. 

Una volta estratto l’olio, nella pula restano ancora le proteine: molto nutrienti, si possono valorizzare grazie a un processo di idrolisi enzimatica ed essere utilizzate nel latte artificiale per neonati o nella cosmetica. O ancora usarle come esaltatori di gusto per sostituire il discusso glutammato monosodico. Che, precisa Ravasio, “oltre alle questioni legate alla sua salubrità, viene prodotto esclusivamente in Asia: avere un’alternativa consentirebbe l’apertura di nuovi mercati in Italia”. Infine, un ulteriore ramo di ricerca – sul quale però non si hanno ancora dati definitivi – riguarda un polisaccaride anch’esso estratto dalla pula che sembra in grado di proteggere dai raggi gamma i pazienti sottoposti a radioterapia. 

Passando alla lolla, se finora è stata usata principalmente come componente delle lettiere per animali o per coibentare le tubazioni grazie al suo alto potere assorbente, si sta studiando la possibilità di macinarla e introdurla in materiali compositi – anche plastici – utilizzati per pavimentazioni esterne e antiscivolo. La silice vegetale che si estrae dalla lolla può inoltre essere impiegata per creare nuovi compositi con plastiche tradizionali e con plastiche bio: a differenza della silice minerale, essendo composta da particelle più piccole può essere ben miscelata alla gomma per ottenere degli pneumatici con un minor attrito sull’asfalto, maggior resistenza sul bagnato, più silenziosi e che permettono di consumare meno carburante. Non a caso, già Pirelli e Goodyear ne stanno sperimentando l’utilizzo. 

Infine, la paglia. In un precedente studio, il gruppo di ricerca aveva lavorato sulla canapa: tra gli esiti del lavoro vi era stato lo sviluppo di pannelli termo e fonoisolanti, creati mettendo insieme lana e fibra vegetale. “Molti ignorano che la lana che si utilizza per i filati di tutto il mondo viene dall’Australia, poiché quella delle pecore europee e americane non è adatta a realizzare capi di buona qualità. Tuttavia, gli animali vanno tosati e la lana che ne deriva – che non può essere bruciata poiché rilascia zolfo – è a tutti gli effetti un vero e proprio rifiuto speciale” spiega Nicoletta Ravasio. I ricercatori esperti di fibre hanno allora sottoposto la lana a un trattamento blando a base di alcali, idrolizzando la cheratina presente che diventa così adesiva e si aggancia alla fibra vegetale, creando un materiale estremamente resistente e autoportante, con la parte vegetale che fornisce resistenza meccanica e la lana che svolge la funzione di isolante termico e acustico. Un’ulteriore caratteristica di questi pannelli è che il trattamento sulla lana la rende inattaccabile dalle tarme. Attualmente si stanno mettendo a punto dei pannelli vegetali utilizzando la paglia di riso che, grazie alla presenza di silice, dovrebbe renderli ancora più resistenti al fuoco e aumentarne il potere isolante. Inoltre, dato non trascurabile – specie per un paese come l’Italia, ma non solo – questi pannelli sono adatti a essere impiegati nelle costruzioni antisismiche. 

“Questo progetto di ricerca sta mostrando che esistono numerosi vantaggi economici, ambientali e per la salute da ogni singolo scarto della produzione del riso. Alcuni sono sicuramente più remunerativi di altri ma, nell’ottica di una bioraffineria, dove si suppone sia presente un portfolio di prodotti a diverso valore aggiunto, si potrebbe in effetti aumentare i redditi dei coltivatori di riso e, soprattutto, creare posti di lavoro nell’ambito della bioeconomia”, precisa Ravasio. 

Alcune aziende si stanno già muovendo in questa direzione: dal progetto sulla canapa a cui ha lavorato la stessa Ravasio, sono nate filiere produttive italiane molto interessanti. La Davifil di Biella produce pannelli termo e fonoassorbenti realizzati con lana e canapa; la Equilibrium di Lecco che realizza prodotti per la bioedilizia con mattoni di canapa, a seguito della recente legge per il reintegro della produzione di canapa in Italia, ha iniziato a utilizzare materia prima proveniente da piantagioni di nuova installazione. 

Con tutto ciò che il gruppo di lavoro ha dimostrato si può estrarre dal riso, non si fatica a immaginare che impatto si potrebbe avere utilizzando questo cereale. “L’approccio – conclude la docente – che dobbiamo avere nei confronti di ogni scarto è questo. Prima di bruciarlo o gettarlo bisogna guardare cosa contiene, come si può reimpiegare, come valorizzare le sue componenti. Abbiamo un quantitativo immenso di molecole e componenti prodotte in natura e, talvolta, non riproducibili sinteticamente: che senso ha non utilizzarle?”. E soprattutto, per quanto ancora potremmo permetterci questo lusso?

 

Nabekura T., “Overcoming multidrug resistance in human cancer cells by natural compounds”, giugno 2010; www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/22069634

Davifil, www.davifil-bioisol.com

Equilibrium, www.equilibrium-bioedilizia.it

Info

www.fondazionecariplo.it/it/index.html