Lo chiamiamo pianeta Terra, ma dovrebbe chiamarsi pianeta Acqua, o meglio Oceano. Se guardassimo il globo terrestre dallo spazio, osserveremmo una grande sfera prevalentemente blu. E non sarebbe così sorprendente se riflettessimo più spesso sul fatto che la terra emersa che l’uomo abita rappresenta solo il 29% della superficie totale del nostro pianeta. I numeri parlano di conseguenza: l’80% delle specie viventi vive nel mare, le attività di pesca e acquacoltura danno lavoro a più di 350 milioni di persone e sfamano oltre il 18% della popolazione mondiale.
L’acqua è vita, insomma. Ed è anche cibo. Volendone parlare in termini di sostentamento umano, mari e oceani non producono solo la metà dell’ossigeno che respiriamo, ma ci sfamano quotidianamente in senso sia letterale che figurato. Muovono l’economia dei paesi marittimi, rappresentano una delle filiere più redditizie per l’industria alimentare e, più nello specifico, arricchiscono buona parte delle aziende di largo consumo in Italia.
Tuttavia, in tempi di pandemia e di piena emergenza ambientale, la domanda sorge spontanea. Quanto è pulito il mare in cui peschiamo? E, di conseguenza, quanto è sicuro il pesce che mangiamo? Una risposta importante arriva da Delicius, azienda nostrana specializzata in conserve di pesce, e dal Dipartimento di Medicina Veterinaria e Scienze Animali dell’Università di Milano, fra i più recenti indagatori dello stato di salute del Mare Nostrum e della sicurezza del suo pescato. Una dimostrazione efficace di come la sicurezza alimentare possa essere garantita da un’attività sinergica di filiera.

Be BLUE, una conferenza sul mare e sulla sicurezza alimentare

Se lo stato di salute di un’area marittima è messa in discussione, a pagarne le spese sarà sicuramente la percezione della sicurezza del pesce lì pescato. Lo sanno bene le aziende che hanno fatto della commercializzazione dei prodotti del mare il loro business core e che, per forza di cose, guardano con attenzione crescente alle esigenze, alle opinioni e ai timori dei consumatori finali.
Quei consumatori siamo noi, sempre più attenti alle diciture sulle etichette, alla provenienza, alla quantità di antibiotici ingeriti o iniettati negli animali, alla salubrità dell’ambiente in cui le materie prime sono nate e cresciute. Paure e sospetti, a volte reali e a volte meno, che riemergono a ogni report stagionale o, peggio, a ogni nuovo scandalo alimentare.
Partendo da queste premesse, Delicius ha promosso uno studio, realizzato in collaborazione con il Centro per lo studio dei residui in alimenti di origine animale dell’Università di Milano, per determinare e garantire, in chiave di caratterizzazione del rischio, la sicurezza alimentare delle semi-conserve di pesce. Una sinergia pubblico-privato che riflette sia sul ruolo che le aziende dovrebbero avere, in termini di input e promozione di attività di pubblico interesse, sia sull’importanza della ricerca per la filiera del largo consumo.
Lo studio è stato presentato il 7 giugno nell’ambito di Be Blue – The Sea Conference nella Sala Napoleonica di Palazzo Greppi a Milano. Un’occasione di confronto fra la comunità accademica, le imprese di settore e le associazioni impegnate per la salvaguardia dell’ecosistema marino, che hanno posto l’attenzione sulle minacce più diffuse per il pesce. Fra queste troviamo gli elementi potenzialmente tossici (i Potentially Toxic Elements, comunemente e impropriamente definiti come metalli pesanti), gli inquinanti ambientali, i parassiti e i residui di antibiotici, ormoni e steroidi della carne.
Lo studio di Delicius, in particolare, si è focalizzato sui fattori di rischio e sulla presenza di metalli, metalloidi e sostanze perfluoroalchiliche nelle acciughe, materia prima alla base delle produzioni dell’azienda.

Acciughe, metalli e metalloidi

La normativa europea in merito alle contaminazioni negli alimenti è espressa nel regolamento 315/93/CEE e recita chiaramente: “Un prodotto alimentare non può essere commercializzato se contiene contaminanti in quantitativi inaccettabili sotto l’aspetto della salute pubblica e in particolare sul piano tossicologico” e che “i contaminanti devono essere mantenuti ai livelli più bassi che si possono ragionevolmente ottenere attraverso buone pratiche”.
I metalli pesanti e metalloidi che potrebbero essere presenti nel pesce che ingeriamo, nello specifico in alici o acciughe che dir si voglia, sono Mercurio, Cadmio, Piombo, Cromo, Arsenico inorganico, Uranio, Stagno, Alluminio e Nichel. Entro una certa percentuale, queste sostanze sono da considerarsi accettabili e inoffensive per la salute umana e si parla dunque di “assunzione orale massima tollerata”.
Lo studio condotto ha previsto un importante piano di campionamento su due campagne di pesca, con un monitoraggio puntuale delle aree di provenienza e con oltre 250 analisi effettuate sulle diverse partite lavorate. Sul pescato analizzato la risposta è stata positiva, rivelando concentrazioni medie e mediane di metalli, metalloidi e PFAS ben al di sotto dei quantitativi indicati dalla normativa europea. Dal Piombo, presente in 0,17 mg/kg al Nickel fermo allo 0,05 mg/kg.
Operazione di sforzi congiunti che, oltre a rivelare dati preziosi sul mare da cui proviene buona parte del pescato nostrano, dimostra come quella della sicurezza alimentare dovrebbe essere un’attività sinergica di filiera. Dal pubblico al privato, dalle Università alle singole aziende di settore.