Tramontato da tempo il mito della grande impresa del primo capitalismo, capace di governare internamente i processi di innovazione, dalle attività di ricerca di base alla commercializzazione dei nuovi prodotti sul mercato, oggi i processi di innovazione si realizzano entro filiere ampie, articolate e complesse, popolate da una pluralità di attori economici e non, in molti casi con una forte connotazione territoriale che ne influenza le caratteristiche e i risultati. L’interesse per la prospettiva dei cluster non è soltanto legato al suo potenziale economico, ma anche alla sua valenza come strumento di pianificazione dell’intervento pubblico sul territorio.

Quando si parla di bioeconomia – intesa come un’economia che impiega le risorse biologiche come input per la produzione alimentare, mangimistica, energetica e industriale – si fa riferimento a un metasettore che, secondo i dati forniti dall’Unione europea, vale in Europa 2.000 miliardi di euro e dà lavoro a 22 milioni di persone, il 9% della forza lavoro complessiva. Ciò significa che i cluster con interessi nella bioeconomia possono includere cluster agroalimentari, della chimica verde o delle biotecnologie industriali. 

L’unico cluster europeo a richiamarsi direttamente alla bioeconomia è il BioEconomy Cluster della Germania Centrale (www.bioeconomy.de), con sede a Halle (Sassonia-Anhalt), dove diversi partner dell’industria e della ricerca lavorano per l’impiego di biomasse non alimentari ai fini della produzione energetica e di nuovi materiali. Nella città sassone l’industria del legname, l’industria chimica, l’industria delle materie plastiche e dell’impiantistica fanno squadra per costituire un centro regionale di competenza in bioeconomia, dove l’obiettivo comune è passare rapidamente dal laboratorio alla produzione industriale.

Nell’ottobre del 2012 la cancelliera Angela Merkel inaugurò il Centro Fraunhofer per i processi chimico-biotecnologici (Cbp) di Leuna, nucleo innovativo del BioEconomy Cluster. Nella bioraffineria – un centro unico nel suo genere in Europa – i processi vengono sviluppati attraverso le combinazioni di metodi chimici e biotecnologici, per consentire l’estrazione di prodotti chimici di base dalla biomassa per l’eventuale uso industriale. Per aprire questo centro d’avanguardia, a disposizione di università e industria, ci sono voluti venti mesi e un investimento di 53 milioni di euro. “Il Cbp è una pietra miliare nel cammino verso il futuro della bioeconomia”, sostenne in quell’occasione Merkel, per la quale il centro di Leuna rappresenta anche “un eccellente esempio di riqualificazione della Germania dell’Est”. 

Che la Germania faccia sul serio nella bioeconomia e che parte della propria strategia di crescita si basi sui cluster è dimostrato anche dal ruolo di punta svolto dal Cluster Industrielle Biotechnologie (Clib2021, www.clib2021.de), della Renania settentrionale-Vestfalia, che mette insieme l’eccellenza tedesca nel campo della ricerca e sviluppo, della produzione e della commercializzazione in tutti i settori che compongono la bioeconomia.

Clib2021 nasce nel 2007, quando la cordata della regione della Renania settentrionale-Vestfalia vince il bando promosso dal ministero per la Ricerca e l’innovazione federale, aggiudicandosi 20 milioni di euro di fondi pubblici. Nell’aprile 2009 nasce il Clib-Graduate Cluster, un’iniziativa congiunta di tre università del cluster: Tu Dortmund, Bielefeld e Heinrich Heine di Düsseldorf. 

La grande industria germanica è presente in massa: Altana, Basf, Henkel, Evonik, Lanxess, Bayer. Ma anche più di una quarantina di pmi, università e centri di ricerca del calibro del Fraunhofer, associazioni, banche e venture capital (perché la ricerca va sostenuta finanziariamente). E non solo tedeschi, visto che tra i membri del cluster si trovano anche l’Istituto di biochimica A.N. Bach dell’Accademia russa di scienze, con cui Clib ha attivo dal 2010 un programma di coordinamento di progetti scientifici in campo biotecnologico, o il Bio Base Pilot Plant belga. L’impronta internazionale del cluster emerge anche da un’intensa attività estera che ha portato negli anni a stringere accordi in Brasile, Canada e Malesia.

Il cluster è un soggetto autonomo, che richiede una quota di partecipazione ai propri membri differenziata in base alla capacità contributiva e che è in grado anche di generare un proprio fatturato.

I cluster in Germania fanno parte di una strategia (“Bioeconomia 2030”) coordinata dal ministero federale per la Ricerca e l’innovazione, in cui viene delineato il percorso nazionale per l’approdo a un’economia post-petrolifera, grazie all’uso delle risorse rinnovabili e delle biomasse e si dà vita al Consiglio federale per la bioeconomia, un organismo chiamato a elaborare proposte da sottoporre al governo centrale. Industria e accademia sono chiamati a costituire alleanze strategiche lungo tutta la filiera della bioeconomia per ricevere finanziamenti federali.

“Bioeconomia 2030” e la costituzione del Consiglio federale per la bioeconomia hanno avuto un effetto significativo sulla discussione europea, accelerando il lancio della stessa strategia dell’Unione “Innovation for Growth – A Bioeconomy for Europe” del febbraio 2012. 

Dalla Germania alla Francia il passo è breve. Per trovare il cluster più rappresentativo della bioeconomia francese bisogna andare in Piccardia. È il Polo di competitività a vocazione mondiale industrie e agro-risorse, meglio noto come Iar Pole (www.iar-pole.com), specializzato in chimica verde e biotecnologie industriali: quasi 200 aderenti attivi, non solo in Piccardia ma anche nella regione Champagne Ardenne, nella costruzione di una nuova economia basata sull’impiego di fonti rinnovabili. Parliamo del meglio dell’industria francese: Michelin, Roquette, Veolia, Faurecia, Total, ma anche L’Oréal, Danone e Lacoste, per fare qualche nome.

Nei pressi di Reims, capitale della Champagne Ardenne, il Polo Iar ospita l’Istituto europeo di bioraffineria, una delle principali bioraffinerie al mondo: qui tre milioni di tonnellate di biomassa (barbabietola da zucchero, frumento, erba medica) vengono trasformati ogni anno per fornire zucchero, glucosio, amido, alcol alimentare e farmaceutico, etanolo e principi attivi cosmetici. Il principio che anima il cluster francese è quello della condivisione e delle sinergie: il sito di Reims comprende anche un laboratorio di Ricerca & Sviluppo condiviso (Ard), un dimostratore industriale (Biodemo) e un centro di ricerca che riunisce diversi istituti di istruzione superiore (Cebb). Sempre a Reims si sviluppa il progetto Futurol, per la produzione di biocarburanti di seconda generazione, quelli che non impiegano biomassa proveniente da colture vegetali. 

Se sinergia è la prima parola d’ordine di Iar-Pole, la seconda è internazionalizzazione. Il cluster francese non è chiuso in una logica regionale, ma ha accordi di partnership attivi in Europa, in Canada, negli Stati Uniti, in Giappone, in Brasile e in India. In particolare, nel vecchio continente sta lavorando attivamente – insieme al Green Chemistry Centre of Excellence dell’Università di York – per la costituzione di un intercluster sulle bioraffinerie.

A completare il quadro dei cluster francesi con interessi nella bioeconomia bisogna menzionare Axelera (www.axelera.org), il cluster della chimica e dell’ambiente della regione di Lione e Rhône-Alpes, focalizzato sulla chimica verde e sul riciclo dei materiali, Agrimip, Agri Sud-Ovest Innovation (www.agrisudouest.com), il cluster per l’agricoltura e l’industria alimentare delle regioni di Aquitania e Midi-Pyrenees, e Xylofutur (www.xylofutur.fr), il cluster della filiera della carta della regione dell’Aquitania. Nel marzo del 2011 questi cluster, insieme a Iar-Pole, hanno dato vita alla United Bioeconomy Clusters (Ubc), un’associazione che punta a condividere una visione strategica di sviluppo nazionale incentrata sulla chimica verde e a presentare all’estero la bioeconomia francese in modo unitario.

Anche l’Italia si è di recente dotata di una serie di cluster con interessi specifici nella bioeconomia, a rimarcare ancora una volta l’importanza di fare squadra per affrontare le sfide poste dallo sviluppo di questo metasettore. La costituzione e lo sviluppo di otto cluster tecnologici nazionali è stata promossa nel 2012 dal ministero dell’Istruzione, dell’università e della ricerca, al fine di identificare delle realtà – aggregazioni organizzate di imprese, università, istituzioni pubbliche o private di ricerca e soggetti attivi nel campo dell’innovazione, presenti in diversi ambiti territoriali – che agiscano da propulsori della crescita economica sostenibile dei territori e dell’intero sistema economico nazionale.

Il più importante è certamente il cluster tecnologico nazionale della chimica verde, fondato dai tre maggiori player della bioeconomia italiana, Novamont, Versalis (gruppo Eni) e Biochemtex (MossiGhisolfi Group), insieme a Federchimica, la federazione italiana dell’industria chimica. 

La bioraffinera di Crescentino di MossiGhisolfi Group, il primo impianto al mondo per la produzione di biocarburanti di seconda generazione.

 Lo scopo del cluster della chimica verde, che ha adottato l’acronimo SPRING – Sustainable Processes and Resources for Innovation and National Growth (www.clusterspring.it), è di favorire lo sviluppo delle bioindustrie nella penisola attraverso un approccio integrato all’innovazione, per rilanciare la chimica italiana sotto il segno della sostenibilità ambientale, sociale ed economica e per stimolare la ricerca e gli investimenti in nuove tecnologie. L’intento è quello di incentivare la competitività nazionale e internazionale nell’ambito dei prodotti biobased e di perseguire i più recenti orientamenti dell’Unione europea nel campo della bioeconomia.

SPRING raggruppa oltre un centinaio di soci aderenti, realtà che a diverso titolo operano nell’ambito della bioeconomia e che rappresentano l’eccellenza italiana nel settore: grandi player industriali, pmi biotech, università, centri di ricerca, fondazioni, poli di innovazione regionali e numerosi altri soggetti attivi nella promozione dell’innovazione e nel trasferimento tecnologico. 

Le azioni del cluster, che ha eletto come presidente Catia Bastioli, amministratore delegato di Novamont e vera e propria guida della bioeconomia made in Italy, si articolano nel breve, medio e lungo periodo su quattro pilastri principali: la promozione di un utilizzo a cascata delle biomasse in stretta sinergia con il mondo agricolo locale e le biodiversità dei territori; lo sviluppo di tecnologie innovative e processi efficienti per la realizzazione di bioraffinerie integrate di terza generazione; lo sviluppo market-driven di nuovi prodotti biobased; e, infine, la messa in atto di azioni di green public procurement e di stimolo alla bioeconomia a livello regionale e nazionale.

“L’Agricoltura incontra la chimica” è lo slogan scelto da Biobased Delta (www.biobaseddelta.nl), il cluster della bioeconomia del Sud-Ovest dei Paesi Bassi, per sottolineare l’importanza dell’impiego dei residui agricoli per l’innovazione industriale biobased. In modo particolare per la chimica, visto che il cluster olandese fa parte a sua volta del più grande cluster chimico al mondo formato dalle regioni di Anversa, Rotterdam e della Ruhr. 

Biobased Delta ospita al proprio interno Biorizon, un centro di ricerca condiviso (che ha come partner anche il centro di educazione alla bioeconomia di Ghent, Bio Base Europe), specializzato nello sviluppo di tecnologie per la produzione di composti aromatici provenienti da fonti rinnovabili da utilizzare per materiali ad alte prestazioni, prodotti chimici e rivestimenti. L’obiettivo è ambizioso: essere nei prossimi anni nella top 3 mondiale per quanto riguarda questa tipologia di ricerca. In questo quadro si colloca un’intensa attività di relazioni internazionali, dal Brasile al Canada, e il protocollo d’intesa firmato nel gennaio del 2014 a Reims, presso la sede di Iar-Pole, da Willem Sederel, Direttore Generale di Biobased Delta, e dal Presidente François Hollande in persona, proprio allo scopo di favorire l’utilizzo di Biorizon da parte dell’industria francese.

Ma non solo: tra le iniziative del cluster olandese da segnalare si trova anche il Campus chimica verde, un acceleratore d’impresa per le innovazioni provenienti dall’impiego di fonti rinnovabili. Nella sede della Sabic Innovative Plastics (società controllata dal colosso petrolchimico saudita Sabic), a Bergen op Zoom, imprese grandi e piccole, centri di ricerca, università e istituzioni di governo lavorano gomito a gomito in un ambiente di innovazione aperto per sviluppare nuove tecnologie rigorosamente biobased, attraverso la valorizzazione dei flussi di residui del settore agricolo e alimentare.

Insomma, da nord a sud, la via europea alla bioeconomia passa dai cluster, vero e proprio motore di sviluppo e di innovazione, strumento in grado di favorire partnership tra attori diversi e lo scambio rapido di conoscenza. Tutto questo – sostengono gli addetti ai lavori – genera una situazione competitiva che crea un clima positivo anche per l’avvio di nuove imprese e per creare nuova occupazione.

 


 

Intervista a Horst Mosler, amministratore delegato di Bcm – BioEconomy Cluster Management GmbH, società che gestisce il cluster per la bioeconomia con sede ad Halle, Germania

La bioeconomia è incentivata dalle strutture regionali di base

 

Qual è il ruolo dei cluster nella promozione dello sviluppo della bioeconomia in Europa?

Le industrie coinvolte nel nuovo settore economico della bioeconomia sono numerose, ed è imprescindibile stabilire dei punti di contatto. La stessa bioeconomia ha bisogno di strutture regionali di base entro le quali possano svilupparsi flussi di materiali e catene di valore a elevata efficienza. In questo senso, i cluster rappresentano una tipologia di organizzazione eccellente. Mettendo in connessione industria e ricerca scientifica sul tema della bioeconomia concorrono a trasformare gli approcci regionali in strategie pan-europee. Un altro aspetto importante è la consulenza esperta che possono fornire a governi, autorità e altri promotori dello sviluppo economico dell’Unione europea. Per esempio, grazie al sostegno del cluster, la regione Sassonia-Anhalt ha acquisito notorietà a livello internazionale come modello europeo regionale di bioeconomia. 

Cosa differenzia BioEconomy Cluster dagli altri cluster europei che si occupano di bioeconomia?

Il BioEconomy Cluster non è specializzato in un singolo settore industriale, ma su catene di valore definite e basate sull’impiego di materie prime derivanti da biomasse non alimentari. Il cluster accoglie un’ampia varietà di attori negli ambiti della scienza e della ricerca, del settore forestale e del legname, edilizia, chimica, plastiche, automotive, ingegneria meccanica, costruzione di impianti o settore energetico. Nello stato in cui si trova il cluster cresce il 40% delle faggete della Germania, e quindi l’area ha anche un significativo potenziale di biomassa, che può essere attivato per finalità di produzione di materiali. L’aspetto centrale e concreto è tuttavia l’integrazione nel polo chimico già consolidato dell’area. Il parco industriale di Leuna è il più vasto sito chimico della Germania e le prime bioraffinerie a dimensione dimostrativa sono state realizzate qui, grazie a progetti pilota. 

Qual è la tipologia di governance adottata dal cluster?

Il cluster è ancora molto giovane. Nel 2011, si sono uniti 15 partner, provenienti dall’industria e dalla ricerca, con l’idea ambiziosa di creare in Germania Centrale una regione modello per la biochimica in Europa. Il consorzio ha chiesto, ottenendoli, i finanziamenti destinati da un concorso per cluster all’avanguardia proposto dal ministero tedesco per la Scienza e la Ricerca. A partire dal 2012 gli attori del cluster si sono organizzati nell’associazione BioEconomy e.V. Lo sviluppo del cluster è accompagnato da una cooperazione a livello di ricerca e consulenza con importanti istituzioni tedesche sul tema delle biomasse quali German Biomass Research Center, German Environmental Research Center e HHL Leipzig Graduate School of Management. 

In linea con i finanziamenti concessi, al momento nel cluster sono attivi progetti di ricerca e sviluppo per un totale di circa 80 milioni di euro. Inoltre, anche la regione Sassonia-Anhalt, fulcro del BioEconomy Cluster, promuove ulteriori sviluppi del consorzio. Come parte della strategia di innovazione dell’intera regione, nel 2014 il governo federale ha inserito chimica e bioeconomia nella strategia di mercato di riferimento.

In che modo i vari cluster possono collaborare a sostegno della crescita economica in Europa?

La cooperazione tra cluster è un approccio essenziale del processo. Per accelerare innovazione e nuove economie è strategico identificare e adottare intersezioni tematiche. Tramite il trasferimento sistematico della tecnologia e gli scambi di conoscenze a livello internazionale, è possibile rafforzare significativamente la posizione di mercato del settore industriale europeo. 

E qual è l’importanza della cooperazione internazionale nella bioeconomia?

In un’economia globalizzata, le attività puramente regionali non sono più competitive. Questo vale anche per la bioeconomia. Per attrarre i partner industriali più idonei, viene posta una forte enfasi sulla visibilità internazionale. Ecco perché siamo membri del consiglio Ecrn, nel quale convergono 20 regioni europee che hanno concretizzato una partnership internazionale pubblico-privata tra l’industria e l’Ue, il consorzio Bic (Biobased Industries Consortium), che promuove la realizzazione di impianti pilota e dimostrativi tramite la cooperazione internazionale.

Quanto è importante la relazione tra industria e università per la bioeconomia?

Ovviamente questa relazione è significativa. Innanzitutto la ricerca di base ha luogo nelle università. In base ai risultati ottenuti, gli istituti di ricerca di scienze applicate e i partner dell’industria cooperano nella ricerca e nello sviluppo di nuovi processi e prodotti, e nella commercializzazione degli approcci bioeconomici. La bioeconomia del cluster ha un enorme potenziale per la produzione di materiali nuovi, con caratteristiche esclusive e ottenuti da risorse rinnovabili.

D’altro canto, università e istituzioni formative sono partner fondamentali nella formazione professionale e avanzata e nei programmi di studio destinati alla preparazione di specialisti di bioeconomia. L’avvento di questo settore implica una nuova serie di profili lavorativi che stiamo sviluppando insieme ai partner del settore dell’istruzione. Anche in questo ambito il cluster vanta istituzioni di eccellenza: Hhl Leipzig Graduate School of Management, Martin-Luther-University di Halle, Anhalt University of Applied Sciences e Accademia di formazione professionale Bal del polo chimico di Leuna. 

Quali sono a suo parere i punti deboli e quelli di forza della bioeconomia europea?

Un evidente punto di forza è dato dalle bioraffinerie che realizzano più prodotti. L’approccio europeo alla bioeconomia è già rivolto a un’intera gamma di sostanze chimiche di base. Nei progetti pilota o dimostrativi vengono sviluppati processi di produzione multipli, mentre nei paesi oltreoceano dominano più frequentemente processi singoli. Nel complesso, l’approccio integrato alla bioeconomia risulta seguito in modo più coerente in Europa. Tuttavia, e soprattutto nel comparto bioraffinerie, i nuovi approcci di mercato risultano poco adatti alle attività di business già esistenti. In questo ambito sono perciò necessari nuovi modelli operativi basati su strategie di diversificazione.

Quali misure legislative ancora assenti nell’Unione europea possono garantire uno sviluppo sostenibile e coordinato della bioeconomia?

Abbiamo bisogno di uno chiaro quadro legislativo che promuova i principi di base per la conversione da un’economia basata sui combustibili fossili a un’economia basata sulle materie organiche o che, quantomeno, stabilisca una determinata quota di materiali sostenibili. Gli elementi che hanno stimolato l’introduzione di nuovi prodotti e soluzioni drop-in nel settore dei combustibili potrebbero funzionare come meccanismo di incentivazione anche nell’ambito dei materiali. La domanda potrebbe essere stimolata anche da linee guida per il settore dell’edilizia e da normative che promuovano l’utilizzo di bioprodotti e biosistemi di costruzione.

 


 

Intervista a Manfred Kircher, presidente del Comitato consultivo di Clib2021

I cluster: un radar della tecnologia e del mercato


Qual è il ruolo dei cluster nella promozione dello sviluppo della bioeconomia in Europa?

I cluster condividono una visione comune e mettono insieme aziende consolidate e giovani, istituzioni di ricerca e investitori. Tramite il know-how condiviso da tutti i membri, i cluster operano come radar della tecnologia e del mercato, indentificando perciò in anticipo tendenze e soluzioni di bioeconomia. Grazie al supporto offerto ai propri membri, ottengono grandi vantaggi sulla concorrenza.

Cosa differenzia Clib2021 dagli altri cluster europei che si occupano di bioeconomia?

L’unicità di Clib2021 va individuata nei membri che ne fanno parte e nella strategia adottata. Le industrie chimiche multinazionali offrono il mercato critico per tecnologie e prodotti; le aziende più giovani spingono bioprocessi, bioprodotti e strumenti associati; le istituzioni di ricerca offrono la competenza e la scienza necessarie e formano la prossima generazione; gli investitori promuovono e incentivano lo sviluppo di start-up. Per garantire leadership e vantaggi concorrenziali, Clib è aperto anche ai membri internazionali. Inoltre, coinvolge i pilastri regionali della competenza, perché come qualsiasi altro cluster, anche il Clib ha bisogno di solide fondamenta nazionali.

In che modo i vari cluster possono collaborare a sostegno della crescita economica in Europa?

I cluster si differenziano in base a punti di forza e stakeholder regionali specifici, per esempio gli attori del settore industriale. Alcuni sono specializzati, e quindi più forti, nell’ambito della produzione delle materie prime agricole, altri nella produzione, nella commercializzazione, nella scienza o in mercati specifici. Da un lato, i cluster devono focalizzarsi sulla propria regione di origine, dall’altro però non possono non guardare all’esterno. Dalla cooperazione sinergica nascono catene di valore interregionali capaci di alimentare e promuovere l’economia. 

Clib2021 è un cluster regionale tedesco, aperto non solo agli attori tedeschi ma anche a quelli globali. Quanto è importante la cooperazione internazionale nella bioeconomia?

Il 30% dei nostri membri si trova in al di fuori della Germania, nel resto d’Europa, in Nord America, Russia, Cina e Asia sudorientale. Clib ha perseguito sin dal principio catene di valore non solo intersettoriali, ma anche transfrontaliere. A nostro parere, la bioeconomia è una questione globale indirizzata a una quota significativa dell’economia mondiale, incentrata tanto sul flusso di materie prime agricole e merci quanto sullo scambio di tecnologie e know-how. Ecco perché Clib fornisce piattaforme di comunicazione che agevolano tanto le catene di valore regionali quanto quelle internazionali.

Qual è la tipologia di governance adottata da Clib2021?

Clib è un’associazione non profit gestita da un comitato consultivo i cui membri provengono dai gruppi industriali che appartengono al cluster, da pmi, istituzioni accademiche e investitori. Un comitato consultivo internazionale che rappresenta gli stessi gruppi supporta il comitato. La gestione del cluster è finanziata mediante quote associative e servizi forniti.

È stato istituito anche un cluster Clib a livello accademico. Quanto è importante la relazione tra industria e università per la bioeconomia?

La bioeconomia si fonda sulla scienza e sulla conoscenza, per questo è cruciale il trasferimento rapido ed efficiente delle scoperte scientifiche alle tecnologie applicabili. Il Clib Graduate Cluster contribuisce a questo risultato in vari modi: i) le discipline pertinenti soprattutto alla bioeconomia attraggono laureati di talento; ii) tramite i tirocini nelle industrie, i giovani scienziati entrano in contatto con le problematiche della ricerca industriale; iii) molti di questi laureati iniziano la propria carriera nelle pmi o nel settore, trasferendo perciò il know-how universitario all’economia pratica.

Il programma è finanziato dal ministero per l’Innovazione della regione Nord Reno-Westfalia, il che conferisce al Clib un ruolo di catalizzatore nell’attuazione della strategia di bioeconomia di questo Stato.

Quali sono a suo parere i punti deboli e quelli di forza della bioeconomia europea?

Iniziamo con i punti di forza: l’Europa vanta risultati riconosciuti a livello mondiale per quel che riguarda la leadership industriale, l’eccellenza delle infrastrutture, le istituzioni accademiche all’avanguardia e i settori di ricerca e sviluppo di primo livello. La diversità dell’Europa rappresenta un’opportunità per cercare le migliori idee di bioeconomia a livello regionale, in modo competitivo e al tempo stesso sinergico. I cluster regionali sono i motori di questi modelli di partnership. Infine, l’Europa parte da una bioeconomia già consolidata in agricoltura, silvicoltura, pesca e industrie correlate, e ha una visione chiara fino al 2050. 

Ciò non toglie che passare dalle nuove tecnologie alla pratica industriale e quindi al mercato richieda tempo. Altrove è più facile raccogliere capitali privati per gli investimenti. Un altro ostacolo è la risposta negativa data da un pubblico ad alcune specifiche tecnologie. Il Clib sta tentando di affrontare tutte queste problematiche: riduzione del time to market, offerta di opportunità di investimento interessanti e conquista del consenso pubblico. 

Quali misure legislative ancora carenti nell’Unione europea possono garantire uno sviluppo sostenibile e coordinato della bioeconomia?

La bioeconomia europea deve mettersi alla prova su due versanti: all’interno rispetto alle catene di valore basate sui combustibili fossili e all’esterno rispetto alle altre regioni globali. Entrambi questi aspetti devono essere presi in esame dai legislatori europei. A livello assolutamente personale, ritengo che il costo delle materie prime agricole sia cruciale, e che la legislazione debba occuparsi della concorrenza tra le materie prime agricole interne e le risorse fossili e i mercati globali. In un contesto di questo tipo, la legislazione deve guardare alla bioeconomia nel suo senso più ampio di economia ciclica e promuovere gli scarti di produzione, per esempio CO/CO2, come fonti di carbonio sostenibili. Anche il settore chimico, che nel continente genera valore significativo e occupazione, dovrebbe ricevere la stessa attenzione prioritaria che riceve oggi il settore dell’energia e dei combustibili. La legislazione dovrebbe fornire un quadro di riferimento, ma lasciare che siano le parti interessate a occuparsi di formazione tecnica ed economica. Negli anni che verranno, Clib si concentrerà proprio sulla gestione efficiente di queste componenti.

 


 

Intervista a Catia Bastioli, Presidente di SPRING, Cluster tecnologico nazionale della chimica verde

Con il Cluster SPRING costruiamo la bioeconomia italiana partendo dalle aree locali

 

Dottoressa Bastioli, SPRING è il più giovane dei cluster europei attivi nella bioeconomia. Con quali obiettivi è nato? 

Il Cluster SPRING ha preso forma nel 2012 in risposta a un bando pubblicato dal Ministero dell’Università e della Ricerca, con l’obiettivo di creare una piattaforma nazionale con una visione comune: partire dalla bioeconomia e dai territori per rilanciare la crescita del paese. Un obiettivo ambizioso, che tuttavia non nasce da zero. SPRING poggia infatti su una solida base di competenze, know-how, impianti dimostratori già presenti in Italia, frutto di anni di investimenti in ricerca e della volontà, da parte di alcuni soggetti industriali, di generare casi studio per contribuire a sviluppare un modello italiano di bioeconomia, integrando competenze e ambiti disciplinari diversi: dall’agricoltura, alla chimica, fino al trattamento dei rifiuti.

Chi sono gli attori del Cluster e qual è la sua governance?

Il Cluster SPRING si è costituito come associazione senza scopo di lucro, che conta attualmente quasi cento soci ordinari. Si tratta di realtà che a diverso titolo operano nell’ambito della bioeconomia e che rappresentano l’eccellenza italiana nel settore: grandi player industriali, piccole e medie imprese, poli regionali di innovazione, associazioni di categoria, agenzie di sviluppo, fondazioni e altri soggetti attivi nel campo del trasferimento tecnologico e della comunicazione ambientale. Tra questi, anche i principali centri di ricerca pubblici che fanno capo ai ministeri dell’Università e della Ricerca, dell’Agricoltura e dello Sviluppo Economico, nonché alcune tra più prestigiose Università del paese. SPRING può avvalersi inoltre del sostegno di otto Regioni italiane, le cui politiche locali convergono con gli obiettivi del Cluster e sono fortemente orientate verso la bioeconomia. Il Cluster è governato da un executive board formato da rappresentanti eletti da quattro Comitati, rispettivamente dell’Industria, dell’Accademia, delle Associazioni e delle Istituzioni regionali. 

In che modo SPRING potrà contribuire a velocizzare e potenziare la transizione italiana verso un modello di sviluppo più sostenibile?

La grande sfida che l’Italia si trova ad affrontare è quella della rigenerazione territoriale: guardare verso un obiettivo comune nazionale, ma ripartendo dalle aree locali, valorizzandone le specificità, dando vita a nuove filiere agroindustriali e utilizzando tecnologie innovative per riconvertire gli impianti obsoleti o dismessi e creare nuove opportunità di crescita e di occupazione. SPRING intende raccogliere questa sfida e incoraggiare lo sviluppo delle bioindustrie italiane e gli investimenti in nuove tecnologie, nella consapevolezza che la chimica “verde” non si declina soltanto in nuovi prodotti più sostenibili, ma soprattutto in nuovi modelli e in una nuova cultura capace di unire gruppi di interesse molto diversi – e spesso su posizioni opposte – attraverso la condivisione di un progetto comune di rigenerazione territoriale.

In generale, secondo lei qual è il ruolo dei cluster nel favorire lo sviluppo della bioeconomia in Europa?

Il ruolo dei cluster nazionali che operano nel settore della bioeconomia dovrebbe essere quello di mobilitare il sistema-paese verso obiettivi comuni, per definire una strategia che parta dai territori e dalle loro specificità. In questo senso, i cluster rappresentano lo strumento ideale per far convergere le diversità regionali dell’Europa verso un unico modello di sviluppo, preservando allo stesso tempo le peculiarità legate alla storia, al tessuto produttivo, agli aspetti geografici di ciascuno stato membro. 

L’Italia è uno dei pochi paesi in Europa che ancora non si è dotato di un Piano nazionale strategico per la bioeconomia. Come giudica questa lacuna?

L’Italia non ha ancora formalizzato il proprio Piano nazionale strategico ma, per certi versi, è già un modello di bioeconomia. Si pensi al caso virtuoso delle bioplastiche, che offrono soluzioni in grado di trasformare problemi ambientali – come quello del rifiuto organico – in risorse. Casi come questo dimostrano che l’Italia è ampiamente in grado di dar vita a modelli fortemente innovativi e sistemici, di esempio sia sul piano della competitività sia del consenso internazionale. Ricordo poi lo sforzo in atto di integrazione a monte della filiera delle bioplastiche, le innovazioni nel campo degli zuccheri di seconda generazione e il progetto di rilancio della petrolchimica in chiave sinergica con le nuove tecnologie basate sulle materie prime rinnovabili. Rimane in ogni caso fondamentale poter contare su una chiara strategia a livello nazionale, che individui tra le sue priorità la spinta a prodotti capaci di ridurre i costi delle esternalità sull’ambiente, sulla salute e sulla società e la cui produzione rappresenti una reale opportunità di rilancio delle aree in crisi. Solo così sarà possibile il salto, economico e culturale, per cui l’Italia è già pronta a livello tecnologico.

Quali sono i punti imprescindibili che dovrebbe contenere un Piano italiano?

L’Italia, rispetto ad altri paesi, presenta una serie di precondizioni che favoriscono il passaggio a un modello di sviluppo basato sulla bioeconomia: dalle caratteristiche geografiche alla struttura del settore agricolo, dalle infrastrutture al know-how di ricerca nel settore delle bioplastiche e della chimica da fonti rinnovabili. Inoltre non va dimenticato il problema dell’obsolescenza di alcuni comparti industriali non più competitivi a causa di mancata innovazione negli anni, i quali rischiano di bloccare ingenti risorse se non sostituiti o integrati da settori innovativi e vitali, in grado di ripensare la qualità ed efficienza ambientale dei prodotti e il loro sistema di produzione. Un Piano italiano dovrebbe guardare a tali precondizioni e farne dei punti di forza, partendo dalle tecnologie già disponibili e pronte al salto di scala per innescare un fenomeno di reindustrializzazione e rigenerazione territoriale, ovvero di contaminazione positiva di diversi comparti, creando valore e nuova occupazione non soltanto nell’industria chimica, ma lungo tutta la filiera, nonché nuove interazioni tra agricoltura, industria e tessuto sociale. 

Un altro tema fondamentale è quello degli standard. Per rilanciare la crescita dell’Italia è infatti fondamentale che i processi virtuosi appena descritti, oltre a portare a rapide ricadute della ricerca sull’industria, guardino allo sviluppo di nuovi prodotti che rispondano a elevati standard di qualità. Standard che siano in grado di far alzare “l’asticella”, puntando l’attenzione sul territorio e minimizzando i costi ambientali per i cittadini. Per rendere possibile tutto questo bisogna però superare il concetto di prodotto nella sua individualità, e considerarlo all’interno di un sistema di produzione-consumo-smaltimento e in relazione alle sue esternalità. 

Infine le bioraffinerie integrate nel territorio, attraverso la creazione di partnership tra pubblico e privato, hanno il potenziale per poter moltiplicare iniziative imprenditoriali e progetti educativi in grado di aiutare le nuove imprese innovative, dando al contempo opportunità altamente formative ai giovani diplomati, laureati, PhD e al bacino di persone uscite dal circuito del lavoro. 

Quali sono, dal suo punto di vista, i punti di forza e di debolezza della bioeconomia europea? 

La bioeconomia europea può vantare posizioni di leadership tecnologica sfruttabili da subito, coperte brevettualmente, con impianti produttivi appena costruiti o in via di costruzione, a fronte di un fenomeno di deindustrializzazione per la chimica tradizionale e per altri settori industriali. Gli aspetti su cui occorre lavorare oggi sono gli strumenti, di policy e finanziari, per consentire una rapida crescita industriale di settori che offrono soluzioni a problemi ambientali significativi, attraverso il riconoscimento del costo delle esternalità generate dai prodotti tradizionali. Questo comporterebbe il triplice beneficio di promuovere il salto di scala delle relative tecnologie, di diminuire i costi ambientali e di conquistare un vantaggio competitivo promuovendo le esportazioni di prodotti a più alto valore e diminuendo le importazioni di commodities. Un aspetto determinante, da questo punto di vista, è quello della rapidità: è necessario invertire la rotta, agire sulla velocità dell’innovazione per evitare che l’obsolescenza dei prodotti si traduca in ingenti costi di deindustrializzazione e di importazione.

C’è una misura particolare che si sente di consigliare al neo Presidente della Commissione europea Juncker per dare impulso alla bioeconomia?

Il settore della bioeconomia può diventare un formidabile motore per lo sviluppo dell’Europa, se governato con un approccio olistico che sia in grado di mettere a sistema industria, agricoltura, ambiente, educazione, ricerca, lavoro, finanza, puntando sulle materie prime agricole e gli scarti locali e sulle tecnologie che l’Europa ha sviluppato e sta sviluppando, in una logica di efficienza dell’uso delle risorse disponibili nei territori e di rispetto della loro specificità e cultura, valorizzando una molteplicità di prodotti ad alto valore aggiunto da filiere integrate lunghe. 

A questo proposito sarebbe essenziale attivare un comitato interdisciplinare per il governo della Bioeconomy Strategy, che eviti quanto successo in passato con un approccio troppo settoriale. Basti pensare all’energia, che è un servizio: qualsiasi misura specifica non dovrebbe prescindere dagli eventuali effetti sulle filiere industriali e sull’agricoltura.