Come riconoscere le connessioni esistenti fra la salute del suolo, la qualità del cibo e la salute dell’umanità in ottica sistemica?
Lo spiegano Franco Fassio dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo; Giusto Giovannetti, direttore ricerca e sviluppo del Centro colture sperimentali di Aosta; Sergio Capaldo, responsabile zotecnico per Slow Food; Marco Nuti, professore emerito dell’Università di Pisa - Sant’Anna School of Advanced Studies; Alberto Bruno, medico del coordinamento nazionale del gruppo interassociativo SID-AMD sulla “Neuropatia diabetica” di Torino.

La Circular Economy for Food deve essere rigenerativa
Franco Fassio

Esiste una connessione tra la salute del suolo e quella del nostro intestino? Le comunità microbiche rappresentano il perno su cui costruire un necessario dialogo tra gli attori del sistema: il cibo che ingeriamo deve essere “vivo” così come il suolo da cui è nato. Una riflessione che ci porta a riconoscere le connessioni esistenti fra la salute del suolo, la qualità del cibo e la salute dell’umanità.
Ma partiamo dall’economia circolare, paradigma economico che ha l’obiettivo di favorire un modello di sviluppo rigenerativo e di riconnettere l’uomo agli equilibri ecosistemici, ricostruendo quel tessuto ecologico che sostiene la vita sulla Terra e che l’uomo sta compromettendo con incredibile voracità. Le maglie di questo tessuto sono costituite dalla biodiversità – anche microbica – caratterizzata da connessioni micro e macro tra unità ecologiche e in cui ciò che è cruciale sono i contenuti degli scambi tra i vari attori del sistema: flussi di materia, energia ed informazioni. Più attori caratterizzano il sistema, più le maglie del tessuto ecologico sono interconnesse, più è alto il peso che l’ecosistema può sostenere, incrementando dunque la sua resilienza. Siamo di fronte a sistemi annidati dentro altri sistemi, una situazione in cui il cibo rappresenta l’unità base di connessione.

L’intero food system dipende da questo tessuto e la crescita economica basata sul modello lineare (produci, consuma, dismetti), ne sta riducendo le interconnessioni, ne assottiglia le maglie, generando omologazione e disuguaglianza.
Ma perché siamo giunti a questo punto apparentemente senza ritorno? Le similitudini tra l’essere umano e la natura sono impressionanti: fisicamente, esteticamente, sotto il profilo energetico, nel contesto in cui viviamo, si ripetono schemi, modelli e dinamiche. Eppure c’è qualcosa che ci differenzia: come umanità tendiamo costantemente a scomporre la complessità che ci circonda in logiche lineari di pensiero. In particolar modo negli ultimi secoli, l’umanità ha costruito logiche analitiche e razionali, utilizzando modalità lineari di calcolo tipiche dell’emisfero sinistro del cervello come unico strumento di conoscenza e valutazione, perdendo quasi totalmente il contatto con l’intuito, l’analogia, la circolarità, l’interrelazione, la sincronicità, tutte capacità dell’emisfero destro.
La specializzazione ha preso il sopravvento sulla visione d’insieme, la produttività sulla qualità della vita, il rendimento sul benessere. È a causa di questo modo lineare di pensare che, per esempio, il degrado ambientale e sociale, sono emersi come evidenti errori del sistema progettato.
Analizzando l’insostenibilità del nostro modello produttivo, in particolar modo quello del cibo, ci accorgiamo che stiamo assistendo a una vera e propria crisi della ragione. Mentre accumuliamo nelle discariche prodotti non metabolizzabili dal sistema, la stessa cosa accade in maniera meno evidente nel nostro corpo nel quale introduciamo un numero considerevole di sostanze chimiche (microplastiche, antibiotici, fungicidi, insetticidi, erbicidi ecc.) che modificano i nostri equilibri fisiologici. Appare evidente che lavoriamo per alimentare l’economia in sé, più che per rispondere ai reali bisogni primari dell’umanità. Dunque, diventa urgente cambiare paradigma, affinare la nostra capacità di capire le parti, vedere le interconnessioni, per applicare questo modello al cibo generando una leva per il cambiamento. D’altronde non dovrebbe essere una cosa così difficile da comprendere poiché la “circolarità” appartiene all’uomo e all’ambiente in cui vive. L’uomo è un sistema aperto con dinamiche circolari al proprio interno, come per esempio quella che inizia quando mangiamo qualcosa. Infatti, il cibo è il mezzo attraverso cui inizia il processo circolare di metabolizzazione della materia nell’organismo umano e la sua consequenziale trasformazione in energia per la vita: noi siamo ciò che mangiamo.
Non si tratta quindi esclusivamente di ridurre gli sprechi trovando loro una nuova destinazione d’uso. Partire dal cibo per sviluppare un cambio di paradigma economico in chiave circolare vuol dire riportare l’attenzione alle comunità, alla qualità delle relazioni e alla sostanza dei comportamenti. Significa evitare di compromettere i rapporti con il miglior fornitore di materia prima che il genere umano conosca, passando da un’economia lineare che in apparenza crea abbondanza ma te la serve in un piatto alquanto fragile, a una circolare, rigenerativa, progettata per dialogare con la Natura. Con certezza, l’attuale sfida geopolitica del “sistema cibo” è quella di rivoluzionare il modello produttivo partendo da una corretta gestione del capitale naturale a cui è associato quello culturale, rispettando i limiti planetari e offrendo allo stesso tempo uno spazio equo alla società civile.
Rigeneriamo questa consapevolezza partendo dal preservare ciò che calpestiamo tutti i giorni: il suolo.

Il biota microbico e la salute del suolo
Giusto Giovannetti

Dagli albori dell’agricoltura fino alla fine della Seconda guerra mondiale, chi coltiva la terra ha sempre privilegiato la concimazione organica dei suoli coltivati con l’uso di un ammendante costituito dalle feci degli animali allevati, opportunamente compostato per alcuni mesi con l’aggiunta di foglie, paglia e di altri scarti delle lavorazioni. La concimazione dei suoli agrari con questo apporto di sostanza organica – e del biota microbico in essa contenuto – ha caratterizzato la storia dell’agricoltura per millenni: le fattorie romane prevedevano l’allevamento degli animali anche per l’apporto del letame che sarebbe stato utilizzato per la concimazione dei suoli. Questo tipo di ammendante apportava al suolo oltre agli elementi necessari per la crescita delle piante anche il biota microbico in esso contenuto, necessario alla formazione del complesso sistema simbiotico delle piante coltivate con i microrganismi, oltre che per l’aumento della percentuale di sostanza organica del suolo. Il biota microbico contribuiva a regolare lo sviluppo delle piante, la loro resilienza contro i patogeni e la produzione dei metaboliti secondari, dei profumi, dell’aroma dei prodotti ottenuti. In pratica contribuiva alla qualità dei prodotti agrari, e indirettamente alla formazione del biota microbico intestinale umano, oggi a ragione ritenuto responsabile della nostra salute.

Dagli anni ’50 le normative del ministero dell’Agricoltura riguardanti i fertilizzanti e gli ammendanti hanno dimenticato di prendere in considerazione la componente microbica: non è obbligatorio indicare la quantità di microrganismi (unità formanti colonie) presenti nell’ammendante.
Essendo la quantità di microrganismi divenuta un elemento secondario non viene indicata quasi mai e gli agricoltori hanno dimenticato i microbi e il biota microbico che l’ammendante potrebbe contenere nel caso in cui non siano stati eliminati durante i processi di produzione.
Un ammendante è in regola secondo le norme anche se non contiene microbi, come nel caso dell’ammendante pellettato. Per ottenerlo si elimina la quasi totalità dei microrganismi presenti: la forte pressione nella fase di formazione del pellet ne sterilizza la vita biologica annientando così il biota microbico.
Nel nuovo regolamentoeuropeodei fertilizzanti del 2019, dopo circa 70 anni di assenza, i bioti microbici sono nuovamente presenti. È stata prevista la nuova categoria dei “biostimolanti microbici”, anche se per essi non è permesso attribuire nessun effetto biotico sulle piante, intendendo cioè che i biostimolanti non possono avere nessuna capacità di contrasto con i patogeni e neanche aumentare la resilienza delle piante. Purtroppo però, il nuovo regolamento non prevede che i bioti possano avere la proprietà di migliorare la crescita delle piante e allo stesso tempo la capacità di indurre resistenza. Questa norma europea così proposta, rischia di proteggere esclusivamente alcuni ceppi di microrganismi che sono stati iscritti nel registro dei fitofarmaci (circa 50 ceppi negli ultimi anni), creando un monopolio della capacità di contrasto ai patogeni. In Asia, Stati Uniti e America Latina i regolamenti non applicano questa distorsione delle verità scientifiche; solo l’Europa è stata capace di attuare una discriminazione di questo tipo.
I bioti che hanno efficacia sulla crescita delle piante hanno in genere anche efficacia nell’attivare la resilienza ai patogeni: il regolamento separa quello che in natura è indivisibile. Un altro frutto del pensiero lineare.

Suolo sano, piante sane, cibo sano
Marco Nuti

Nell’ultimo decennio c’è stato un impressionante avanzamento di conoscenze sul ruolo dei microbiomi nell’organismo umano, nella rizosfera delle piante coltivate e non, nella caulosfera (gli endofiti delle piante coltivate e non) e nel terreno. Le evidenze sperimentali, pubblicate anche nella letteratura scientifica, sono sia di tipo diretto sia indiretto. Diretto, stabilendo un nesso causa-effetto per la presenza, quantità e qualità dei microbiomi; indiretto, valutando gli effetti delle alterazioni dei microbiomi sulla salute del suolo, delle piante, umana.
Iniziamo da quest’ultima. Quando si verificano delle disbiosi, cioè alterazioni del microbioma, per effetto di stress ambientali sia biologici sia abiologici, incluse diete inappropriate, possiamo essere colpiti da un certo numero di malattie. Tra queste obesità, ansietà, diabete di tipo 2, alterazioni del sistema immunitario, alterazioni delle funzioni cognitive.
Possiamo però contare sulla somministrazione di prebiotici (per esempio i Fos, fosfo-oligosaccaridi e i Gos, gluco-oligosaccaridi) o di probiotici (preparati a base di microrganismi, mono-ceppo o multi-ceppo) che allevieranno i sintomi, contrastando le disbiosi e aiutando a prevenirle. Quando le disbiosi colpiscono le piante, sia nel motore della nutrizione (rizosfera) sia in altre parti (caulosfera o fillosfera), la coltura comincia a manifestare i segni evidenti della malnutrizione e diminuzione o scomparsa della resilienza ai fattori biotici e abiotici e la pianta sarà più soggetta a contrarre malattie e per essere preda dei fitopatogeni.
In questi casi si dovranno affrontare cause e concause delle disbiosi, utilizzando una varietà di bio-effettori, biostimolanti, biopesticidi a basso impatto ambientale che sono stati sviluppati negli ultimi dieci-quindici anni nel contesto della smart agriculture e che sono attualmente normati per la loro immissione sul mercato dai Regolamenti Ue 1107/2009 e Ue 1009/2019. L’effetto dell’uso di questi prodotti sarà quello di alleviare i sintomi e ristabilire la resilienza delle piante. L’uso di piante sane e robuste, sprovviste di aflatossine e micotossine in generale e ben provviste di principi nutritivi (vitamine, antiossidanti, composti anti-radicalici) influirà direttamente sulla nostra dieta alimentare e sulla nostra salute.
Anche il microbioma del suolo può andare incontro a disbiosi con alterazioni che saranno tanto più gravi quanto minore sarà il contenuto in sostanza organica e maggiore il carico d’inquinanti di sintesi che i microorganismi non sono in grado di degradare o di salinità. Negli ultimi cinque anni, a seguito della messa a punto di adeguati strumenti d’indagine, è stato dimostrato che sull’equilibrio e sulla biodiversità del microbioma terricolo possono influire le pratiche agronomiche quali lavorazioni (per esempio minimum tillage oppure no-tillage), concimazioni, uso di ammendanti compostati, uso d’inoculanti microbici (per esempio micorrizici). Anche se al momento non sembra possibile ristabilire l’equilibrio e la salute di un suolo in tempi brevi, la strada è tracciata per curarne le disbiosi e per recuperarne una sana coltivabilità. Suolo sano, piante sane, cibo sano.

2 MR31 fassio3

La correlazione tra microbioma e diabete
Alberto Bruno

Il diabete è una malattia cronica in continuo aumento in tutto il mondo che interferisce sulla qualità della vita. L’aumento della percentuale di diabetici è sicuramente in relazione al cambiamento delle abitudini alimentari, ma stanno emergendo nuove valutazioni scientifiche a sostegno del fatto che responsabili di questa epidemia non siano solo la quantità di cibo consumata o la sua erronea composizione. Sicuramente, infatti, un ruolo importante nell’aumento dei nuovi casi di diabete e obesità va ricercato nei rapporti tra cibo e intestino.
L’uomo è un animale in grado di nutrirsi con ciò che trova e le diete variano moltissimo secondo le condizioni ambientali. Per esempio è iperproteica per gli inuit della Groenlandia che si cibano quasi esclusivamente di pesce o iperglucidica per i giapponesi che si alimentano con il riso, senza che questi estremi comportino variazioni nella comparsa delle malattie.
Analizzando le evidenze che possono contribuire all’epidemia di diabete meritano attenzione: tra gli altri la composizione batterica degli alimenti, l’epigenetica durante la gravidanza, l’aumento dell’età materna, le alterazioni del sonno, la riduzione della variabilità delle temperature ambientali, la strutturazione dell’ambiente cittadino, la riduzione del tempo libero, la povertà e il disagio sociale.
I microrganismi sono presenti in noi sin dalla nascita, trasmessi direttamente dalla madre ancor prima del parto, successivamente il neonato viene colonizzato al contatto diretto con il corpo della madre e l’allattamento. Nell’ambito della microflora normale, quella intestinale riveste un ruolo rilevante per quantità e per l’influenza esercitata sulla salute dell’ospite e rappresenta il più complesso ecosistema umano. Questo ecosistema batterico che si trova a stretto contatto con la mucosa intestinale condiziona la “barriera mucosale”, importantissimo sistema di difesa nei confronti dei fattori esterni. Questa barriera separa il materiale presente nel lume intestinale (residui dell’alimentazione e delle secrezioni dell’apparato gastrointestinale) dal sistema immunitario specifico e il contenuto batterico è in grado di condizionarne tutti gli elementi favorendo l’insorgenza di numerose malattie: diabete di tipo 2, malattie cardiovascolari, obesità, allergie, cancro e altro ancora.
Negli ultimi anni sono aumentate le nozioni su come il contenuto batterico intestinale possa condizionare anche le nostre scelte alimentari aumentando il consumo di sostanze a loro più gradite e come le disbiosi delle madri possano favorire l’aumento di peso nei figli. La componente batterica intestinale che presenta una stretta associazione famigliare ed etnica può spiegare l’aumento della prevalenza di diabete in alcune famiglie o gruppi etnici.
Noi non siamo più responsabili del contenuto batterico di ciò che mangiamo che è conseguenza della filiera alimentare. Per esigenze produttive e per far fronte alla domanda di cibo gli agricoltori fanno ricorso a coltivazioni con basso contenuto genetico (monocolture), gli allevatori forniscono mangimi selezionati dove questa povertà genetica si trasferisce ai prodotti alimentari e l’industria alimentare trasforma questi elementi in prodotti finiti dove la sterilità e la lunga conservazione sono requisiti indispensabili. Una catena che fa arrivare al consumatore finale un prodotto con pochissima varietà genetica che impoverisce l’apporto microbiologico quotidiano. Ora, se viene a ridursi la componente variabile del microbiota legata a una alimentazione varia e non trattata possono prevalere nell’intestino i batteri derivanti dalla madre al momento del parto e dell’allattamento. Questo contenuto batterico non è derivato da un danno genetico ma può essere favorito dall’azione epigenetica che i batteri sono in grado di esercitare direttamente.
Sappiamo che lo sviluppo embrionale non è soltanto condizionato in modo meccanicistico dai propri geni, ma risponde in modo plastico alle influenze che derivano dall’ambiente. In altri termini, non contano soltanto i geni, ma anche il modo con cui questi esprimono la loro attività. La sensibilità dei geni a vedere modificata la propria espressione è massima proprio durante la gestazione quando l’embrione è maggiormente sensibile alle variazioni dell’ambiente intra-uterino. Questi effetti sono stati associati ad alterazioni epigenetiche.
Letteralmente “epigenetica” significa “sopra la genetica: essa conferisce un ulteriore livello di informazione stratificato sopra le informazioni sulla sequenza del Dna. L’epigenetica è una scienza giovane che è in grado di spiegare alcuni meccanismi relativi alla predisposizione e alle complicanze del diabete di tipo 2, laddove la medicina e la sola genetica sono insufficienti. Poiché i meccanismi epigenetici sono suscettibili alle influenze ambientali, specialmente durante lo sviluppo, emerge un potenziale percorso causale in cui alcuni fattori ambientali contribuiscono alla patologia del metabolismo.
Molte sostanze alimentari presenti nel cibo hanno la potenzialità di causare cambiamenti epigenetici nell’uomo, tra queste sono sempre più presenti sostanze derivanti dall’inquinamento di acqua, aria e terra definite come “interferenti endocrini” (endocrin disruptors). Gli interferenti endocrini sono composti sintetici che assorbiti dal corpo umano imitano gli effetti degli ormoni. La pericolosità di queste sostanze generalmente si rende evidente molti anni dopo l’inizio del loro impiego e si accumulano lungo la catena alimentare raggiungendo le massime concentrazioni negli animali consumatori terminali della catena e tra questi nell’uomo.
Nel rapporto causale tra alimentazione e diabete è dunque di fondamentale importanza lo stato di salute del cibo già a partire dalla nutrizione materna che è in grado di influenzare lo sviluppo della placenta e del feto. Se la madre è obesa o è affetta da diabete gestazionale, se c’è un eccesso di nutrizione materna o un eccessivo incremento di peso durante la gravidanza, o vive in ambienti fortemente inquinati, aumenta il rischio che i figli, in età adulta, soffrano di obesità, diabete di tipo 2, sindrome metabolica e patologie correlate.
Se diventa sempre più difficile operare una scelta efficace per il cibo da consumarsi tutti i giorni, abbiamo alcuni dati su cui ragionare. Primo: spendiamo poco per il cibo perché non gli diamo il giusto valore e preferiamo utilizzare i nostri soldi per cose che crediamo più importanti. Secondo: alcune malattie – come il diabete, l’obesità, le allergie, le demenze – hanno avuto un incremento esponenziale negli ultimi 50 anni probabilmente non giustificato da un generico maggior consumo di cibo. Terzo: le fonti di inquinamento sono ubiquitarie, non esiste cima Himalayana o deserto di ghiaccio o sabbia che sia incontaminato. Infine, avere coscienza di questa situazione è l’unica arma a nostra disposizione.

Buone pratiche

I bioti microbici di Ccs Aosta

Dal 1999 Ccs Aosta, Centro colture sperimentali produce diversi bioti microbici per l’agricoltura. Da 20 anni questa azienda – che partecipa al progetto europeo di ricerca “Simba” (Horizon 2020) il cui focus principale è la ricerca di un consorzio microbico da applicare nell’agricoltura ecosostenibile – rappresenta un’eccezione nel panorama internazionale. Infatti, è grazie al Ccs se nel 2005 nel regolamento dei fertilizzanti europeo i bioti microbici sono stati riconosciuti e resi commerciabili. Impiegare i bioti microbici nelle coltivazioni agrarie permette di cambiare i protocolli di produzione normalmente usati, aumentando le rese, riducendo i costi e incrementando la qualità dei prodotti ottenuti. Oltre a consentire di ridurre il consumo di acqua, fosforo, azoto, potassio e fitofarmaci.
Un esempio dell’utilizzo di un biota microbico – denominato Micosat (www.micosat.it ) prodotto da Ccs Aosta – lo troviamo nel Vivaio cooperativo di Bronte. Qui ogni anno si producono circa 100 milioni di piantine, il 25% di tutte le piantine di ortaggi coltivati in Veneto, tra cui il famoso radicchio. Le piante che sono inoculate al momento della semina portano con sé il biota microbico fino alla raccolta del prodotto. Un effetto imprinting che rafforza la pianta rispetto ai patogeni, ne migliora la produzione, la qualità e permette al consumatore di beneficiare di un cibo che ha anche una ricca componente microbica che a sua volta condizionerà positivamente il biota microbico intestinale umano. Coltivare in modo corretto nel rispetto della natura, della storia della nostra agricoltura, e nel rispetto anche della biodiversità microbica è possibile. Da anni, infatti, questa pratica è applicata con successo ed è una delle principali dell’agricoltura simbiotica (un processo di coltivazione e allevamento che prevede l’uso di una microbiologia positiva come funghi, batteri e lieviti, ndr).

La Granda, un esempio di agricoltura simbiotica

La Granda (www.lagranda.it ) è una realtà che interpreta un nuovo modo di produrre carne, che inizia già dalla terra, perché se la terra è “buona” ne beneficia tutta la filiera. Questa associazione, che a oggi conta 85 allevatori, si fonda su un rigido disciplinare che regolamenta non solo l’allevamento e l’alimentazione, ma anche la lavorazione della terra da cui derivano i foraggi per gli animali.
Il metodo di lavorazione della terra si basa sull’agricoltura simbiotica, un sistema di produzione agroalimentare che mira al ripristino, mantenimento, miglioramento della biodiversità e funzionalità microbica dei suoli e all’aumento della resilienza degli agroecosistemi attraverso l’attività dei microorganismi dei suoli. L’agricoltura simbiotica pratica l’utilizzo di “batteri amici”, essenziali per la biodiversità, la fertilità del suolo e la qualità dei foraggi. L’equilibrio del terreno è possibile anche grazie alle micorrize, un’associazione simbiotica tra le piante e un fungo buono, che arricchisce e naturalizza il terreno, migliorando via via la struttura del suolo e rendendolo così molto più adatto alla coltivazione di vegetali per l’alimentazione animale e umana. Attraverso l’inoculo di composti microbici e micorrize nel terreno si garantisce la salute del suolo e, anno dopo anno, si migliora la fertilità. La pianta, grazie a funghi e batteri buoni, è più forte e resistente verso le malattie e i parassiti.
Con questo sistema l’azienda agricola da semplice fornitrice di prodotti, e in balia di un mercato sempre meno remunerativo, può diventare fornitore di servizi, con un impiego diretto nella tutela del territorio, dell’aria, dell’acqua e del suolo, comunicabile al consumatore finale. Così facendo si possono valorizzare le produzioni sia economicamente sia qualitativamente, permettendo al produttore di ottenere nuovi vantaggi.
La Granda, in pratica, ha riportato l’uomo, l’animale e la natura al centro della filiera alimentare, restituendo valore sociale ed economico al ruolo del contadino/allevatore, dando all’animale la possibilità di crescere in modo naturale e sano e alla natura la possibilità di autoregolarsi, auto-proteggersi sopra e sotto il livello del suolo. Il tutto a beneficio del consumatore.