Perché parlare di cibo ed economia circolare?

La gestione lineare che ha caratterizzato il sistema produttivo e di consumo del cibo nell’ultimo secolo è stata causa di degrado ambientale e sociale, ha contribuito all’impoverimento della dotazione di capitale naturale e culturale, ha prodotto inquinamento dal campo allo stomaco, proponendo un cibo spesso povero di nutrienti come di valori. Questa economia ha mostrato come l’umanità può divenire un essere vorace, che preleva risorse dagli ecosistemi e le reimmette nei cicli naturali destabilizzando gli equilibri. Ne sono un chiaro esempio lo spreco di cibo e le perdite alimentari che pesano1/3 di quanto prodotto, quantità che per ben 4 volte potrebbe nutrire i 795 milioni di persone che oggi soffrono la fame. 

È dunque evidente come la relazione tra uomo e natura non sia più figlia di una logica win-win, ovvero votata alla soddisfazione reciproca degli attori facenti parte dello stesso sistema e che ci si trovi piuttosto in una situazione lose-lose, in cui sia l’umanità che gli ecosistemi stanno perdendo le loro chance di sopravvivenza. 

Il potenziale impatto e i benefici che deriverebbero dal passaggio ad una logica circolare e sistemica, sono enormi: maggiore stabilità e salute degli ecosistemi, recupero del saper condividere, cooperare, essere consapevolmente responsabili e trarre benefici da un benessere diffuso. Lo sviluppo tecnologico e la diffusione dei saperi hanno effettivamente traghettato l’umanità fino ai giorni nostri in una condizione in cui siamo in grado di sfamare più di 7 miliardi di persone, ma che in cambio, consegna alle future generazioni, al netto delle forti disuguaglianze, una situazione sicuramente non promettente e per certi aspetti già compromessa.

L’economia circolare va quindi intesa come una giusta “dieta”, nell’accezione originaria del termine, dal greco diaita, modo di vivere. Al cibo va riconosciuto il suo potenziale strategico nelle sue specificità di ambito di vita e settore produttivo non paragonabile ad altri. Attraverso il cibo passa la nostra alimentazione corporea, ma anche la natura del nostro rapporto con il mondo e con gli altri. Il cibo quindi può farsi portatore e incarnare i principi dell’economia circolare ma può anche supportarla nell’individuare un binario di evoluzione teorico-pratico e nel calibrarne gli obiettivi. 

In un sistema alimentare, opportunamente orientato, l’economia circolare può dunque trovare un prezioso alleato per aspirare al raggiungimento di molti, se non alla totalità, degli Obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Onu (SDG’s) oltre che rilanciare lo sviluppo in molte economie emergenti e risanare il settore agricolo dei paesi industrializzati.

 

 

I portatori del cambiamento

Ma nel concreto come si sostanzia l’economia circolare applicata al sistema alimentare? Una delle risposte è nata all’interno del gruppo di ricerca “Circular Economy for Food. Materia, energia e conoscenza in circolo” dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, in Italia. Un’attività che ha portato alla catalogazione di più di 150 case history, nazionali e internazionali, alcuni dei quali riportati nell’omonimo libro uscito per Edizioni Ambiente e riprese in questo focus di Materia Rinnovabile.

Pur trattandosi di esperienze molto diverse fra loro per dimensione aziendale, posizione all’interno della filiera alimentare, tipologia di prodotto, materia prima seconda o servizio al centro dell’azione di circolarità (dal tutolo del mais al melasso da barbabietola, dalla sansa di olive ai gusci di nocciola passando attraverso il confronto con le specificità dei materiali che popolano il complesso e articolato mondo del food system), due, sono le parole chiave intorno alle quali si articolano le esperienze di circolarità studiate: upcycling ed ecodesign.

L’upcycling rappresenta la trasformazione di ciò che erroneamente viene considerato rifiuto o di scarso valore in una nuova risorsa per un altro ciclo produttivo o di consumo. A differenza di quanto avviene tradizionalmente con i processi di riciclo in cui spesso si determina una perdita di valore della materia (downcycling), il valore materiale/immateriale e/o relazionale è mantenuto o addirittura incrementato, riducendo al contempo i costi, non trascurabili, dello smaltimento, specie in caso di rifiuti ritenuti speciali dalla normativa. Questo è il caso di Duedilatte e di Vegea che ottengono fibre tessili rispettivamente dai sottoprodotti del latte e dal vino. Sempre di upcycling si tratta quando bucce e torsoli di mela diventano carta nell’azienda Frumat; o quando i gusci di nocciola sono trasformati in granuli vegetali per attività di vibro-finitura, lucidatura e sabbiatura con Agrindustria o utilizzati come nel caso di Ferrero per la produzione di cartoncino da imballaggio o per l’estrazione di fibre probiotiche.

L’altra parola chiave è ecodesign. Si parla in questo caso della scelta di impiegare risorse “circolari” poiché riutilizzabili, a volte (quasi) infinite volte come nel caso del vetro e dell’acciaio per il packaging, di privilegiare risorse materiali ed energetiche rinnovabili, di mantenere la purezza della risorsa nei diversi passaggi della catena del valore optando per la mono-materialità e l’assenza di contaminazioni o adottando nuove tecnologie per favorire le operazioni di disassemblaggio e recupero, di agevolare la diffusione di pratiche di condivisione. La prossimità assume un nuovo valore, sia nelle scelte di utilizzare razionalmente risorse localmente disponibili e nella ricerca di soluzioni creative per il loro utilizzo, sia nel valore attribuito alle relazioni di simbiosi industriale e territoriale a scala locale. In tal senso è esemplificativo il caso della bevanda analcolica Unico, realizzata dalla Lurisia Acque Minerali e prodotta con un 70% di uva barbera e 30% purè di mele, pere e pesche. Il caso studio ben rappresenta le potenzialità della circolarità nel trovare risposte a bisogni contingenti e locali, quali nel caso specifico la crisi del mercato piemontese dell’uva barbera, che altrimenti avrebbe rischiato di rimanere sui tralci a fronte di un costo di raccolta troppo oneroso rispetto ai prezzi praticati. La produzione della bevanda Unico, è stata realizzata dal 2013 al 2016, fintanto che il mercato dell’uva barbera non si è nuovamente stabilizzato, mostrando in tal senso anche il valore di adattamento della circolarità a temporanee situazioni di creazione di perdite alimentari (come in questo caso) o sprechi.

Il mercato insomma mostra, in tutto il mondo, come le imprese vadano sempre più nella direzione di generare nuove relazioni di simbiosi, sinonimo di responsabilità condivisa, e verso la creazione di nuove opportunità di sviluppo e lavoro. Progressivamente, sta evolvendo il concetto di qualità di prodotto, estendendosi nel tempo e allargandosi all’intera catena produttiva, ridefinendo i termini del contratto tra consumatore e produttore, verso un nuovo paradigma per la costruzione di relazioni ambientali, economiche e sociali maggiormente integrate.

Si sta generando lentamente un contesto in cui, grazie alla Circular Economy for Food si svilupperà un concetto di “qualità di sistema” e di “comunicazione valoriale di sistema” in un’ottica di simbiosi che da industriale deve passare ad essere anche comunicativa. Dunque l’agro-economics deve ragionare sempre più sulla catena del valore delle risorse in un’ottica di circolarità inserita in sistemi aperti (foodsystem), contribuendo in questa maniera allo sviluppo della sovranità alimentare dei popoli, tassando le risorse e non il lavoro. L’economia circolare associata ai temi del cibo è una grande opportunità che può completamente ripensare la Rivoluzione Verde e rispristinare il matrimonio quotidiano tra due attori dello stesso sistema, l’uomo e il cibo, condividendo la cattiva e la buona sorte. 

 

F. Fassio, N. Tecco, Circular Economy for Food, Edizioni Ambiente 2018; www.edizioniambiente.it/libri/1197/circular-economy-for-food

 

 

Gli impatti dell’agricoltura lineare

La produzione di cibo è una delle principali cause della perdita di biodiversità a livello mondiale, per il suo impatto sugli habitat naturali e del sovrasfruttamento di alcune specie. La Fao stima che il 75% delle varietà delle colture agrarie siano andate perdute e che i 3/4 dell’alimentazione mondiale dipendano da appena 12 specie vegetali e 5 animali. Tale perdita di agrobiodiversità si riflette direttamente sul cibo: su circa 30.000 specie commestibili presenti in natura, le colture alimentari che, da sole, soddisfano il 95% del fabbisogno energetico mondiale sono appena 30. Tra queste, frumento, riso e mais forniscono più del 60% delle calorie che consumiamo. L’agricoltura industriale, basata su produzioni intensive, monocolture, su un numero ristretto di specie vegetali ed animali, su input esterni di sintesi (come fertilizzanti e pesticidi), occupa circa il 34% della superficie totale del pianeta e circa la metà della sua superficie abitabile. Si stima che la produzione agricola rappresenti la causa del 69% dei prelievi di acqua e a causa di ciò, entro il 2030, circa 3 milioni di persone non avranno un facile accesso all’acqua potabile. Insieme agli altri attori del sistema alimentare, la produzione agricola è responsabile di circa il 30% delle emissioni di gas serra. Di 1,5 miliardi di ettari di terre coltivate a livello mondiale, 1/3 è utilizzato per produrre alimenti per animali mentre altri 3,4 miliardi di ettari sono usati come pascolo. Tuttavia i prodotti di origine animale rappresentano solo il 17% delle calorie e il 33% delle proteine consumate dagli esseri umani a livello globale. A causa dell’agricoltura intensiva, il 25% dei suoli del pianeta è gravemente impoverito e il 30% dei terreni coltivabili è diventato improduttivo. Se consideriamo che le stime degli incrementi demografici ci dicono che nel 2050 la popolazione mondiale supererà i 9 miliardi e mezzo di persone, questo “traguardo”, con l’attuale modello di consumo, richiederà un aumento della produzione agricola del 70%.

In questo quadro produttivo, ogni anno, 1 miliardo e 300 milioni di tonnellate di cibo destinato all’uomo, diventa scarto per un totale pari a circa 8.600 navi da crociera. Il valore economico del cibo sprecato a livello globale unito alla stima dei costi connessi all’ambiente ed alla società, è di 2.600 miliardi di dollari all’anno. 

Il rischio di mortalità per patologie legate alla cattiva alimentazione, ha superato quello relativo a malattie determinate da insufficiente apporto calorico. Mentre 795 milioni di persone soffrono la fame circa 1,5 miliardi di persone sono obese o in sovrappeso. Nel mondo, circa 36 milioni di persone muoiono ogni anno per la carenza di cibo mentre 29 milioni, per patologie connesse all’eccesso di cibo.

È evidente che stiamo vivendo una vera e propria “crisi della ragione” quando scopriamo che servirebbero circa 267 miliardi di dollari l’anno per eliminare la fame nel mondo entro il 2030 ovvero più o meno lo 0,3% del pil mondiale.

 

CASE HISTORY: BACARDI

Un passo innovativo verso la risoluzione di queste problematiche è stato fatto da Bacardi, leader mondiale nella produzione e distribuzione di bevande alcoliche che da anni mette in campo molte azioni per ridurre il proprio impatto ambientale e in particolare i consumi di energia e le emissioni di gas a effetto serra. Con la linea di Vodka 42 Below, il gruppo Bacardi ha lanciato in Australia e Nuova Zelanda un’innovativa campagna per il recupero di agrumi e olive dai bicchieri dei cocktail. I locali che li servono raccolgono il materiale organico, che altrimenti finirebbe in discarica, lo accumulano e poi lo consegnano alla stessa Bacardi. Nel 2016, a tre mesi dall’avvio dell’iniziativa, sono stati recuperati 400 chilogrammi di materiali organici da circa 3.200 cocktail. Quantità che ha permesso di creare 20.000 confezioni monouso di sapone e più di 400 dispenser di medie dimensioni, successivamente ridistribuiti ai locali coinvolti.

Gli agrumi e le olive, infatti, sono alla base di diversi prodotti cosmetici e detergenti grazie all’olio essenziale che viene ricavato dalla scorza o dalla polpa del frutto. Il recupero di tale scarto risponde alle esigenze del consumatore, ma in particolare dell’industria cosmetica che può così, per esempio, ricavare l’aroma dalla buccia di veri limoni invece che da sostanze artificiali. Grazie alla raccolta degli scarti in due settimane un locale, con buona affluenza di clienti, può produrre in media 25 litri di sapone.

 

CASE HISTORY: BALADIN

Il birrificio è stato fondato nel 1996 a Piozzo inizialmente come semplice brewpub, dal 2012 Baladin è a tutti gli effetti birrificio agricolo. Il nuovo birrificio – inaugurato a luglio 2016 con una capacità produttiva di 50.000 ettolitri – ha puntato al rispetto dell’economia del territorio e all’uso efficiente della materia prima, con una particolare attenzione alla rigenerazione degli scarti e all’utilizzo di energia prodotta da fonti rinnovabili. Baladin si propone di perseguire un modello di “autarchia produttiva” in tutti gli step (con l’eccezione di alcune spezie), in modo da ridurre l’impatto a livello ambientale, assumendosi la responsabilità dell’intero ciclo di produzione delle proprie birre e l’ambizione di raggiungere la completa autonomia nella fornitura delle principali materie prime. Dal 2016 l’azienda gestisce direttamente un appezzamento di un ettaro, a 800 metri dal birrificio nel Comune di Piozzo. Per l’indipendenza energetica “circular”, la sede della società di distribuzione sostiene il proprio fabbisogno grazie a 1.800 metri quadrati di pannelli solari, mentre il birrificio è alimentato da energia certificata da fonti rinnovabili come l’eolico.

Attualmente l’azienda sta portando avanti molte sperimentazioni per progettare un ciclo di produzione a “rifiuti zero” in cui gli scarti diventano fonte di energetica o materia seconda per nuovi prodotti. A partire dalla produzione di una tonnellata di trebbie al giorno, risultanti dal processo di birrificazione, oltre alla consueta opzione di valorizzarle come alimento per bestiame e concime è in fase di progettazione un impianto di generazione di calore da biomassa a partire dalla disidratazione e combustione delle stesse. Ulteriori sperimentazioni stanno portando l’azienda a ragionare sulla possibilità di produrre, sempre a partire dalle trebbie, altri prodotti alimentari come biscotti.

 

CASE HISTORY: LAVAZZA

Lavazza, azienda torinese leader nel settore della produzione di caffè, ha sviluppato una capsula compostabile in collaborazione con Novamont, operante nel settore delle bioplastiche. Avviato nel 2010 il progetto ha richiesto oltre 5 anni di sperimentazioni focalizzate sulla ricerca di un materiale performante e sostitutivo delle plastiche comunemente utilizzate. È quindi nata la capsula compostabile per caffè espresso italiano realizzata in Mater-Bi, una bioplastica ottenuta dall’utilizzo di componenti vegetali e perfettamente biodegradabile. La nuova capsula, una volta esausta, può quindi essere gettata nell’umido e avviata al compostaggio industriale: dopo circa 75 giorni, quando il processo di degradabilità è completo, si ha una totale trasformazione delle sostanze organiche di partenza in molecole inorganiche semplici che rendono possibile che sia l’involucro sia i residui di caffè diventino compost per il terreno. In questo modo, la capsula compostabile diventa anche un incentivo alla pratica domestica della raccolta differenziata dell’umido.

L’attenzione dedicata al fine vita della capsula contribuisce dunque a ridurre ulteriormente il quantitativo di rifiuti prodotti e a consolidare l’impegno dell’azienda nei confronti dell’ottimizzazione degli imballi e dei processi, in una prospettiva di sviluppo circolare: un ambito in cui Lavazza si cimenta da molti anni.

 

CASE HISTORY: LUFA FARMS

Lufa Farms sta reinventando un sistema alimentare che non funziona più, utilizzando lo spazio sui tetti urbani per produrre cibo da vendere localmente. L’azienda canadese, con sede a Montreal, sta integrando lo sviluppo della filiera alimentare nel tessuto urbano. Un elemento fondamentale per trasformare la nostra catena alimentare lineare in un sistema circolare.

Di fatto, dal 2009 Lufa Farms – grazie alle sue serre poste sui tetti degli edifici – ha contrastato una serie di problemi. Infatti, non solo l’azienda rende produttivi ettari di spazio altrimenti inutilizzati, ma in questo modo raccoglie acqua piovana; sfrutta l’energia gratuita del sole; utilizza il calore proveniente dall’edificio sottostante; riduce i costi di trasporto incrementando la “produzione locale” e utilizzando veicoli elettrici per le consegne. Lufa Farms ha già costruito tre serre sui tetti per un totale di 1,5 ettari di area coltivabile: solo mezzo ettaro può alimentare 2.000 persone utilizzando il 50% in meno di energia per il riscaldamento delle serre e tra il 50% e il 90% in meno di acqua e fertilizzanti. La conversione agricola dei tetti cittadini sta andando di pari passo con l’azione per rendere circolare la catena alimentare urbana, e Lufa Farms è un esempio concreto dell’approccio integrato e distribuito alla produzione di cibo che costituirà la spina dorsale dell’economia circolare.

 

CASE HISTORY: AGRIPROTEIN

Fondata nel 2008, l’azienda sudafricana Agriprotein attribuisce al modo in cui trattiamo i rifiuti e produciamo cibo un’importanza fondamentale per la creazione di un sistema alimentare veramente circolare. 

Agriprotein utilizza gli insetti per ricavare proteine alimentari di alta qualità dai rifiuti organici: in questo modo vuole affrontare la sfida posta dalle oltre 650 milioni di tonnellate di rifiuti organici prodotte ogni anno nelle aree urbane del pianeta, una quantità che – secondo alcune stime – dovrebbe raddoppiare entro il 2050. Al tempo stesso, vuole combattere l’inefficienza del nostro sistema alimentare, in particolare riguardante il modo in cui viene prodotta la carne. Infatti, ricorrendo a processi che si verificano in natura, l’azienda ha creato una soluzione circolare per la gestione dei rifiuti organici e per la produzione di mangimi per gli animali.

In pratica alla Agriprotein utilizzano l’eccezionale capacità di riciclo delle sostanze nutritive delle larve della mosca soldato nera per decomporre i rifiuti organici e contemporaneamente produrre proteine di alta qualità da utilizzare come mangimi per animali. I residui di questo processo vengono usati come un ricco compost. 

Azienda in forte espansione, Agriprotein prevede di costruire 200 nuovi impianti entro il 2027. Oltre ai vantaggi finanziari, questo modello consente di ridurre le emissioni di carbonio, di rigenerazione il suolo e ridurre il ricorso al pesce (non d’allevamento) per la produzione di mangimi animali. 

 


 

Dalle scienze gastronomiche al Food Monitor

 

di Andrea Pieroni, Luisa Torri, Michele F. Fontefrancesco

 

Andrea Pieroni

 

Il finire del Novecento ha marcato un profondo cambiamento del modo di percepire il cibo all’interno del dibattito pubblico. Il secondo dopoguerra è stato caratterizzato dalla veloce industrializzazione del comparto agroalimentare e dall’affermazione del consumo di massa, creando un paesaggio gastronomico d’inedita abbondanza. I decenni della ricostruzione hanno segnato, per lo più il rapido abbandono delle cucine tradizionali e l’erodersi delle diversità bio-culturali locali, a fronte dell’affermarsi del consumo di prodotti industriali e di un modello economico lontano da ogni forma di sostenibilità. In relazione a questa massificazione dei consumi e standardizzazione del gusto, negli Ottanta nacquero associazioni e movimenti interessati alla riscoperta e valorizzazione alla gastronomia del territorio e del cibo di qualità: tra queste realtà, Slow Food.

 

La nuova coscienza del cibo

Questo clima culturale aprì lo spazio per il ragionamento sulla sostenibilità del cibo che si riverbera nel presente. Si rafforzò, così, la cognizione di come il discorso sul cibo e sulla gastronomia, necessitasse di una sintesi transdisciplinare; di una comunità e di un luogo dove maturare un nuovo linguaggio, un nuovo modo di pensare il cibo che potesse essere effettivamente capace di affrontare le sfide della sostenibilità, del “buono, pulito e giusto”, del tema della sovranità alimentare e dell’accesso equo alle risorse.

Seguendo questa spinta ideale, nacque nel 2004 l’Unisg – l’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche. Fondata in Italia a Pollenzo, su iniziativa di Slow Food e con la collaborazione delle regioni Piemonte ed Emilia Romagna, propone un nuovo approccio metodologico e didattico in grado di fornire una visione completa dei sistemi di produzione del cibo e di formare figure professionali nuove con conoscenze e competenze trans-disciplinari legate al comparto agroalimentare capaci di operare indirizzando la produzione, la distribuzione e il consumo verso scelte sostenibili. Oggi Unisg è direttamente impegnata nel garantire l’alta qualità della formazione didattica e nel contribuire alla condivisione delle conoscenze per rafforzare la sostenibilità e la sovranità dei sistemi alimentari nel mondo, promuovendo una ricerca capace di contribuire al benessere, al sostegno delle diversità bio-culturali, e al riconoscimento della pari dignità tra saperi scientifici e saperi tradizionali. 

La ricerca dell’Università si è mossa volendo definire le “scienze gastronomiche”. Come spiega il Manifesto di Pollenzo, redatto dall’Ateneo, esse sono intese dall’Unisg come espressione plurale di tutte le conoscenze, metodologie e pratiche applicative inerenti al cibo e tratteggiano: “una nuova forma di umanesimo [... che come] la migliore tradizione umanista poggia le proprie radici sul rispetto per il vivente e sulla fioritura delle diversità a ogni livello.”

L’approccio della ricerca di Unisg è interdisciplinare e si basa su tre macro-aree di interesse tra loro interconnesse: 

1. diversità bio-culturale e cambiamento;
2. qualità e percezione del cibo;
3. sostenibilità economica e ambientale. 

 

Il contributo di Unisg 

In questo contesto si legge l’impegno di Unisg nel campo dell’economia circolare. Tale concezione è applicata alla complessità dei sistemi alimentari e risulta cruciale per la diffusione di un nuovo concetto di food innovation, legato alla salvaguardia dei capitali naturali, sociali e culturali e del diritto di ogni popolo a un cibo sano e culturalmente appropriato, prodotto attraverso metodi ecologici e sostenibili.

In tale ambito di ricerca, sono in via di sviluppo nuove traiettorie. Tra queste lo studio dell’impatto delle economie circolari sulle performance aziendali, indagini sociologiche sulla percezione dell’azione circolare sulla società, l’approfondimento del tema della “Geografia circolare” e del suo impatto sui territori, l’analisi del ruolo del cibo nelle città circolari e rigenerative, la valutazione dell’accettabilità e della percezione sensoriale dei nuovi prodotti circolari da parte dei consumatori, lo sviluppo di un Indicatore Ceff, Circular Economy for Food, per misurare l’impatto dell’azione circolare. 

Nell’ottica dell’accessibilità della ricerca, l’Ateneo intende mettere a disposizione della società e delle imprese, i suoi risultati su un’apposita piattaforma digitale: Circular Economy for Food Monitor. Quest’iniziativa è mirata a permettere che l’informazione possa diventare conoscenza e consapevolezza comune, facendo di Unisg un punto di riferimento a livello internazionale per lo sviluppo teorico-pratico della Ceff, protagonista di un’azione costante di monitoraggio, analisi e progettazione, della circolarità nel food system

 

Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo, www.unisg.it

 

Università degli Studi di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Fonte: Unisg

 

Andrea Pieroni, è Rettore dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche, Professore ordinario di Botanica alimentare ed Etnobotanica.

Luisa Torri, è Professore associato di Scienze Sensoriali e Direttrice della Ricerca dell’Università degli Studi di Scienze Gastronomiche.

Michele F. Fontefrancesco, è docente di Antropologia culturale e membro dell’Area ricerca dell’Università degli Studi di Pollenzo.