La moda è un oggetto curioso. Il termine deriva dal latino modus, che in varie declinazioni significa maniera, norma, regola, tempo, melodia. Da sempre indica lo stile da incarnare per determinare la propria persona. Dal Re Sole, che a Versailles dettava le regole di corte – le parrucche e i merletti rubati alla Repubblica di Venezia – fino all’über-fast fashion dei nostri giorni nostri, la moda ha sempre svolto un ruolo psicologico culturale. Secondo il sociologo Georg Simmel, “la moda esprime la tensione tra uniformità e differenziazione, il desiderio contraddittorio di essere parte di un gruppo e simultaneamente stare fuori del gruppo, affermando la propria individualità”.
Oggi però si sta affermando sempre di più una visione sposata dai sociologi contemporanei, come
Roberta Sassatelli, secondo i quali la moda è “un mito fabbricato dall’industria e dagli intermediari culturali che operano ai suoi confini, nonché un sistema di istituzioni che consolidano un campo di produzione e commercializzazione”. Essa diventa sempre più un sistema per creare modelli culturali che definiscono la durata di vita indotta di un prodotto, sia esso un capo di vestiario, un gadget, un oggetto di design. S’inventa il concetto di “stagione”, di “stile 2022”, di “colore dell’anno”. A livello simbolico, immateriale, la Ragion della moda, versione superficiale e impalpabile della monocratica ragion di Stato, impone ai prodotti date di scadenza artificiali

Doppia crisi e trasformazione: verso una moda circolare

Eppure oggi, nella sua fase più decadente e crudele, la moda è stata messa in ginocchio da una doppia catastrofe, quella pandemica e quella ambientale. Se la prima crisi ha fatto riscoprire (ad alcuni) l’insensatezza dello shopping bulimico e la piacevolezza dei vestiti comodi, la seconda sta spingendo una rapida trasformazione del settore produttivo, che passa per il ripensamento di tessuti, modelli, concetti. Non significa che la moda stia cambiando integralmente, ma è inevitabile che grandi gruppi del lusso come LVMH o Kering e nomi della fast fashion (come per esempio H&M) guardino con crescente attenzione alla circular fashion. Ovvero, a una moda fatta con materiali più sostenibili, riciclati e riciclabili, durevoli, biobased, senza l’uso di sostanze tossiche, ma anche alla timelessness, alla riparabilità dei capi, a nuovi modelli di business.
Il settore dei
materiali per la moda è in fermento. Ce lo raccontano due approfondimenti, uno sui biomateriali e uno sulle filiere di pelle, lana e seta, in cui si stanno accumulando tantissime innovazioni, dalla riscoperta della canapa alla rigenerazione delle fibre. Sorprende la quantità di aziende che oggi sono in grado di offrire materiali con un’impronta ambientale ridotta.
Cambiano anche i
gusti dei consumatori, soprattutto quelli più giovani, che spingono per il second hand e per uno stile sobrio, outdoor, e che sono disposti a spendere qualcosa in più per quei brand che hanno una grande reputazione di sostenibilità. E sono anche attenti alla reale sostenibilità dei nuovi modelli di business (come i vestiti in abbonamento) che raccontiamo nelle prossime pagine.

Un appello all’alta moda

Chi non sembra avere consapevolezza di questa rivoluzione è il mondo couture, l’alta moda, i trend-setter, poco interessati a ripensare gli stili e a vestire le cittadine e i cittadini della transizione ecologica. Dai commuter a due ruote fino ai trekker urbani, dagli ecoattivisti a chi vive la nuova normalità climatica, l’avanguardia del mondo di domani è del tutto assente nelle riflessioni dei grandi stilisti, ancora accecati da red carpet e dal glitz delle copertine dei magazine. Una speranza potrebbe venire dal New European Bauhaus e dalle nuove leve della moda che in tutto il mondo, e specialmente al Sud, stanno creando vestiti e accessori a impatto ambientale ridotto. E non solo: definiscono e diffondono nuove modalità di vivere e vestire, più ecosostenibili e low-carbon, andando oltre quell’iperconsumismo che da sempre è il valore cardine del settore moda. Il glamour del lusso, dell’eccesso, del sovrapossesso non è mai stato cosi out.

Immagine: Pixabay

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