Il nostro modello economico lineare, estrattivo e ad alto consumo di risorse e di energia, non è più sostenibile. Va convertito in un modello circolare che punti a minimizzare il prelievo di risorse, a prodotti di lunga durata, riparabili, riutilizzabili, utilizzabili in maniera condivisa, riciclabili e realizzati con materiali riciclati. Senza trascurare né la qualità del benessere – che deve essere sobrio e non basato sul consumismo – né la necessità di una maggiore equità e inclusione sociale”.
Nel suo nuovo libro “Le sfide della transizione ecologica”, Edo Ronchi, storico esponente dell’ambientalismo italiano e presidente del Circular Economy Network, passa in rassegna tutti i mezzi oggi a nostra disposizione per vincere la sfida del clima. A cominciare dall’economia circolare.

EdoRonchi

Come è nato questo libro sulla transizione ecologica, tema caldo di questo momento?
Si è cominciato a parlare di transizione ecologica come via per realizzare il Green Deal già prima della pandemia. Ma la pandemia ha un po’ accelerato il dibattito. È aumentata la sensibilità e l'attenzione dell'opinione pubblica. La parte più attenta ha colto il collegamento fra la pandemia e l'aggressione ai sistemi naturali che ha fatto sì che un virus che se ne stava in un animale selvatico attraverso processi di spill-over sia poi arrivato all'uomo. Ma anche la parte dell’opinione pubblica meno preparata su questi temi ha avvertito la nostra vulnerabilità di fronte a fenomeni non controllabili nonostante il progresso e l'evoluzione tecnologica.. Forse anche a causa del lock-down c’è un aumento della sensibilità verso le questioni ambientali. D’altra parte la crisi climatica è sempre più urgente e più pressante ed è anche seguita dai media finalmente. Infine, nei piani per la ripresa e la resilienza è entrata con forza la questione della sostenibilità ecologica.
La mia preoccupazione è che nonostante queste premesse, ci sia il rischio di una sottovalutazione e di una visione superficiale del tema. Nella “lista della spesa” è stata inserita anche la transizione ecologica, ma forse senza cogliere la portata epocale delle sfide che pone. L’obiettivo di questo libro è dunque contribuire a una maggiore riflessione sulla profondità e la portata innovativa del tema “transizione ecologica”. e quindi questa è contribuire alla finalità di questo libro.
L’Italia, come altri paesi europei, ha istituito un Ministero alla transizione ecologica e sappiamo che tale transizione è il pilastro del PNRR (Piano nazionale di ripresa la resilienza), così come prescritto dai criteri per l'accesso ai fondi europei nel Next Generation EU. Ma che livello di consapevolezza c'è in questa scelta?

E che livello di efficacia, ci si potrebbe anche chiedere…
Qual è il rischio di una transizione ecologica superficiale sul lungo periodo? Potremmo fare più danni che altro andando a raccogliere qualsiasi azienda che si dipinge di verde senza magari esserlo davvero?
Il grande rischio è di perdere un'occasione storica difficilmente ripetibile. Un'opportunità straordinaria di nuovi investimenti, di innovazione e di nuove attività economiche, di potenziamento effettivo dei processi che già sono in atto in molte imprese anche italiane. Se perdiamo questo treno difficilmente ne passeranno altri. Basta guardare i trend di ripresa di quest'anno. Già su scala globale le emissioni di gas serra, dopo la flessione del 2020, hanno ricominciato a galoppare peggio che prima dalla pandemia. Quindi è vero che c’è un grande battito e importanti dichiarazioni, ma di fatti ce ne sono ancora pochi. Questo è il punto sostanziale: per affrontare queste sfide non bastano le dichiarazioni; occorrono politiche, misure, coerenza, capacità attuativa e livello di priorità effettivo.

Qual è il suo giudizio sulla bozza di PNRR circolata in questi giorni?
Partiamo dal dibattito politico sulla priorità della transizione ecologica e del suo pilastro fondamentale, ovvero la transizione verso la neutralità climatica. Nel dibattito politico italiano si avverte l'effettiva priorità e urgenza di questa scelta europea? A me pare palesemente no. Se si guarda alle istanze e alle proposte dei vari partiti, sembra di essere di fronte a una qualsiasi legge di bilancio pluriennale, dove ognuno si preoccupa solo di rappresentare il suo pezzettino. Manca un vero disegno. Non basta richiamare ogni tanto la “svolta verde”, la “rivoluzione verde”: chiacchiere! Nel dibattito manca un'effettiva priorità di questa scelta politica di fondo, è assolutamente assente.
Guardiamo ai numeri. Innanzitutto, almeno il 37 % delle risorse del Recovery Plan vanno destinate a misure per la transizione verso la neutralità climatica. Il 37 % di 209 miliardi corrisponde a circa 77 miliardi. Se poi i miliardi vengono portati a circa 220, si arriva a 81 miliardi per la transizione ecologica. Nella ripartizione che per ora è stata comunicata siamo ben lontani da questa percentuale.
Se si perde di vista la priorità e la portata generale della transizione ecologica, si rischia di riprodurre un modello business as usual. Qualche cambiamento certamente ci sarà, ma l'asse strategico e la portata generale della transizione per ora non sono stati colti. Spero che il testo definitivo mi smentisca.

Voci di corridoio dicono che nel conteggio per la decarbonizzazione si attingerà anche dal capitolo digitalizzazione e da altri capitoli che non sono necessariamente quelli della transizione ecologica…
Questo è giusto. Però la mancanza di un dibattito pubblico non è una questione banale, non ne possono parlare solo nei corridoi e risolvere la questione in maniera ragionieristica.

Tra gli elementi chiave per la transizione che tratta nel suo libro ci sono naturalmente le energie rinnovabili. Tra gli impegni presi dagli Stati Uniti (che hanno appena pubblicato i loro NDC), gli impegni dell'Europa e anche le intenzioni della Cina di ribadire la spinta per la decarbonizzazione, ci sarà la possibilità di accelerare e andare oltre lo scenario attuale, insufficiente per colmare il gap di emissioni necessario per allinearsi alle richieste della scienza?
L'Europa indica il target di riduzione del 55% di emissioni entro il 2030. Per alcuni è un target troppo basso, ma prendendolo per buono, per raggiungerlo occorre almeno raddoppiare il ritmo di crescita delle rinnovabili, comprese le rinnovabili termiche, e fare anche qualcosa in più.
Dal punto di vista dei costi, ormai competitivi, e della maturità delle tecnologie è del tutto fattibile. C’è una grande necessità di investimenti nelle reti, nei sistemi di accumulo e nei sistemi di governance. Le smart grid possono giocare un ruolo molto importante perché costituiscono un modello più flessibile, decentrato, basato sulla produzione localizzata e sull'autoproduzione. È poi fondamentale investire nel coinvolgimento dei territori per le procedure autorizzative, visto che nei prossimi dieci bisognerà raddoppiare gli impianti delle rinnovabili. Coinvolgere i territori vuol dire consentire alle Regioni di supportare, sia dal punto di vista tecnico sia dal punto di vista amministrativo, la capacità dei comuni di localizzazione e di realizzazione degli impianti. Serve questo salto di qualità in Italia, altrimenti la corsa alle rinnovabili non si può vincere.

Sempre più report dimostrano gli impatti dell'economia circolare sulla decarbonizzazione, dai processi industriali all'estrazione di materie prime fino all'uso di energia. Quali sono le sfide principali e gli obiettivi - al di là dei target di riciclo - che l'Europa si deve porre per spingere davvero l'economia circolare?
Non solo c'è una relazione fra modello circolare e taglio delle emissioni, ma la Commissione Europea nel nuovo Piano d'azione si spinge oltre, dicendo in maniera netta che se non cambia il modello economico passando da lineare a circolare, la neutralità climatica non sarà possibile. Recuperare i gap di circolarità è ormai considerato un punto imprescindibile nel piano per la neutralità climatica. Si parte dalla imprese 4.0: gli investimenti nell'innovazione dei processi produttivi e dei prodotti devono essere favoriti se vanno in direzione circolare. Nella vecchia proposta del PNRR mancano però espliciti e prioritari riferimenti alla conversione verso la circolarità del modello economico. È una grave carenza. Se un Paese manifatturiero come l’Italia non punta su un modello circolare, sull’uso efficiente e sul risparmio di risorse e di materie prime e di energia, significa che sta investendo in un modello che sarà meno competitivo. E poi sarà più difficile tagliare le emissioni di gas serra. Quindi cosa serve? Processi produttivi basati sull'efficienza delle risorse, prodotti che durino di più, che siano più riparabili e riutilizzabili, che siano interamente riciclabili, che aumentino la quota di materiale riciclato nella loro realizzazione. Sono tutti principi “di buon senso”, ma bisogna poi applicarli anche a un tessuto produttivo come il nostro, molto basato sulle piccole e medie imprese.

Dal punto di vista dell’economia circolare, in Italia si vede oggi un grande dinamismo nel settore delle utilities e sembra che anche l’automotive si stia muovendo, mentre food e bioeconomia sono un modello a livello europeo. Quali sono invece, secondo il vostro osservatorio, i settori che fanno più fatica ad entrare nell'economia circolare?
Allora cominciamo col dire che l'economia circolare nel mondo dalle imprese italiane incontra un largo favore. In nessun settore ho riscontrato una resistenza. Ci sono tuttavia delle difficoltà normative, delle difficoltà tecniche e delle difficoltà nel governare la transizione dal punto di vista delle risorse e degli investimenti.
Abbiamo delle difficoltà nel settore dei combustibili fossili, dove transizione circolare significa ridurne l’utilizzo. Se il problema del carbone l'abbiamo ormai molto ridimensionato, la riduzione dei derivati del petrolio, come il gas, è molto più impegnativa.
Altro grande capitolo sono i minerali e metalli. In questo settore l’Italia è già a un buon livello, visto che la nostra manifattura, povera di materie prime, è già abbastanza efficiente nell'utilizzo delle risorse e nel riciclo dei rifiuti. Si può fare ancora molto, però, nell'uso dei sottoprodotti nelle simbiosi industriali e nel semplificare le procedure di riciclo dei rifiuti. Abbiamo inoltre perso un po’ di terreno sul tema della riparabilità dei prodotti.
Poi c'è
il capitolo aperto delle biomasse e dei biomateriali, dove la circolarità diventa capacità rigenerativa. Nel campo delle tecnologie verdi, della biochimica e dell’economia rigenerativa siamo fra i leader europei e quindi anche mondiali. Forse bisogna coordinare meglio l'utilizzo delle aree marginali e il recupero di aree abbandonate, integrando il ciclo della bioeconomia rigenerativa nella tutela del territorio e nella difesa dei suoli. Bisogna capire quali siano le tecnologie fortemente innovative e sostenerle, senza mai trascurare la priorità del settore agroalimentare, che è sempre fondamentale, ma per l’Italia ancora di più, essendo un settore strategico della nostra economia.