Paul Connett è considerato il “padre” di Zero Waste strategy, purtroppo spesso diventata uno slogan quasi privo di contenuti. Lo abbiamo incontrato per farci dire quale sia lo stato dell’arte di questa strategia, quali sono i suoi possibili sviluppi e quali i prossimi passi da adottare. Per prima cosa – afferma – bisogna puntare sulle comunità, aumentando la loro consapevolezza sui vantaggi ambientali ed economici contemplati da questo programma.

 

La strategia Rifiuti Zero ha un largo consenso tra gli ambientalisti ma fatica ad affermarsi. Perché?

“Il problema chiave è la perdita, o meglio l’assenza, di leadership politica. I politici italiani che incontro, per esempio, mi dicono sempre che in Italia c’è un problema culturale sulla strategia Rifiuti Zero, perché gli italiani al riguardo non hanno un atteggiamento positivo. Ebbene, è falso: quando due comunità simili, distanti tre chilometri l’una dall’altra hanno un tasso di raccolta differenziata molto diverso, una del 17% e l’altra dell’80%, di sicuro l’aspetto culturale non c’entra, perché la cultura non cambia in un ambito così ristretto. Ciò che può cambiare è la guida politica.”

 

E quindi cosa bisogna fare?

“Occorre partire dalle comunità, lavorando con alcuni ‘ingredienti’. Per prima cosa, ovviamente, bisogna applicare la raccolta differenziata, quindi occorre organizzare la comunità. Ma serve anche creatività, avere il contributo di persone creative che sappiano trovare soluzioni. Non solo: bisogna coinvolgere i bambini che sono creativi per eccellenza e garantiscono il futuro della filiera Rifiuti Zero. Per finire, occorre un’ottima comunicazione. Questi sono i ‘pezzetti’ della strategia Rifiuti Zero che possono diventare sapere collettivo ed essere condivisi, anche attraverso internet, tra le diverse comunità per risolvere i problemi.”

 

Quindi è necessario un approccio anche sociologico, oltre che tecnologico?

“Soprattutto sociologico. Ormai il problema dei rifiuti è più sociale che tecnologico: le soluzioni risiedono in una migliore organizzazione, una migliore educazione e – solo alla fine – in una migliore progettazione industriale. Va poi considerato che la questione rifiuti si inserisce in un contesto più ampio. È solo uno dei pezzi di ciò che abbiamo bisogno per affrontare tutta una serie di problemi legati alla sostenibilità. Rischiamo eventi catastrofici e ci occorre il contributo di tutte le discipline – sia scientifiche sia umanistiche – per risolvere i problemi. Abbiamo bisogno di agricoltura, architettura, energia, comunità, industrie, tutte ovviamente sostenibili.” 

 

Serve la massima interdisciplinarietà, quindi. Giusto?

“Sì. E soprattutto non dobbiamo confinare il ragionamento e delegare la ricerca delle soluzioni solo agli esperti di sostenibilità. Occorre, invece, il contributo di tutte le discipline anche se sono lontanamente legate alla sostenibilità: non solo economia, fisica e chimica, ma anche pittura, musica e poesia. Così come servono menti illuminate che lavorino nelle proprie discipline alle tematiche legate alla sostenibilità. Si tratta della più grande sfida che dobbiamo affrontare dalla fine della Seconda guerra mondiale”.

 

Tutto qui?

“Assolutamente no. Oltre a ciò c’è anche un aspetto psicologico molto importante: se si vuole avere successo con la strategia Rifiuti Zero è necessario coinvolgere fin dall’inizio un gran numero di persone. Come esseri umani, infatti, abbiamo bisogno di vedere degli esempi riusciti che funzionino da propulsore psicologico così da attivare nuovi processi in altre comunità e sviluppare dal basso il movimento Rifiuti Zero. Le comunità quando raggiungono un buon risultato – anche semplicemente sul fronte della raccolta differenziata – diventano loro stesse, con il loro orgoglio, dei propulsori psicologici per altre comunità, vicine o lontane. Inoltre, i successi nella strategia dei rifiuti possono essere utili per sviluppare altri pezzi della sostenibilità locale, nell’ambito delle rinnovabili o delle coltivazioni biologiche, e così via. Per esempio si può usare il compost prodotto da una comunità nella lotta contro i pesticidi, gli Ogm e i cambiamenti climatici. Il tutto nella stessa comunità e comunicandolo ad altre. L’esempio è fondamentale nel diffondere la strategia Rifiuti Zero.”

 

Per arrivare ad azzerare i rifiuti bisogna riutilizzare i materiali provenienti dalla raccolta differenziata, ma spesso sono i comitati locali a opporsi ai nuovi impianti. Come si risolve questa contraddizione?

“Penso che si debba cominciare dal basso. Bisogna capire quali sono le esigenze delle comunità. Io personalmente, negli anni, ho fatto circa 2.500 presentazioni della strategia Rifiuti Zero alle comunità. Sia per capire ciò che le comunità vogliono, sia ciò che possono fare. Penso che in futuro ci saranno parecchie tensioni. Dobbiamo dire alle comunità che da una parte ci sono le multinazionali che puntano a sfruttare le risorse del pianeta fin che possono, mentre dall’altra abbiamo loro che vogliono proteggersi, proteggendo queste risorse. In questo quadro bisogna insegnare alle comunità che non devono dare ad altri le proprie risorse, a cominciare dai rifiuti che sono un valore che può creare lavoro e piccoli business all’interno della comunità stessa. E così bisognerebbe fare anche con il cibo. Ci sta provando l’Italia con il movimento Slow Food che sta sperimentando le filiere corte che si sposano perfettamente con la filosofia Rifiuti Zero e con la riduzione delle emissioni. E la filiera corta vale anche per l’energia che deve diventare decentralizzata e prodotta vicino alle zone d’utilizzo. Se si mette assieme tutto ciò con questo approccio si vincono anche le possibili resistenze delle comunità locali verso parti della strategia Rifiuti Zero”.

 

Ci può fare qualche esempio, magari in nazioni diverse?

“Sì, ma voglio precisare che non sono le nazioni a riciclare i rifiuti e a mettere a punto la strategia Rifiuti Zero: sono le comunità che dobbiamo osservare, altrimenti partiamo con un approccio sbagliato. Una soluzione trovata da una comunità può non essere valida in un’altra, per esempio per aspetti legati alla demografia. In America, per esempio, si deve guardare a ciò che fa San Francisco, non alla California o agli Stati Uniti. In Italia, bisogna guardare a Treviso o a Capannori per trovare delle possibili soluzioni. Prendiamo come esempio la gestione dell’umido, nella quale ci sono tre comunità al mondo da studiare con attenzione. Parlo di San Francisco, Milano e New York che stanno affrontando questo problema con un approccio differente, visto che ognuna di queste città è molto diversa dall’altra.” 

 

 

Quali sono i tempi per arrivare all’obiettivo Rifiuti Zero? 

“Il timing è diverso per ogni comunità. Possiamo, però, guardare cosa è successo in passato. La strategia Rifiuti Zero è partita in Australia nel 1996 quando il governo varò una legge sui rifiuti che prevedeva una loro drastica riduzione. Obiettivo: non avere rifiuti entro il 2010. Si trattava di un segnale importante che arrivò in California dove si fece una legge analoga con cui si richiedeva che ogni comunità gestisse il 50% dei rifiuti in maniera diversa dallo smaltirli in discarica o destinarli all’incenerimento. In seguito a questo in California si arrivò rapidamente ad avere 300 comunità che raggiunsero quest’obiettivo risparmiando denaro. Così molte persone videro che questi risultati erano a portata di mano e iniziarono a chiedere: ‘perché non alzare l’obiettivo al 60, al 70 o all’80%? O puntare a quello dell’Australia?’. E allora alcune comunità come quella di San Francisco passarono dall’obiettivo ‘No Waste’ a ‘Zero Waste’. Sembra un passaggio da poco, ma non lo è. Il secondo slogan consente di comunicare ai cittadini la distanza dall’obiettivo ed è molto più efficace.”

 

Bene. Ma dove la strategia Rifiuti Zero è applicata quanto siamo distanti dall’obiettivo?

“Attualmente ci sono due posti al mondo dove questa strategia è in piena corsa. Il primo è San Francisco dove siamo oltre l’80% di raccolta differenziata, non c’è incenerimento e si punta al 100% – ossia a Rifiuti Zero – entro il 2020. L’altro, e ne rimarrà sorpreso, è l’Italia dove ci sono i peggiori esempi al mondo di gestione dei rifiuti, ma anche alcuni dei migliori. Oggi in Italia ci sono oltre 1.000 comunità che superano il 60% di raccolta differenziata, 300 sono oltre l’80% e alcune di queste oltre al 90%. E il tutto è stato ottenuto in periodi molto brevi.”

 

L’Italia alla guida della sostenibilità. È sicuro?

“Sì. Oggi alle comunità sono necessari acqua pulita, cibo buono, un’alta qualità dell’agricoltura e della vita. E l’Italia ha tutto ciò in abbondanza. Sotto questo profilo siete dei miliardari rispetto alla media degli abitanti degli Stati Uniti; ci credo al punto che quando mi chiedono dove vorrei vivere, rispondo in Italia. E tutto ciò senza considerare il patrimonio paesaggistico, artistico e culturale. Questa è la mia sessantanovesima visita in Italia e ci torno sempre volentieri perché siete un vero laboratorio a cielo aperto per la sostenibilità. Non ovunque per la verità, ma ciò vale per almeno un migliaio di comunità italiane. E non è poco.” 

 

Bene, però uno dei problemi in Italia è il lavoro. La strategia Rifiuti Zero può contribuire alla creazione di lavoro?

“Sì, di sicuro la strategia Rifiuti Zero offre parecchie opportunità, molte di più dell’incenerimento che al riguardo è un ‘buco nero’. Prendiamo, per esempio, il settore del riuso e della riparazione. Oggi in questo settore abbiamo già degli impieghi legati alle operazioni di manutenzione, riuso e riparazione, e che possono essere incrementati. Ma non abbiamo chi lavora alla formazione delle persone alle quali insegnare come riparare e riutilizzare gli oggetti. Ecco nuova occupazione. Oltre a ciò si possono sviluppare lavori nel riutilizzo del materiale edile e nel suo adattamento nelle nuove costruzioni. Si tratta di attività che nelle filiere convenzionali non esistono ma che possono produrre nuovi occupati. Ed è una filiera articolata che ha un flusso e non produce posti di lavoro a termine e quindi precarietà. Una persona senza alcuna formazione, per esempio, può iniziare a lavorare nella separazione dei rifiuti e poi magari passare alla riparazione, migliorando la propria posizione lavorativa.”

 

Oggi c’è molta più ricerca scientifica, sul riciclo e più in generale sulla gestione dei rifiuti rispetto al passato. Secondo lei siamo sulla buona strada?

“Penso di sì. Oggi molti ricercatori, scienziati e studenti si occupano di ciò, stimolati dai dieci punti della strategia Rifiuti Zero. Abbiamo bisogno di ricerca in special modo sul compostaggio, sul riuso e la riparazione e sull’incremento della differenziazione nelle grandi città. Non solo: dobbiamo sviluppare nuovi sistemi per separare meglio la frazione residua e ottenere più materiale da riciclare, e per eliminare il più possibile le sostanze tossiche e ottenere così una maggiore frazione organica utile per il compost.”

 

Solo sui sistemi possiamo fare ricerca, quindi?

“C’è un settore molto importante dove occorre molta ricerca: quello del design. I prodotti devono essere progettati per essere riutilizzati e riciclati e anche su ciò bisogna coinvolgere le migliori menti che abbiamo perché è un settore strategico per raggiungere l’obiettivo Rifiuti Zero. E l’Italia in questo può avere un ruolo molto importante perché ha alcuni tra i migliori progettisti e designer del mondo. Penso che se gli italiani non riescono a migliorare il design di un oggetto, nessuno altro può farlo.”