Adelante con juicio. Forse il governo italiano si ispira allo scrittore ottocentesco Alessandro Manzoni nel gestire la questione bioeconomia. È vero che dal 20 aprile 2017, quando è stata presentata la strategia nazionale italiana, a oggi c’è di mezzo un cambio di governo, ma ancora non c’è traccia del piano d’azione necessario a passare dalle parole ai fatti. Un piano d’azione fortemente richiesto dall’amministratore delegato di Novamont Catia Bastioli nella sua veste di presidente del Cluster della Chimica verde Spring all’assemblea del cluster che si è tenuta a Napoli il 28 giugno. “Dalla strategia all’azione” era proprio la parola d’ordine dell’assemblea pubblica che ha ospitato – tra gli altri – l’intervento di Gianni Girotto, presidente della Commissione industria a Palazzo Madama, che anche è un convinto sostenitore di un modello di sviluppo sostenibile basato sull’uso delle risorse biologiche.

Tutto fermo invece, nonostante il “governo del cambiamento”, come si è definito il governo giallonero di estrazione nazional-populista. E il rischio per l’Italia è di perdere quella leadership nel settore guadagnata con grande fatica grazie alla visione di qualche imprenditore illuminato e alla capacità dei ricercatori del settore pubblico e privato. Guai infatti – avvisano gli addetti ai lavori in Italia – se i grandi investimenti per creare nuovi bioprodotti in bioraffinerie uniche al mondo nel loro genere non trovassero un mercato di sbocco. Per dirla con parole più semplici: bisogna muoversi nella creazione di un mercato. Per farlo serve in primis pari opportunità tra prodotti di origine fossile e prodotti di origine biologica, oggi inesistente se è vero che il Fmi ha stimato in 5.300 miliardi di dollari i sussidi ricevuti dai prodotti fossili nel 2015.

Nel frattempo uno dei maggiori protagonisti della bioeconomia made in Italy ha alzato bandiera bianca. Il Gruppo Mossi Ghisolfi è a un passo dal fallimento. Non c’entra nulla il governo italiano, ovviamente, né gli investimenti nella chimica verde. Il motivo della crisi di quello che un tempo era il terzo gruppo chimico della penisola è legato al business tradizionale del Pet e un investimento sbagliato in Texas. La crisi ha trascinato con sé anche Beta Renewables e Biochemtex, le società a cui fa capo l’impianto di Crescentino per la produzione di bioetanolo di seconda generazione, inaugurato in pompa magna solo cinque anni fa, nell’ottobre 2013. Il loro salvataggio è arrivato il 25 settembre, quando Versalis, la divisione chimica di Eni, se le è aggiudicate mettendo sul tavolo 80 milioni di euro, prezzo a base d’asta fissato dal Tribunale di Alessandria per le quattro imprese bio del Gruppo di Tortona. La speranza adesso è che la produzione possa riprendere e i posti di lavoro rimasti salvaguardati.

La crisi di Mossi Ghisolfi, quindi non è la crisi della bioeconomia italiana. Il 20 giugno la società Bio-on ha inaugurato il primo impianto di proprietà progettato per produrre bioplastiche speciali PHAs, naturali e biodegradabili al 100%, per nicchie merceologiche avanzate come le perline microscopiche (microbeads) destinate al settore cosmetico. Il nuovo polo produttivo sorge a Castel San Pietro Terme vicino a Bologna su un’area di 30.000 metri quadrati, ha una estensione di 3.700 m2 coperti e 6.000 m2 edificabili. La capacità produttiva attuale è di 1.000 tonnellate all’anno che l’impresa bolognese è pronta a raddoppiare nel giro di poco tempo.

Novamont ha già raddoppiato la capacità produttiva annua della controllata Mater Biopolymer, che si occupa dei poliesteri ad alto contenuto di materie prime rinnovabili, a base di biomonomeri, passando da 50.000 a 100.000 tonnellate nello stabilimento di Patrica, in provincia di Frosinone. L’azienda novarese conferma la propria leadership nel mercato delle bioplastiche, con un fatturato che ormai sfiora i 200 milioni di euro.

Molte altre piccole e medie imprese si stanno affacciando al mondo della bioeconomia circolare italiana: Renovo, Vegea, Orange Fiber, GFBiochemicals ed EggPlant sono alcune di queste. Il 4° rapporto sulla Bioeconomia in Europa, realizzato dalla Direzione Studi di Intesa Sanpaolo e presentato a Palermo nel marzo 2018, ha mappato in Italia 576 startup innovative in questo meta-settore, che vale ormai 260 miliardi di euro, più dell’8% del totale della produzione nazionale. Con un nuovo protagonismo del Mezzogiorno, visto che molti degli impianti pilota di queste imprese si trovano in Puglia, Campania e Sicilia. Siciliana è Orange Fiber, che ha brevettato un processo per estrarre cellulosa dagli scarti delle arance dopo la spremitura e la trasformazione e produrre un nuovo tessuto sostenibile, già utilizzato dalla maison fiorentina Salvatore Ferragamo. Pugliese è invece EggPlant, una startup che ha sviluppato una tecnologia per riutilizzare le acque reflue della filiera casearia per produrre una bioplastica biodegradabile e compostabile a base di Pha destinata all’imballaggio alimentare.

Al fermento dell’industria chimica e biotecnologica, si affianca quello dell’industria alimentare, con realtà come Ferrero, Granarolo e il Gruppo Cremonini che stanno testando l’utilizzo dei loro sottoprodotti per lo sviluppo di nuovi bioprodotti per la cosmetica, il benessere e la nutrizione. Ferrero, nota internazionalmente per la sua Nutella, per esempio, grazie agli studi avviati con università e centri di ricerca internazionali, ha messo a punto un processo in grado di estrarre dal guscio della nocciola il 20% di una fibra prebiotica, l’Axos, che ha proprietà antiossidanti ed effetti benefici su sistema immunitario, cardiovascolare e sul metabolismo dei lipidi.

Capacità e competenze non mancano, ma si sente l’assenza di una cabina di regia governativa, lamentano in molti. La concorrenza internazionale è fortissima: i governi pianificano a lungo termine e mettono risorse. Tutto il contrario di ciò che avviene in Italia, dove ancora in molti aspettano i soldi dei bandi del ministero della Ricerca vinti nel 2010. E dove il sistema della ricerca pubblica guarda ormai a Bruxelles per ottenere quei fondi necessari a portare avanti la propria attività di innovazione. Nel 2017 i ricercatori italiani sono stati i primi in termini di bandi vinti per il programma comunitario Horizon 2020 dedicato ai settori della bioeconomia, con un tasso di successo però fermo al 18%.

Su tutto il territorio italiano sono stati avviati negli ultimi anni numerosi progetti di impiego di scarti, rifiuti e sottoprodotti per nuovi prodotti innovativi. Si tratta di fertilizzanti, intermedi chimici, bioplastiche, ingredienti alimentari e cosmetici, biocombustibili, mangimi. Da interviste con numerosi ricercatori del settore emerge come esistano però problematiche, di natura regolatoria e culturale in modo particolare, che troppo frequentemente bloccano sul nascere iniziative di grande valore. Dal settore cerealicolo, a quello agroalimentare e forestale, da quello lattiero-caseario a quello della concia e delle pelli, gli scarti prodotti sono già oggi utilizzati per rigenerare valore e consentire un nuovo sviluppo del territorio, dalle aree rurali a quelle costiere. Ma mentre la logica della circolarità è già ben presente a ricercatori e imprenditori, ancora non viene favorita dal sistema legislativo. Dal punto di vista della regolamentazione, le problematiche maggiori derivano dal recupero di biomasse organiche appartenenti a fine ciclo alla categoria rifiuti, e le procedure troppo lunghe e complesse per l’avvio di impianti pilota, dimostrativi e commerciali. In molti aspettano il “governo del cambiamento”, o in alternativa un cambiamento di governo. 

 

 

Cluster Spring, www.clusterspring.it/home

La Bioeconomia in Europa. 4° Rapporto, marzo 2018; www.instm.it/public/02/04/4%C2%B0%20Rapporto%20sulla%20Bioeconomia.pdf

Immagine in alto: Illustrazione tratta da “I promessi sposi”, l’arrivo del gran cancelliere Ferrer (capitolo 13), Francesco Gonin, 1840/wikicommons