Abbiamo visitato la Milano Design Week chiedendoci cosa possa fare il design contro la crisi climatica ed ecologica. Abbiamo provato a capirlo parlando con i designer, maestri nell’arte di progettare coniugando funzionalità ed estetica. E abbiamo capito che l’anima del loro lavoro sta nel sapere intercettare un problema condiviso e nel proporre soluzioni in grado di risolverlo, migliorando la qualità della vita del singolo come della collettività. Ed è lì che secondo noi sta il senso di quella parola tanto abusata, sciupata e inflazionata che è “innovazione”.

Nell’ultimo decennio, il design ha fatto proprie le preoccupazioni ambientali. Ed è per questo che oggi è difficile imbattersi in prodotti che non dicano di essere sostenibili, riciclabili, magari compostabili, figli di virtuosi percorsi circolari o semplicemente realizzati abbattendo o compensando le emissioni. Da un punto di vista di marketing, in effetti, sarebbe veramente anacronistico farsi vanto di avere realizzato l’oggetto di design del secolo inquinando e sprecando risorse, a discapito di quel bel Pianeta che tutti dicono di amare.

Così, facendo attenzione a distinguere fra eco-fuffa e progetti di innovazione sinceri, abbiamo selezionato le proposte (positive e negative) che ci hanno colpito di più. 

Fra eco-fuffa e innovazione

Il Fuorisalone milanese, Mecca dei designer e agorà internazionale delle aziende di settore,  conferma questa nuova tendenza ambientalista. Una direzione del sentire e dell’agire che si intensifica ogni anno di più, con il rischio però di perdere sincerità e di confondersi nel flusso perpetuo del greenwashing. Perché giammai presentarsi all’evento dell’anno senza un prodotto che abbia almeno un inserto in carta riciclata, per poi poter scrivere a grandi lettere qualcosa che faccia rima con green, sustainable o circular, distogliendo l’attenzione dai costi ambientali di tutto il resto. Giammai presentarsi al Salone senza un’installazione che sia “sostenibile, innovativa, digitale, immersiva, empatica, multisensoriale”, rigorosamente agghindata con fiori in plastica o aiuole verdi destinate a vivere sette giorni.

Così, molte aziende si presentano all’evento più atteso dell’anno timbrando svogliatamente il cartellino della sostenibilità, come se debba essere fatto solo per non essere lasciati indietro. Ma i progetti svogliati – l’eco-fuffa, appunto – si riconoscono. Così come quelli mal riusciti e forse un po’ disattenti alle urgenze del momento (un’enorme vasca d’acqua nel cuore di Brera in piena emergenza siccità in Lombardia vi dice niente?). 

Cosa c’è che non va

Diremo quindi che alcuni degli spazi indicati come “i più virtuosi e green” nelle classifiche di molti quotidiani in realtà altro non erano che pigre vetrine di brand. Ci ha deluso, in quest’ottica,  l’installazione interattiva di Miele, Just use Eco. Una capsula pop-up fra le aiuole il cui scopo doveva essere quello di sensibilizzare sui consumi idrici ed energetici attraverso quiz sugli elettrodomestici. Un’attività che, oltre a fare i conti con i bug del sensore di fronte a decine di persone, poteva risultare più efficace in altra sede e con altri mezzi. Magari sfruttando quella visibilità per un progetto forse meno appariscente ma più efficace.

Segue Elevators, l’installazione immersiva (l’aggettivo più abusato del Fuorisalone) figlia della collaborazione fra Corriere della Sera e Hyundai. Due ascensori statici (due stanze), di cui uno guardava al passato, raccontando la storia della testata di via Solferino, e l’altro guardava al futuro presentando la mobilità sostenibile secondo  la visione del brand automobilistico coreano. Dopo un’inevitabile fila, entrare nell’ascensore di Hyundai significava assistere alla proiezione di un video emozionale di circa 60 secondi su quanto fosse dinamico, colorato e promettente il futuro. Tutto senza entrare in alcun modo nel merito di problematiche o soluzioni legate al tema della mobilità. Uno spot pubblicitario a tutti gli effetti, che si concludeva spalancando le porte dell’”ascensore” di fronte alla nuova berlina full electric parcheggiata lì accanto.

Pur avendoci colpiti nella sua dimensione estetica, ci ha lasciato l’amaro in bocca l’installazione artistica curata da glo, Dry days, Tropical Nights. Pur mettendo al centro il tema del cambiamento climatico, rievocando la condizione desertica che fra poche centinaia di anni potrebbe interessare il Nord Italia, l’installazione non proponeva alcuna nota critica o informativa al riguardo. Anzi, nonostante l’invito a costruire un futuro migliore, poneva l’accento sulla dolcezza delle notti e dei tramonti tropicali.

Nessuna sorpresa poi per il bottino di Eni, che quest’anno si è accaparrato uno degli spazi verdi milanesi per eccellenza, l’Orto Botanico di Brera, trasformandolo in una plancia di gioco per raccontare i propri servizi. Non ci è piaciuta nemmeno l’installazione di Frette, Created by Nature, giunta a questo Fuorisalone con la sua prima collezione di biancheria da letto totalmente organica. E che per celebrarlo ha dato vita a un’installazione di schermi e led tutto intorno al set di federe e coperte. Schermi surriscaldati a tal punto da rendere, paradossalmente, necessaria l’accensione dei condizionatori all’interno dello store. Deludente anche il giardino sociale di Vanity Fair, We Can Be Heroes, che di green aveva sicuramente un gran numero di fiori e piante. Se non con una nuova consapevolezza su spreco e riciclo, sicuramente ogni visitatore sarà usciti di lì con un’ottima foto per Instagram, hashtag #heroes.

Quello che forse ci dispiace di più di questo genere di operazioni è lo spreco delle risorse e degli enormi budget investiti, che potrebbero essere indirizzati verso iniziative più oculate, meno egoriferite e sicuramente più utili. Senza scomodare pompose installazioni solo per gridare forte “noi ci siamo, guardate come ci piace la sostenibilità!”.

Alcova e Frantoio Sociale

Eco-fuffa a parte, tante voci e altrettanti progetti hanno attirato la nostra attenzione. Alcova è stato di certo uno dei luoghi più apprezzati di questa Design Week, stavolta inconfondibile negli spazi quasi “post-apocalittici” dell’ex Macello di Porta Vittoria. Nato nel 2018 dalla mente dei suoi due curatori (Valentina Ciuffi e Joseph Grima), Alcova raccoglie ogni anno le idee e le sperimentazioni dei designer emergenti, delle scuole di alta formazione e delle piccole realtà che fanno ricerca. Si tratta di un progetto itinerante, che ogni anno dà nuova vita alle architetture milanesi  in disuso e ai luoghi storici in stato di abbandono. E, come nel caso dell’ex Macello, un’ultima occasione di dialogo con la comunità prima della demolizione.

Passeggiando fra gli spazi in rovina della struttura – resi vivi, colorati e poliglotti dagli oltre 90 fra designer e brand internazionali in esposizione – ci siamo imbattuti in un frantoio diverso dal solito.

Frantoio Sociale è un progetto di ricerca nato nel 2021 da Studio Gisto e hund.studio con l’obiettivo di promuovere pratiche alternative di trasformazione e rimessa in circolo dei materiali. Il cuore del progetto è la frantumatrice trasportabile Crunchy Crusher, macchinario industriale generalmente utilizzato per frantumare i materiali di scarto non pericolosi (provenienti per esempio da cantieri edili o da interventi di demolizione) e ridurre il loro ingombro prima dello stoccaggio. Una volta stoccati, questi materiali cosiddetti inerti terminano il loro ciclo di vita. L’idea di Frantoio Sociale è di mettere questa macchina a disposizione di artisti, designer e altre realtà interessate ad attingere dai materiali di scarto locali (diversi e vari a seconda del territorio) per le loro creazioni.

Che siano scarti di vetro di Murano o di mattonelle e ceramiche,  che siano roccia o calcinacci, questi materiali frantumati vengono immessi in un processo produttivo circolare e creativo, ritrovando una nuova destinazione d’uso oltre che una nuova dimensione estetica. Così i frammenti entrano a fare parte di texture atipiche e si trasformano nel riempimento di oggetti altri. Il motore sempre acceso di questo progetto, oltre quello tartassante della sua frantumatrice, è però l’approccio collaborativo, il legame con i luoghi e il desiderio di sperimentare nuove tecniche di trasformazione e valorizzazione dei flussi circolari della materia.

Il circular design dell’Isola Design District

Lo spazio circolare per definizione della settimana del design milanese è stato senza dubbi Circolare, il Circular Village dell’Isola Design District. All’interno della piazza coperta fra gli edifici di Palazzo Lombardia, sotto le coperture scintillanti della sede della Regione, è possibile incontrare designer, artisti emergenti, aziende e studi più o meno affermati che hanno deciso di fare uso di materiali riciclati, rifiuti riconvertiti, elementi compostabili e tecniche di produzione a basso impatto ambientale. Professionisti di settore che, insomma, hanno abbracciato la filosofia e i metodi del circular design, curandosi della valutazione dell’intero ciclo di vita del prodotto. Preoccupandosi cioè della massimizzazione dell’efficienza delle risorse a disposizione, annullando o riducendo gli sprechi al minimo indispensabile e garantendo il riuso, il riciclo o la riparazione dei materiali.

Qui abbiamo trovato le borse di lusso il biopelle (con buccia d’arancia e banana) del collettivo argentino Odette&Masuso; le cover per smartphone piantabili della torinese Igreen Gadgets; i pezzi di arredo realizzati con scarti industriali di EBE Studio; i tavolini da salotto modulari dell’officina Rub Objects,realizzati con tubi e reti metalliche prelevati dai cantieri; la “scarpa istantanea” realizzata con schiuma PU dell’israeliano Tidhar Zagagi; i contenitori di Pittoresco realizzati con gli scarti di malto generati dalla produzione della birra; le lampade di finto vetro di Poko Light, stampate 3D con un filato trasparente realizzato dai rifiuti di plastica e moltissimi altri progetti

Designer emergenti e progetti figli del lockdown

Al di fuori di questo spazio, fra i vicoli del quartiere Isola abbiamo ascoltato molte voci e intercettato un gran fermento intorno alle idee di riuso e upcycling. Fra queste citiamo Senzaquadro, progetto artistico, interamente handmade, nato durante il periodo del lockdown. Il progetto parte proprio da un dato registrato prima della pandemia, che conferma che mediamente ogni persona in Italia  produce all’anno circa 500 kg di rifiuti. Fra questi vincono in percentuale (il 90%) il packaging e gli imballaggi. Senzaquadro propone perciò dei quadri-cornice interamente realizzati con scarti packaging, pressati e lavorati a mano per dare forma a una nuova superficie artistica, decorata poi con ritagli di riviste destinate al macero.

Segnaliamo poi il progetto PESO di Michela Panizza, anch’esso figlio del lockdown italiano, che vede nelle mascherine chirurgiche un potenziale inespresso. Dispositivi medici che, ricordiamo, sono fatti di polipropilene e che da soli impiegherebbero 450 anni per decomporsi. Una prospettiva spaventosa se pensiamo che, nel corso di un solo anno di pandemia, abbiamo utilizzato 1550 miliardi di mascherine.  In poco tempo e con pochi sforzi, Panizza è riuscita a reperire oltre 15.000 mascherine inutilizzate da enti, scuole e RSA con l’obiettivo di utilizzarle come materia prima per la creazione di nuovi oggetti, come un sacco da boxe e pesi da palestra. Se nel caso del sacco da boxe le mascherine sono state utilizzate come riempimento, i pesi (che sono in realtà leggeri) sono stati realizzati sciogliendo e colando le mascherine all’interno di uno stampo, che come unità di misura non riporta più i Kg ma il numero di mascherine contenute.

La Urgent Legacy dei designer svizzeri

Nei tre piani della House of Switzerland nel quartiere Moscova si intrecciavano le idee di decine di designer svizzeri uniti dal tema delle urgenze del nostro tempo. La Urgent Legacy, questo il nome della mostra collettiva, mette al centro il tema del cambiamento climatico, dell’emergenza ambientale, del riuso e della riqualificazione dei rifiuti, della valorizzazione delle produzioni locali e della necessità di investire nella produzione di dispositivi di inclusione (fra sorprendenti arti bionici e sistemi in grado di leggere gli impulsi nervosi).

Fra questi segnaliamo la mostra Paper Trail, che avviava una riflessione collettiva sulla scarsità delle materie prime, uno dei perni intorno a cui ruota la crisi globale, e sui possibili nuovi riusi della carta. Qui abbiamo osservato come sottili fogli di carta, attraverso sofisticati trattamenti di verniciatura,  possano diventare duri e resistenti; e come la polpa della carta riciclata, rimpastata a mano e pressata all’interno di stampi possa essere tenera argilla nella mani di una mente creativa.

Il motto di questi emerging talents è “progettare meglio” e in modo più assennato per rispondere alle rapide evoluzioni della crisi. Fra le idee più interessanti ricordiamo le maschere cosmetiche biodegradabili di Paula Cermeño León, gli oggetti di Studio Topo disegnati sulle potenzialità dei materiali di scarto in alluminio e le strutture similvetro di Studio Marthins stampate 3D e realizzate con polietilene riciclato.

Il potenziale educativo dei materiali

Sbirciando fra le aule e i corridoi dell’Accademia di Brera, siamo rimasti colpiti dall’esposizione (discreta ma essenziale) Vivarium, curata da Materially e TotalTool. Con un allestimento che ricordava un’antica erboristeria artigiana, la mostra metteva al centro i materiali bio-based e il loro potenziale educativo. Sperimentazioni e progettualità provenienti da aziende o piccoli studi di tutto il mondo, dal Giappone agli Stati Uniti. Dalle delicatissime tinture per tessuti dell’artista Kaori Akiyama, realizzate dagli scarti industriali dell’alga nori, alle fibre di bambù ultra performanti della start-up olandese Bambooder.

Ricca di spunti anche l’esposizione di Materially all’interno di Superstudio Più, Wonder Matter(s), che raccontava le potenzialità dei materiali partendo dal concetto di “meraviglia”. Qui ci siamo imbattuti i tessuti e carta d’arredo realizzata compattando petali, foglie e resti erbacei; tazzine da caffè nate da fondi di caffè post-industriali riciclati e da una miscela di biopolimeri; oppure Mogu, un prodotto fatto di micelio fungino alimentato da residui agroindustriali, perfetto come isolante acustico.

Immagine: Gabriele Correddu